lunedì 2 luglio 2012

C'era una volta in Anatolia (2011), Nuri Bilge Ceylan

Nel paesaggio lunare dell’Anatolia, una carovana di tre macchine vaga alla ricerca di un cadavere seppellito in un campo. Nella prima, col commissario Naci, il dottor Cemal e l’agente di sorveglianza, si trova Kenan, il reo confesso. Nella seconda viaggia il procuratore Nurset insieme all’autista e agli addetti allo scavo. Nella terza, una jeep dell’esercito, è custodito Ramazan, il secondo sospettato. La perlustrazione gira a vuoto, dal momento che Kenan afferma di non ricordare esattamente il luogo del seppellimento poiché era ubriaco, ma la sosta notturna in un piccolo villaggio cambia le carte in tavola.

 

Definire C’era una volta in Anatolia un poliziesco tout court sarebbe una sciocchezza sesquipedale, eppure il sesto lungometraggio del cineasta turco Nuri Bilge Ceylan si ispira a un’autentica indagine poliziesca: la ricerca di un cadavere effettivamente compiuta da Ercan Kesal (cosceneggiatore del film nonché interprete nel ruolo del sindaco Mukhtar) quando prestava servizio come medico in Anatolia. Insieme allo stesso Kesal e alla moglie Ebru (cineasta, attrice e sceneggiatrice), Ceylan ripropone la squadra creativa de Le tre scimmie per riscrivere lo spunto di partenza in chiave cinematografica. Il primo scoglio da superare consiste nella durata: comprimere un evento durato circa dodici ore in due ore e mezzo (il minutaggio finale, notevole ma perfettamente giustificato dalle esigenze della narrazione, è il risultato della scrematura di un primo montaggio di circa duecentodieci minuti). Il secondo accorgimento riguarda invece la costruzione di un racconto in cui gli spettatori condividano il sapere dei personaggi senza avere immediatamente la soluzione dell’enigma (la conoscenza dei fatti si delinea letteralmente strada facendo). Il terzo espediente, infine, concerne la determinazione di una coscienza centrale che, pur non monopolizzando la scena, fornisca un punto di riferimento visivo e cognitivo allo spettatore (centralità assegnata al dottor Cemal, interpretato da Muhammet Uzuner, che col passare dei minuti si afferma come personaggio cardine).


Ed è innegabile che, forte di questa triangolazione tra durata, andatura indiziaria e punto focale, C’era una volta in Anatolia sia di gran lunga e senza ombra di dubbio la pellicola più convincente e risolta di Nuri Bilge Ceylan: gli inospitali ammiccamenti di Uzak, la compiaciuta indolenza de Il piacere e l’amore e soprattutto la dissonante incongruenza de Le tre scimmie lasciano spazio a una riuscitissima sintesi stilistica. Stavolta narrazione e rappresentazione armonizzano mirabilmente, dando vita a un film in cui la coralità dell’impianto (la carovana delle tre macchine scarrozza una quindicina di personaggi) non ostacola la precisazione dei singoli caratteri né intralcia il ritmo di una progressione drammatica che, episodio dopo episodio, si carica di sfumature confidenziali e lampi inaspettati (la crescente intesa tra il dottore e il procuratore Nurset; la folgorante comparsa di un volto scolpito nella pietra che spaventa il medico appartatosi a mingere nella steppa). Il tono del racconto oscilla felicemente tra il grottesco delle beghe burocratiche e la mestizia delle confessioni intime: se il primo registro colora la narrazione con tinte ridicole (rese ancora più squillanti dalla lontananza dai luoghi del potere), il secondo la impregna di note profondamente malinconiche (il racconto della morte annunciata della moglie del procuratore; la rassegnazione del commissario Naci).



Concentrata sulla caratterizzazione dei personaggi e sulla tenuta narrativa, la scrittura si tiene alla larga dallo psicologismo spicciolo, anche quando si dedica alla raffigurazione di dinamiche meschine e potenzialmente avvilenti (le dispute tra il procuratore e il commissario, le accuse di sadismo rivolte al reo confesso Kenan). A contare non è tanto la costruzione di personalità rigidamente qualificate e di facile lettura (per quanto alcune figure di contorno sfiorino la caricatura, come il sergente ultrazelante), ma il tratteggio di caratteri a bassa definizione e soggetti al mutamento: il confronto reciproco tra i personaggi apre continui varchi nei loro partiti presi, li obbliga a ripensare agli altri e a se stessi (lo sconcerto provato dal commissario di fronte all’irriducibile altruismo di Kenan; l’incapacità del dottore nel sostenere il proprio sguardo davanti allo specchio). Non c’è scetticismo o autoindulgenza che tenga, la notte passata nel cuore dell’Anatolia lascia un segno indelebile nelle coscienze dei singoli (la comparsa della bellissima figlia del sindaco nel villaggio di Ceceli: un cataclisma a lume di candela). Un processo di trasformazione che si nutre delle suggestioni ambientali come cassa di risonanza dell’interiorità (si pensi al dialogo “alabiale” tra il dottore e l’autista Arab: disancorate dalla sorgente sonora umana, le parole sembrano scaturire direttamente dalle vibrazioni del paesaggio).


Ciononostante - e in questo, secondo chi scrive, risiede il limite non solo del film ma del cinema di Ceylan - C’era una volta in Anatolia tradisce una dipendenza dalla dimensione narrativa che gli impedisce di svincolarsi dall’obbligo di raccontare, di liberarsi, sia pur provvisoriamente, dalla tirannia dell’intenzione comunicativa (“Sono consapevole del fatto che sia un film difficile per lo spettatore, ma al tempo stesso rivendico la presenza di un contenuto. Non vi è nulla sullo schermo che io non possa giustificare e sono in grado di rispondere a domande relative a ciascun dettaglio e di spiegare il comportamento o le battute di ciascun personaggio”, dal pressbook). Persino i momenti di apparente deriva visiva (la camera che segue la caduta di una mela dall’albero finché non si ferma nel greto di un ruscello) o di enfatizzazione del fuori campo (l’autopsia non mostrata esplicitamente ma resa tangibile dai rumori della rimozione degli organi e dallo sgocciolio), sono pienamente riconducibili al dominio metaforico (l’inchiesta si incaglia; il dottore si sporca di sangue). Sudditanza narratologica che tuttavia toglie poco o nulla alla riuscita di un film splendidamente girato in digitale (con una Sony F35) e magnificato da un formato panoramico che esalta la stepposa vastità della regione anatolica. Grand Prix Speciale della Giuria al 64º Festival di Cannes.


Recensione pubblicata su www.spietati.it.

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