martedì 29 gennaio 2013

THE PERVERT'S GUIDE TO IDEOLOGY

Secondo il filosofo sloveno Slavoj Žižek, già autore della sceneggiatura di The Pervert’s Guide to Cinema, diretto nel 2006 dalla stessa Sophie Fiennes, nella nostra società l’individuo non è più obbligato a investire la sua vita, fino a sacrificarla, in una causa (sia essa ideologica o politica), in quanto il suo dovere è divenuto quello di «apprezzare», cioè di trarre godimento da ciò che gli viene offerto. E vista la mole di proposte da cui veniamo bombardati, la ricerca del piacere può essere infinita. A sostegno di questa tesi innovativa, mai così attuale, la regista e il filosofo montano in sequenza le immagini tratte da cult movie e capolavori della storia del cinema (dal catalogo del TFF).





The Pervert’s Guide to Ideology muove da due premesse fondamentali. La prima, ovvia e propedeutica, è il film del 2006 The Pervert’s Guide to Cinema, anch’esso diretto da Sophie Fiennes, sorella dei più celebri Ralph e Joseph. La seconda, meno ovvia e cronologicamente vicina, è la tesi esposta nel primo lavoro importante scritto in inglese da Žižek: The Sublime Object of Ideology (1989), un libro nel quale il filosofo sloveno, zigzagando tra Hegel, Lacan, Marx, Althusser, post-strutturalismo, Soviet jokes, Freud, Pascal, Kafka and so on and so on, analizzava i fenomeni ideologici della contemporaneità alla luce della nozione di “antagonismo” - nozione esplicitamente mutuata da Hegemony and Socialist Strategy (1985) di Ernesto Laclau e Chantal Mouffe. Questa, al netto delle eventuali inesattezze di traduzione, la tesi in questione: “L’ideologia non è un’illusione simile a un sogno che costruiamo per sfuggire all’insopportabile realtà; nella sua dimensione basica è una costruzione di fantasia che serve come supporto per la nostra ‘realtà’ stessa: un’‘illusione’ che struttura le nostre effettive, reali relazioni sociali, mascherando in tal modo qualche insopportabile, reale, impossibile nucleo (concettualizzato da Emesto Laclau e Chantal Mouffe come ‘antagonismo’: una traumatica divisione sociale che non può essere simbolizzata). La funzione dell’ideologia non è offrirci un punto di fuga dalla nostra realtà, ma offrirci la realtà sociale come una fuga da qualche reale nucleo traumatico”.

Partiamo dai titoli di testa: se in The Pervert’s Guide to Cinema erano le macchie di Rorschach a suggerire il carattere proiettivo e segretamente normativo del desiderio filmico, in The Pervert’s Guide to Ideology sono le fenditure diagonali à la Saul Bass a tracciare la traiettoria del film: mostrare la frattura profonda che risiede sotto l’apparente omogeneità dell’immaginario cinematografico. Non è possibile sbagliarsi: The Pervert’s Guide to Ideology è un autentico film del terrore. Il cinema come arte delle apparenze è adesso osservato nella dimensione della scissura, della spaventosa spaccatura che esso stesso si premura di colmare con supplementi fantastici, fantasie di pienezza, mistificazioni simboliche. Il cinema, in altri termini, è ora scrutato nella sua natura di surrogato immaginario che occulta la mancanza costitutiva alla base dell’ordine simbolico. L’intero film, consacrato alle trancianti incursioni lacaniane di Žižek, sostituisce alla pulsazione del desiderio che scandiva The Pervert’s Guide to Cinema la logica schiacciante della demistificazione ideologica che conduce alla disintegrazione del grande Altro (il soggetto supposto sapere, la personificazione dell’ideologia). Sotto l’ingannevole e accomodante tessitura della realtà, fa la sua comparsa prima lo scheletro del condizionamento ideologico e infine l’inconsistenza dell’ordine simbolico, il suo strutturarsi intorno a un vuoto, a una sostanziale impossibilità di addomesticare l’antagonismo del reale.

Cruciali in questo senso le due pellicole prese corposamente in esame all’inizio e alla fine del film: Essi vivono (1988) di John Carpenter e Operazione diabolica (1966) di John Frankenheimer. Se il primo illustra la modalità operativa necessaria per disoccultare la menzogna ideologica (le lenti “radiografiche” indossate da John Nada: l’ideologia è nella nostra visione naturale delle cose, per metterla a fuoco occorre inforcare gli occhiali e non toglierli come recita il luogo comune), il secondo mostra l’agghiacciante inesorabilità del meccanismo mistificatorio (il rifiuto dell’identità costruita artificiosamente dall’organizzazione che gestisce le rinascite equivale alla condanna a morte del protagonista). In entrambi i casi il processo di riconoscimento comporta fatica e dolore: la fatica fisica e mentale necessaria a leggere tra le righe della realtà (che, giova ricordarlo, è già il prodotto della simbolizzazione del Reale) e il dolore procurato dall’acquisizione della consapevolezza che dietro le seducenti illusioni del grande Altro si cela il vuoto (un vuoto che è principio generatore di squilibrio/antagonismo e che l’ordine simbolico riveste di apparenze gratificanti). Come esemplifica la sequenza della crocifissione di L’ultima tentazione di Cristo, la disintegrazione dell’ordine simbolico coincide con l’esperienza di un’abissale insensatezza, del sordo caos delle cose, dell’assenza radicale di significato: “There is no ‘big Other’”, proclama trionfante Žižek.

