sabato 20 ottobre 2012

Gli anni delle immagini perdute


Gli anni delle immagini perdute delinea il ritratto di Valerio Zurlini, scomparso nell’ottobre 1982, poche settimane dopo aver partecipato come giurato alla 50ª Mostra del Cinema di Venezia. Zurlini sapeva di essere malato e aveva dedicato gli ultimi mesi di vita alla scrittura del proprio testamento spirituale, che uscirà postumo con il titolo Gli anni delle immagini perdute. Un bilancio esistenziale spietato, il racconto di un mondo che cambia in modo irreversibile, un appello struggente in difesa del cinema d’autore. Il regista ripercorre gli episodi più importanti della propria vita, indica le ragioni del suo cinema, ricorda gli artisti che l’hanno formato. Soprattutto: denuncia le “immagini perdute”, i tanti film cioè che egli scrisse e preparò senza riuscire a portarli a compimento. Gli anni delle immagini perdute torna nei luoghi in cui il regista amava ritirarsi, raccoglie le testimonianze di amici e collaboratori, ripropone il repertorio di interviste e conversazioni del regista, nel tentativo di capire le cause di questo forzato e fatale “silenzio” produttivo (dal catalogo della Mostra). 

Accorata e rispettosa riduzione dell’omonimo libro-diario di Valerio Zurlini, Gli anni delle immagini perdute di Adolfo Conti si situa a metà strada tra il documentario di risarcimento e l’illustrazione intima. Un risarcimento che ha per oggetto non tanto la filmografia zurliniana - sparuta e intralciata da mille ostacoli ma in fin dei conti bastante a se stessa - quanto i progetti mai portati a termine dal cineasta bolognese, quelle “immagini perdute” condannate a rimanere allo stato embrionale di progetti interrotti, di sceneggiature pronte a essere tradotte in pellicola ma destinate a ingiallire in un cassetto. E un’illustrazione intima che, pur ricalcando giudiziosamente la scansione diaristica, dà corpo alle pagine scritte cavalcandone le suggestioni atmosferiche (i rigidi e nebbiosi inverni della laguna), intrufolandosi discretamente negli ambienti domestici (la casa veneziana di Wally Toscanini) e dilatandosi maestosamente nella contemplazione pittorica (la rapita ammirazione delle opere di Paolo Veronese nella chiesa di San Sebastiano). Mentre la voce narrante recita fedelmente e sentitamente le parole del diario, il documentario si abbandona alla sensibilità zurliniana nel tentativo di oggettivare visivamente lo spartito letterario cogliendone il sentimento profondo. Del resto non c’è bisogno di scompaginare un testo di per sé rapsodico ed evocativo come il libro di Zurlini, la divagazione e la scioltezza narrativa ne costituiscono il ritmo interno: “La memoria è bizzarra, indulgente, vanitosa, sentimentale, è breve, permalosa, bugiarda anche quando in buona fede, ma i suoi sentieri infiniti sono tracciati sempre da una logica segreta”.

E proprio in questo tentativo di captare e restituire la sensibilità zurliniana risiede il maggior pregio del documentario. Adolfo Conti non assume un atteggiamento distaccato o blandamente descrittivo, ma si immerge nell’universo dell’autore di Cronaca familiare come lo stesso Zurlini si era immerso in quello pratoliniano adattando il romanzo omonimo: rispettandone programmaticamente la lettera e lo spirito. Siamo a un solo passo dal ritratto agiografico, certo, eppure questo slancio di immedesimazione traspare a più riprese e - fatta eccezione per il finale enfaticamente roboante - genera momenti di sincera commozione e rimpianto. Sono le parti dedicate alle tre “sceneggiature morte” (La zattera della Medusa, Verso Damasco e Il sole nero) quelle che colpiscono più a fondo: tre copioni scomodi e gravidi di dubbi esistenziali, colmi di quel senso di irrimediabile sradicamento e dissidio interiore che soltanto Zurlini avrebbe saputo tenere in equilibrio tra confessione privata e riflessione universale, tra allegorie di un mondo in disfacimento e severa autoanalisi. Ciononostante Gli anni delle immagini perdute non si esaurisce nel ricordo mimetico e nella sconfortata amarezza, ma - grazie al gioco di sponda con filmati d’archivio (il Leone d’Oro del 1962 ex-aequo con Tarkovskij, i servizi televisivi sui set di Cronaca familiare e Le soldatesse) e interviste a collaboratori e interpreti (Giulio Questi, Enrico Medioli, Jacques Perrin, Claudia Cardinale) - abbraccia un orizzonte più ampio, quello di un intero periodo del cinema italiano (da metà anni ’50 agli inizi degli ’80). Un cinema sempre più soffocato dalla concorrenza televisiva e sempre meno disposto a dare spazio a un cantore di antiche fragilità come Valerio Zurlini.
Recensione pubblicata su www.spietati.it.

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