giovedì 17 gennaio 2013

Lo strano caso del 7 e del 22: come improvvisarsi soggetti del cinema

mon_voyageIl cinema non è un soggetto. Tutt’al più è un oggetto di riflessione. Nelle sue innumerevoli manifestazioni chiama sì in causa intere legioni di soggetti reali - i cosiddetti addetti ai lavori - ma nessuno di loro, per quanto si affanni a sottometterlo alla propria volontà, ne può controllare l’esuberanza semantica, la spinta centrifuga. Il cinema, insomma, è un’entità paradossale: accoglie docilmente in sé la pulsione espressiva di soggetti disparati, ma non si riduce a tradurla pedissequamente, a dattilografarla. Si presta senza assoggettarsi, si concede mantenendo una certa indipendenza. Questa autonomia non ha niente di soggettivo, d’intenzionale: si configura esattamente come un surplus, un’eccedenza, una resistenza all’ordine imposto da forze estranee. Non c’è autorialità o logica spettacolare che tenga: la materia cinematografica, per quanto pensata meticolosamente o generata digitalmente, sfugge alla traduzione dell’idea che l’ha concepita, resiste alla manipolazione integrale. Ebbene, questo surplus è precisamente l’altro del cinema. Un’alterità che si concretizza prendendo le distanze dalle intenzioni della messa in scena, giacendo sotto di essa, sedimentandosi in un fondo letteralmente inesauribile, suscettibile di infinite scorribande interpretative.

Osservato da questa prospettiva, il confronto tra film e spettatore è quello tra un soggetto e un testo che, sebbene progettato a tavolino, conserva una certa indisciplina, un’inevitabile dose di indocilità. È nel caso, in definitiva, che mi piace indovinare quella dimensione residuale che costituisce il corpo del cinema, un corpo senza soggetto. Di fronte all’immagine cinematografica, sta a me in quanto spettatore cogliere questo giacimento di alterità, questo campo di virtualità sottointerpretative. Non si tratta più di rinchiudere la catena filmica in strutture sempre più forti e logicamente necessitate, ma, al contrario, forzare gli anelli deboli, rompere quella logica di implicazione che costringe le inquadrature a dialogare tra loro, a tenersi strette in un discorso di bronzea necessità. Se l’altro del cinema è un corpo casuale senza soggetto, sarò io il suo estemporaneo soggetto vicario: nella casualità troveremo un terreno d’intesa, è questa l’ipotesi che mi muove qui e ora.

Ovviamente il lettore paziente (se mi ha seguito fin qui la pazienza fa senz’altro parte del suo corredo di qualità) e minimamente smaliziato sentirà odore di nozze coi fichi secchi: è una piccola malvagità che colpisce a fondo. Ciononostante mi pare che questo passaggio dal sintomatico (la lettura rigorosamente codificata delle intenzioni del testo) al somatico (l’interrogazione deliberatamente eccessiva della materia filmica) metta in luce una zona fluttuante tra senso e sensorialità, un richiamo ai nostri sensi non ancora precisato semanticamente ma tutt’altro che innocuo o cinematograficamente neutro. In modo dilettantesco e velleitario, mescolo arbitrariamente il senso ottuso e il punctum di Barthes, l’enunciazione impersonale di Metz , l’interpellazione di Althusser e il sinthome lacaniano ripreso da Žižek (“una macchia inerte che resiste alla comunicazione e all’interpretazione, una macchia che non può essere inclusa nel circuito del discorso”)1. Ma non occorre ricorrere ad altisonanti autorità per giustificare un gioco in fin dei conti gratuito e vagamente solipsistico: il godimento sta nell’abbandonarsi al caso, fare della casualità il principio stesso del gioco.

