
Gli spoiler non mancano, le considerazioni squisitamente soggettive
nemmeno: astenersi puristi della metodologia critica nonché lettori non
muniti di apposita visione filmica.
Liberamente ispirato alla raccolta di racconti Rust and Bone (2005) dello scrittore canadese Craig Davidson (pubblicata in Italia da Einaudi nel 2008), Un sapore di ruggine e ossa segna una netta inversione di marcia nel cinema di Jacques Audiard. Dopo lo straordinario successo di Un prophète
- Grand Prix della Giuria al 62º Festival di Cannes e vincitore di ben
nove César - il cineasta e sceneggiatore francese non teme il
cambiamento, al contrario azzarda una brusca variazione di registro
rispetto all’universo concentrazionario e prettamente maschile della
pellicola precedente. Si tratta di una sterzata che non coinvolge
soltanto l’aspetto esteriore (nomadismo anziché reclusione, spazi aperti
anziché luoghi di detenzione, presenza di personaggi femminili anziché
esclusività virile) o il genere cinematografico di riferimento (mélo vs
carcerario), ma interessa anche uno strato più profondo del film. Se
finora Audiard, pur in misura diversa, aveva raccontato la storia di
individui che, messi con le spalle al muro da eventi fortuiti,
scoprivano o esaltavano un talento sconosciuto o sopito, con De rouille et d’os
rinuncia a questa dinamica eminentemente maieutica per aprirsi alla
libertà dell’occasione. Per quanto vincolanti e immobilizzanti, le
circostanze non rappresentano più condizioni assolute che costringono
l’individuo-camaleonte a reinventarsi, ma costituiscono occasioni che il
soggetto può cogliere per ridefinire se stesso, per riscriversi (si
pensi ai tatuaggi sulle cosce di Stéphanie) nonostante le mutilazioni o i
traumi subiti.

Ricavare
una forma dal caos, accentuare le differenze di luminosità e
temperatura drammatica tra le sequenze, costruire i personaggi per
frammenti che finiscono per ricomporsi: sono questi partiti presi a
tracciare le linee guida del film, sia nell’andatura narrativa
deliberatamente rapsodica ed ellittica che nella sintassi visiva
marcatamente accidentata e sgrammaticata. “Abbiamo voluto un film di
contrasti”, afferma il direttore della fotografia Stéphane Fontaine
(alla terza collaborazione con Audiard dopo Tutti i battiti del mio cuore e Il profeta).
E aggiunge: “Il film va in tutti i sensi. C’è una specie di
accompagnamento costante. Sono delle persone a pezzi che si
ricostruiscono gradualmente e l’immagine accompagna questi movimenti”.
Un percorso di riconfigurazione che investe sia i personaggi
rappresentati che lo statuto attoriale dei due protagonisti. Alla
lettera nel caso di Stéphanie/Marion Cotillard, in un’operazione di
impressionante mutilazione (calze verdi sul set cancellate in
postproduzione) satura di risvolti spettacolari: non è solo il
personaggio di Stéphanie, la bella arrogante, a perdere le gambe ma
anche l’icona Cotillard. La star cade dal suo piedistallo.
Metaforicamente per Ali/Matthias Schoenaerts, in un processo di
umanizzazione che prende le mosse da Bullhead (2011) di
Michael R. Roskam (nel quale Schoenaerts interpreta una figura dai
forti tratti bovini) per ridisegnarlo umanamente, per renderlo qualcosa
di diverso da un semplice ammasso di carne gonfiata con estrogeni e
ormoni steroidei.

Detto altrimenti, De rouille et d’os
soffre spesso il regime della libertà vigilata (si pensi agli incastri
forzati: Ali fa jogging mentre gli sfrecciano accanto le ambulanze che
si recano a soccorrere Stéphanie), delle corrispondenze interne a
scoppio ritardato (la bocca spalancata dell’orca che richiama
l’incidente, il dente di Ali che richiama i denti dell’orca…) e, se è
lecito spingersi a tanto, di una condiscendenza per la tecnica tutto
sommato piuttosto stucchevole (difficile, per chi scrive, non sospettare
che il profluvio di ralenti sia legato alla prodigiosa facilità
con cui la camera Red Epic riesce a girare a 120 e 300 fotogrammi al
secondo). Ma, al netto dei supposti limiti, il sesto lungometraggio di
Jacques Audiard ci consegna l’ennesima prova di un cineasta di
cristallina sensibilità audiovisiva (da “Wash” di Bon Iver al
Trentemøller remix della springsteeniana “State Trooper” passando per
“Love Shack” dei B-52’s, non vi è scelta musicale pretestuosa o
decorativa), animato da un’inesausta tensione esplorativa e tutt’altro
che disposto a imbalsamare il suo cinema nel sarcofago del successo.
Recensione pubblicata su www.spietati.it.
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