domenica 15 luglio 2012

Take Shelter (2011), Jeff Nichols


Curtis LaForche vive in una piccola citta dell’Ohio con la moglie Samantha e la figlia di sei anni Hannah, affetta da sordità. Curtis si guadagna modestamente da vivere come caposquadra in una compagnia di estrazione sabbia. Samantha è una madre casalinga e sarta part-time che arrotonda le entrate della famiglia vendendo, ogni fine settimana al mercatino delle pulci, merce fatta a mano. Il denaro è comunque poco e barcamenarsi tra le cure di Hannah e l’educazione specializzata di cui ha bisogno la bambina non è affatto facile. Ciononostante, Curtis and Samantha si amano profondamente e la loro è una famiglia felice. Improvvisamente Curtis inizia ad avere incubi su una tempesta incombente. Tuttavia decide di non rivelare alla moglie il turbamento che agita i suo sonni, convogliando l’ansia nella costruzione ossessiva di un rifugio anti-tornado nel giardino dietro casa. Il suo comportamento apparentemente incomprensibile preoccupa Samantha e provoca contrasti con colleghi, amici e vicini. Ma l’incrinatura del rapporto coniugale e la crescente ostilità della comunità non attenuano affatto le fobie di Curtis.


L’ansia scaturisce dalla consapevolezza di aver qualcosa da perdere: è questa l’idea embrionale di Take Shelter. Un’idea semplice e piuttosto banale (quanti di noi non storcerebbero la bocca a sentirla pronunciare come fosse una verità assoluta?), ma Jeff Nichols, già autore dell’apprezzabile Shotgun Stories (2007), la sviluppa in forme cinematografiche tutt’altro che insulse e risapute, mostrando un indubbio talento visivo e un’abilità altrettanto ragguardevole nel tenersi in equilibrio tra suggestioni ambientali e incisività narrativa. Classe 1978, il cineasta e sceneggiatore americano ha descritto così le motivazioni profonde che lo hanno spinto a concepire il suo secondo lungometraggio: “Quando ho iniziato a scrivere Take Shelter ero a metà del mio primo anno di matrimonio. Benché la mia carriera e la mia vita personale fossero su una buona strada, avevo la sensazione assillante che il mondo in generale andasse incontro a momenti più difficili. Questa ansia generalizzata era in parte economica e in parte soltanto crescente, ma in prevalenza derivava dal fatto che finalmente nella mia vita avevo delle cose che non volevo perdere. Tutte queste sensazioni sono filtrate direttamente nei personaggi di questo film” (dichiarazioni tradotte dal sito ufficiale).

Eminentemente emozionale, la concezione cinematografica di Nichols (si notava già chiaramente in Shotgun Stories) mira a stabilire una connessione tra film e spettatore sulla base di sentimenti personali e ordinari (la vendetta nel lungometraggio precedente, la preoccupazione per il futuro in questo) aggregandoli allo spirito del tempo, intercettando insomma angosce diffuse (il tambureggiare delle guerre, la crisi economica mondiale) e fissandole in manie ossessive di ampia potenzialità drammatica (la faida familiare in Shotgun Stories, la lilapsofobia in questo frangente). Era così che una tragedia domestica ambientata nell’Arkansas quale Shotgun Stories diveniva parabola in qualche modo universale sulla necessità di interrompere la spirale vendicativa, ed è così che un dramma paranoico ambientato nell’Ohio come Take Shelter si tramuta in thriller apocalittico sull’incertezza dell’avvenire, sul timore di un cataclisma imminente. Ancora Nichols: “Ho scritto Take Shelter perché credevo che nel mondo ci fosse un sentimento palpabile. Si trattava di un’ansia molto reale nella mia vita e avevo la convinzione che fosse altrettanto reale nelle vite degli altri americani così come per le persone di tutto il mondo. Questo film è stato un modo di parlare di quella paura e quell’ansia”.