Mon_Voyage_dHiver_Quando e come nasce questa ipotesi ludica? Durante una visione notturna di Mon Voyage d’Hiver (2003), terzo lungometraggio di Vincent Dieutre che racconta il suo viaggio in Germania in compagnia del figlioccio Itvan. A Dresda, Vincent incontra Werner, un vecchio amante, e i due si recano in una sala da tè, raggiunti poco dopo da Itvan. I due si scambiano gesti affettuosi in seguito a un regalo fatto da Werner a Vincent: Itvan li osserva divertito, sorridendo, poi si guarda intorno e dalla sua espressione trapela un’ombra d’imbarazzo. Il suo sguardo circospetto e irrigidito dura soltanto qualche frazione di secondo, ma è una stilettata gelida che squarcia l’unità affettiva della scena: l’atmosfera calda e cordiale della situazione precipita nella ghiaccia condiscendenza, nella vergogna. Si tratta di uno sguardo scandaloso che lacera irreparabilmente l’intera sequenza: uno sguardo molesto, accidentale e traumatico che il cinema incorpora imperturbabile.

Questo eccesso è esattamente ciò che m’irretisce: mi trovo impigliato in una rete di interrogativi ai quali non posso rispondere con certezza. Perché quello sguardo è lì? L’impressione contraddittoria è un effetto della sequenza o deriva da una mia proiezione inconsapevole? Mi riconosco in quello sguardo? Che cosa vuole da me quell’immagine? Diventa insomma impossibile separare oggetto filmico e soggetto spettatoriale: i codici di cui dispongo (narrativi, iconografici, prossemici) mi aiutano fino a un certo punto, superato il quale divengono sdrucciolevoli, inaffidabili, insufficienti. E non ve ne sono altri che vengano a colmare questa lacuna: faccio qui un’esperienza-limite, entro in un territorio non simbolizzabile, non riducibile a corrispondenze univoche. Un territorio indiscreto collocato tra senso e sensorialità nel quale l’altro del cinema (il suo corpo eccessivo) si manifesta fuggevolmente e casualmente, ma con una sconcertante intensità d’interpellazione.

Ora, una piccola indagine consacrata all’idea del caso come altro del cinema esige un metodo il più possibile casuale. Ho dunque domandato a un’amica di suggerirmi due numeri (7 e 22) che mi orienteranno nella scelta dei film e delle sequenze da prendere in considerazione: il settimo film in ciascuno dei luoghi sparsi nei quali accumulo cassette/dvd e la sequenza del ventiduesimo minuto. L’obiettivo consisterà nello scovare qualcosa di eccedente alla logica della messa in scena, qualcosa che sveli il corpo del cinema inteso come eccesso non simbolizzabile, come ostacolo alla decodifica convenzionale della catena filmica.

Finis_Terrae1- Finis Terrae (1929), Jean Epstein. La vicenda dei quattro pescatori d’alghe sull’isola di Bannec non mi interessa, attiene alla sfera dell’aneddotico, del narrativo in senso stretto. Quello che mi colpisce è invece un’inquadratura di pochi secondi che scocca precisamente al ventiduesimo minuto. Nell’inquadratura precedente, il giovane Ambroise ha allontanato in malo modo il più maturo compagno di pesca dalla baracca e quest’ultimo, a braccia conserte, entra nella nostra inquadratura (un campo medio) dalla sinistra, fermandosi quasi al centro dello spazio e dando le spalle alla cinepresa. Il suo corpo è l’unico elemento verticale dell’immagine e occupa circa un terzo dell’altezza complessiva del quadro. Qualche passo dietro di lui, alla sua sinistra, un modesto mucchio di alghe lasciate a seccare. Davanti a lui delle formazioni rocciose arrotondate oltre le quali si scorge un’insenatura e, più in profondità, la vastità del mare. La baracca invece è leggermente più in basso, nascosta dalle rocce. Ma, a dominare il quadrante superiore destro dell’inquadratura, un imponente masso di forma ellittica, completamente scuro, che ostruisce la visuale.