Ma perché le guide fiennes-žižekiane sono perverse? In realtà l’aggettivo pervert si lega per zeugma anche al sostantivo cinema. Il cinema è perverso in senso lacaniano: “Nonostante sia comunemente associata alla cosiddetta deviazione sessuale, la perversione è anche un termine tecnico che la psicanalisi lacaniana usa per indicare la certezza che un soggetto ha di sapere ciò che l’Altro vuole. Il perverso è dunque definito da una mancanza di interrogazione. Egli è convinto di conoscere il significato del desiderio dell’Altro” (Tony Myers, Introduzione a Žižek, il melangolo, 2012, p.125). Parafrasando Žižek, il cinema è un’arte perversa perché non ci offre quello che desideriamo, ma ci dice precisamente come desiderare, ci addestra meticolosamente a farlo. L’isterica perversità delle guide risiede dunque nella messa in questione di questa certezza, nell’interrogazione deliberatamente eccessiva e oscena del cinema come ultimate pervert art, nella ricerca di quei punti di aggraffatura (points de capiton) che fissano i significanti al significato, stabilendo e unificando arbitrariamente il campo ideologico. Detto altrimenti, quelle di Žižek sono letture e interpretazioni che, pur intrecciando le teorie di Lacan, Hegel e Marx, creano le proprie condizioni di possibilità (ed è questo, secondo chi scrive, a renderle così suggestive e persuasive). Si tratta di un’autonomia ermeneutica che in qualche modo le sottrae alla confutazione diretta, trasformandole quasi in articoli di fede: in questo senso Žižek critica l’ideologia dialetticamente, contrapponendole cioè un altro campo ideologico, strappando i significanti dai significati e proponendo altri points de capiton (il riscatto rivoluzionario enunciato da Benjamin per esempio).

Naturalmente è più che lecito diffidare della logorrea dogmatica di Žižek, del suo compulsivo esibizionismo istrionico che Sophie Fiennes asseconda in tutto e per tutto (dalla riproduzione ad personam dei set dei film citati all’impiego di materiali televisivi sugli attentati norvegesi di Anders Breivik e sulle sommosse londinesi dell’agosto 2011). Così premurosamente protetto e spalleggiato, il gigante di Lubiana non parla, pontifica; non esprime giudizi, sentenzia. E quando non è direttamente in scena, la sua voce narrante evoca una costellazione cinematografica prontamente portata sullo schermo a dimostrazione/delucidazione/amplificazione delle sue tesi: i titoli chiamati in causa sono davvero troppi per essere menzionati dettagliatamente e ordinatamente: basti sapere che nei suoi 134' The Pervert’s Guide to Ideology estrae dal cilindro sequenze da Tutti insieme appassionatamente, Arancia meccanica, M*A*S*H, Full Metal Jacket, Il trionfo della volontà, Lo squalo, The Fall of Berlin, Gli amori di una bionda, Titanic, Brazil, Sentieri selvaggi, Taxi Driver, Zabriskie Point

Vero è che il più delle volte che Žižek si riferisce al cinema lo fa in funzione strumentale: usa le situazioni narrative per illustrare punti teorici o riflettere sull’ideologia contemporanea. Una tattica, questa, che spiega la preponderanza di esempi hollywoodiani: è nel cinema hollywoodiano che, sostiene Žižek, si può cogliere l’ideologia che struttura la nostra esperienza quotidiana nella sua forma distillata, quintessenziale, “at its purest”. Ma se l’analisi filmica in quanto tale è piuttosto carente (già nel 2005 Bordwell aveva gioco facile nel demolire il metodo argomentativo žižekiano), le sue scorribande ermeneutiche hanno il non trascurabile merito di spingersi nelle pieghe nascoste delle sequenze, mostrandone le contraddizioni interne o le risonanze inattese. Anche la più neutra delle descrizioni partorisce un guizzo, un’intuizione, uno scatto del pensiero: a prescindere dai titoli di verità delle affermazioni sparate a raffica sullo spettatore, l’imbonitore è inseparabile dal pensatore, l’incantatore di serpenti dal filosofo, il clown dal maître à penser. Singolare compresenza che non molla mai l’osso (“Lo spirito è un osso”, replicherebbe Žižek citando Hegel), neanche quando, dopo i titoli di coda, il cadavere di Leonardo DiCaprio affogato in Titanic torna a galla con le fattezze di Slavoj a pugno chiuso. Impossibile resistere alla tentazione di leggere Žižek con Žižek stesso. In The Pervert’s Guide to Cinema, collegando la nozione di oggetto parziale autonomo a Il dottor Stranamore, il filosofo sloveno si esprimeva in questi termini: “Forse la parte definitiva del corpo che meglio interpreta il ruolo di oggetto parziale autonomo è il pugno o, piuttosto, la mano. Questa mano che si alza è il punto chiave del film. Non è semplicemente qualcosa di estraneo a lui, ma il vero nucleo della sua personalità”. Siamo, qui, dalla parte del pugno.

Recensione pubblicata su www.spietati.it.

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