Per ampliare lo spunto privato e conferire universalità alla sensazione intima, Nichols ricorre a un approccio epico nonostante il budget non esorbitante. Innanzitutto non rinuncia alla pellicola: dal momento che Take Shelter è un film sui cieli, non intende affidare la resa fotografica delle turbolenze ambientali all’aleatorietà dell'immagine digitale. In secondo luogo abbraccia il formato panoramico (2:35): il CinemaScope espande la tela visiva e dilata la percezione atmosferica (non soltanto gli addensamenti nuvolosi e i tracciati elettrici dei lampi, ma anche l’orizzontalità dei paesaggi e il manifestarsi di inquietanti presagi come le formazioni aeree disegnate dagli stormi di uccelli). Infine pone grande attenzione alla dimensione sensoriale della rappresentazione, enfatizzando i dettagli tattili e olfattivi (si pensi al prologo: Curtis si sfrega le dita bagnate di pioggia oleosa e subito dopo le annusa), assegnando così forte rilevanza semantica all’attività percettiva slegata dal dominio verbale (importanza dei gesti e delle percezioni ribadita dal linguaggio dei segni adoperato per comunicare con la figlia e rimarcata dalla densità sensoriale che contraddistingue gli incubi e le allucinazioni del protagonista: “It‘s hard to explain because it’s not just a dream, is feeling”, confida Curtis alla moglie Samantha).

Ne risulta un film di robusto impianto cinematografico in cui l’assenza della canonica struttura drammaturgica in tre atti (a. introduzione dei personaggi; b. conflitto; c. risoluzione) è rimpiazzata da una pronunciata linearità e da una salda coesione narrativa (i movimenti dei personaggi e la loro collocazione temporale sono sempre ben definiti). Curato dalla casa Hydraulx (la stessa di Avatar), il comparto effetti speciali non scombussola l’allestimento visivo classico (scansione netta delle sequenze, soggettive e semisoggettive di immediata leggibilità) e si limita a distorcere alcuni parametri realistici in chiave allucinatoria (come nell’incubo con sospensione dei mobili). Ma, al di là di queste distorsioni piuttosto rarefatte, gli incubi sono rappresentati con la stessa nitidezza delle sequenze reali, come se il film entrasse di nascosto nella dimensione onirica senza separarla dal resto della storia. E nonostante Nichols adotti uno stile sostanzialmente omogeneo sia nella rappresentazione della realtà di primo grado che in quella deformata dalla paranoia strisciante di Curtis, le percezioni del protagonista creano un clima che impedisce di stabilire a colpo sicuro se ciò che stiamo vedendo sia reale o sia invece frutto della sua angoscia (e talvolta è lo stesso Curtis a chiederselo, come avviene quando ferma l’auto sul bordo della strada per guardare i lampi in lontananza mentre Samantha e la piccola Hannah stanno dormendo in macchina).

Vergogna, reticenza, aggressività e (in)comprensione costituiscono i poli emotivi di una vicenda di ordinaria paranoia domestica, alla quale Michael Shannon (già protagonista di Shotgun Stories) e Jessica Chastain (suggerita personalmente a Nichols da Terrence Malick) apportano tuttavia credibilità e forza espressiva: se il primo dà vita a un personaggio scisso tra responsabilità familiari e tendenze psicotiche di paventata matrice ereditaria (tramite madre schizofrenica), la seconda oscilla tra atteggiamenti rigidamente iperprotettivi e tenerezze inopinate, arricchendo la figura di Samantha - inizialmente piuttosto monocorde - di ottave interpretative sorprendenti (si veda l’epilogo in riva al mare, sostanzialmente costruito sull’incredulità che si materializza sul suo volto). Circonfuso da un commento musicale minimale nella prima parte e di montante drammaticità nella seconda, Take Shelter sprigiona infine un retrogusto di pungente ambiguità: oltre a fungere da cartina di tornasole per l’angoscia generalizzata di cui sopra, il disagio psichico di Curtis agisce da catalizzatore dell’ostilità latente, portando allo scoperto meschinità, chiusure e opportunismi socialmente accettati (l’intransigenza del datore di lavoro, la preoccupazione formale del fratello, lo spropositato rancore dell’ex amico e collega). Sprovvista della patente di normalità ed esposta al giudizio della comunità, la lilapsofobia di Curtis e la conseguente decisione di costruire un rifugio anti-tornado appaiono in filigrana come comportamenti assai meno disturbati e disturbanti del verdetto categorico ed emarginante espresso dalla collettività tutta (cui l’epilogo riserva un futuro tutt’altro che sereno). Graffiante valore aggiunto di un film che si è aggiudicato il Gran Premio della Semaine Internationale de la Critique al Festival di Cannes 2011.

Recensione pubblicata su www.spietati.it.

3 commenti:

  1. ma quanto c'è di western in Shotgun Stories e in Take Shelter?

    un rapido e folle saluto, Ale!

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  2. Almeno quanto vi è di Badlands, direi.

    Peppe, un abbraccio!

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  3. ah, che gran risposta!!!

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