Una lettura banalmente simbolica ascriverebbe l’intera composizione dell’inquadratura alla retorica narrativa, percorrendo l’immagine dal primo piano allo sfondo e da sinistra a destra: il piccolo mucchio di alghe a sinistra rappresenterebbe l’insufficienza del lavoro svolto da Ambroise (il motivo fondamentale del contrasto tra i due personaggi), la postura a braccia conserte dell’esperto pescatore indicherebbe la sua disapprovazione nei confronti del più giovane e inoperoso collega, le rocce oggettiverebbero la distanza che li separa e l’insenatura sullo sfondo suggerirebbe il dovere che li aspetta (raccogliere quante più alghe possibili prima dell’arrivo dell’autunno). Qui siamo precisamente all’interno della logica di implicazione: leggiamo i segni iconici in base alle informazioni accumulate precedentemente. Tuttavia la minacciosa presenza del macigno che domina la parte destra dello schermo, oscurandone circa un quarto e proiettando un’ombra irregolare sul terreno, crea un vero e proprio buco nero nell’inquadratura. La sua sagoma ovoidale e bitorzoluta toglie aria all’immagine, ostruendola prepotentemente: è come se nel tessuto dell’immagine si producesse uno strappo in cui il visibile viene a mancare. Indifferente alle esigenze della messa in scena, questo buco nero risucchia il mio sguardo senza offrirmi scappatoie metaforiche: resiste alla simbolizzazione come un corpo estraneo. È un punto cieco, un vuoto che mi interroga e mi attrae nella sua oscena, eccessiva assenza di significato.

Dupont_Lajoie2- Dupont Lajoie (1975), Yves Boisset. La sequenza del ventiduesimo minuto ci porta in una situazione di ordinario squallore: una cena all’aperto in un camping della Francia meridionale alla quale partecipano tre famiglie di vacanzieri (i Lajoie, gli Schumacher e i Colin). Brigitte (Isabelle Huppert), la giovane e attraente figlia dei Colin, raggiunge il gruppo rientrando da una passeggiata con due coetanei. Saluta cordialmente i presenti, assaggia cortesemente una delle leccornie alsaziane portate dagli Schumacher e, dicendosi stanca, si congeda rapidamente dalla compagnia per andare nella sua tenda, a pochi metri dalla tavolata. Non appena entrata nella tenda, accende la lampada da campeggio sistemata a terra dietro di lei e la sua silhouette appare in controluce. Georges Lajoie, ripreso in mezza figura, rivolge lo sguardo verso la tenda preparando l’inquadratura successiva: una soggettiva sull’ombra di Brigitte che si toglie il vestito. Un primo piano sullo sguardo concentrato di Georges sottolinea il desiderio dell’uomo e ribadisce la qualificazione erotica dell’inquadratura seguente: un’altra soggettiva ravvicinata sul corpo nudo di Brigitte che traspare dal tessuto della tenda.

In questa sequenza siamo in pieno regime di manipolazione spettatoriale: non solo la situazione implica un alto tasso di inverosimiglianza (i genitori di Brigitte sono a pochi metri da Georges e il suo sguardo verso la tenda è troppo insistente per non essere notato), ma le due soggettive dell’uomo sono troppo vicine alla tenda rispetto alla sua posizione effettiva nella scena. Funziona qui la vecchia convenzione ottico-psicologica (ne parlava già Hugo Münsterberg nel 1916) dell’ingrandimento dell’oggetto osservato come equivalente cinematografico del fenomeno psichico dell’attenzione. Eppure è proprio questa procedura manipolatoria apparentemente innocente a provocare altri due fenomeni strettamente connessi tra loro. Il primo consiste nell’impressione di fantasia erotica creata dall’eccessiva prossimità alla tenda delle soggettive (due particolari anziché campi medi o totali come prescriverebbe il protocollo realista): la superficie semitrasparente della tenda diviene lo schermo sul quale Georges proietta il desiderio rapinoso nei confronti di Brigitte, in qualche modo producendo un’immagine visibile soltanto da lui. Il secondo, a un livello ancora più inarticolato, concerne la materia stessa dell’immagine: le ombre disegnate dal corpo di Brigitte sulla superficie inclinata e ondeggiante della tenda sono forme cangianti e distorte che alterano vistosamente il suo profilo, sottoponendolo a una metamorfosi inquietante. L’eccesso di prossimità, escogitato artificiosamente per intensificare la carica desiderante delle soggettive, finisce quindi per creare un effetto contrario: la trasformazione della sagoma di Brigitte in figura minacciosamente metamorfica. Se la messa in scena feticizza la fantasia erotica riducendo il corpo femminile a oggetto di puro consumo visivo, il corpo del cinema polverizza la logica della messa in scena disgregandone la compattezza iconico-simbolica. Detto altrimenti, è come se la fantasia erotica, approssimandosi troppo al desiderio che l’ha generata, mostrasse segni di cedimento iniziando materialmente e pericolosamente a deformarsi.

Contemporaneamente alla stesura di questo piccolo saggio di ludica follia, sto rileggendo Hegel e il mondo alla rovescia di Maria Moneti (1986), professoressa di filosofia morale all’Università di Firenze scomparsa il 6 agosto 2011. A pagina quindici, trovo questo passo: “Allora il cammino fenomenologico consiste nel lavoro mediante il quale ciò che è solo «noto» viene problematizzato e riportato all’attenzione della coscienza, conosciuto, e nel lavoro per il quale ci si riappropria del mondo esterno e si restituisce alla vita ciò che stava là inerte e opaco, traccia divenuta ormai incomprensibile”. Pur trasferita indebitamente dal confronto tra coscienza comune e sapere filosofico alla relazione tra soggetto spettatoriale e corpo del cinema, la traiettoria che sto seguendo mi pare al tempo stesso contraria e conseguente a questo “cammino fenomenologico”: contraria poiché intende strappare alla coscienza l’illusione di ottenere la conoscenza assoluta dell’immagine filmica (nell’immagine c’è sempre qualcosa che intralcia il lavoro interpretativo, qualcosa che mi impedisce di decodificarla giudiziosamente, di farla coscienziosamente mia). E conseguente in quanto intende restituire effettivamente alla vita “ciò che sta là inerte e opaco”, con la cruciale precisazione che questa “traccia divenuta ormai incomprensibile” non appartiene al mondo, allo spettatore o alla Ragione, ma al cinema inteso come corpo senza soggetto. Non nascondo la natura confusamente teorica e metodologicamente empirica di questa ipotesi, ciononostante mi pare essenziale rendere conto di una sensazione che mi ha investito troppe volte durante la visione per essere ignorata o liquidata come trascurabile impressione psicologica.

Giochi_proibiti3- Giochi proibiti (Jeux interdits, 1952), René Clément. Ironia del caso, il titolo del film si adatta perfettamente alla clandestinità della mia investigazione, al suo carattere teoricamente illecito e concettualmente impertinente. Tra il ventiduesimo e il ventitreesimo minuto di questa celeberrima pellicola succede qualcosa di obliquamente attinente al discorso fin qui sviluppato, qualcosa che illumina in negativo la dialettica tra logica della messa in scena e irriducibilità simbolica del caso. Georges (Jacques Marin), il fratello maggiore del piccolo Michel (Georges Poujouly), è nel suo letto ma non riesce a dormire a causa delle contusioni riportate durante un incidente con un cavallo imbizzarrito. Nel cuore della notte, il sofferente Georges è disturbato da una farfalla che svolazza intorno a una lampada a olio e proietta la sua ombra sulle pareti della stanza. La falena urta a più riprese contro l’ampolla di vetro che protegge la fiamma, producendo un fastidioso tintinnio e finendo per cadervi dentro. La breve sequenza (circa 30”) è introdotta da una dissolvenza incrociata ed è composta da otto inquadrature, di cui soltanto due sono inequivocabilmente qualificate come soggettive (la prima è una lenta panoramica dal basso verso l’alto a seguire lo spostamento dell’ombra della falena dalla parete al soffitto e la seconda è un’inquadratura fissa sulla lampada in cui la farfalla termina definitivamente il volo).

Se osservata in filigrana, l’intera sequenza mostra con esemplare nitidezza il fallimentare tentativo di inglobare interamente il caso nella strategia della messa in scena. Qui l’apparato simbolico è piuttosto forte e si articola su tre livelli distinti: il primo poggia genericamente sulle connotazioni funeste che la cultura popolare attribuisce all’insetto notturno (sventura, presagio di morte), il secondo collega il comportamento autodistruttivo della falena alla situazione del moribondo (di fatto Georges, ignorando la raccomandazione della madre a non toccare il cavallo, si è precipitato testardamente verso la sua morte come la falena con la fiamma della lampada) e il terzo, infine, associa il volo della farfalla al raid (situato all’inizio del film) degli aerei nazisti sul convoglio dei civili francesi che nel giugno del 1940 stavano migrando verso il Sud per sfuggire all’invasione tedesca (non è affatto fortuito che, immediatamente prima dell’incidente di Georges, uno Stuka voli a bassa quota facendo scattare nervosamente il cavallo). La catena simbolica è dunque così stretta e necessitata da disegnare un triangolo tra superstizione, narrazione e storia (i bombardieri nazisti hanno effettivamente attaccato a più riprese i civili francesi durante l’“Esodo del 1940”).

Tuttavia basta fare un passo indietro e uscire dalla concatenazione simbolica per accorgersi che la sequenza, cinematograficamente, è gravata da un’artificiosità imbarazzante: il gioco di ombre sulle pareti e sul soffitto tradisce platealmente la natura di espediente luministico, il fraseggio tra soggettive e primi piani risulta sintatticamente schematico e il tintinnio della falena sull’ampolla di vetro suona fragorosamente inverosimile. Sarebbe fuorviante attribuire all’inadeguatezza tecnica questo sapore di artificio: dal punto di vista iconografico la sequenza tiene perfettamente e la triangolazione tra i tre vertici semantici si chiude senza interruzioni. Ciò che stride, invece e molto più precisamente, è il tentativo di simulare un evento casuale e iscriverlo a priori nella geometria simbolica. Quando si atteggia a caso, insomma, la messa in scena non può che imbattersi in un limite intrinseco: l’impossibilità di farsi corpo, di accogliere in sé l’altro da sé, di farsi cinema. Ebbene, qui nulla è lasciato al caso e proprio per questo motivo il caso, espulso perentoriamente dalla messa in scena, si prende la rivincita gettando sull’intera sequenza l’ombra della mistificazione. Altrimenti detto, il corpo del cinema, in virtù della sua assenza, smaschera impietosamente la natura di messinscena della messa in scena. Giunto in qualche modo al termine di questa velleitaria esplorazione teorico-critica, mi spingerei addirittura ad affermare che più il lavoro di regia si fa consapevole e controllato, più il cinema si cristallizza in teorema incorporeo e ideologico. Ma spingersi a tanto sarebbe davvero troppo dogmatico e sproporzionatamente ambizioso: mi fermo qui, alquanto disorientato, tra il 7 e il 22.


Nota

1
Žižek (1989, pp. 81-82) recupera il neologismo lacaniano di sinthome definendolo in questi termini “This, then, is a symptom: a particular, ‘pathological’, signifying formation, a binding of enjoyment, an inert stain resisting communication and interpretation, a stain which cannot be included in the circuit of discourse, of social bond network, but is at the same time a positive condition of it”.


Bibliografia

Moneti M. (1986): Hegel e il mondo alla rovescia, La Nuova Italia, Firenze
Žižek S. (1989): The Sublime Object of Ideology, Verso, London and New York


Filmografia

Dupont Lajoie (Yves Boisset 1975)
Finis Terrae (Jean Epstein 1929)
Giochi proibiti (Jeux interdits) (René Clément 1952)
Mon Voyage d’Hiver (Vincent Dieutre 2003)

Intervento pubblicato su www.uzak.it.

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