martedì 7 febbraio 2012

POLISSE

Parigi. L’attività, le operazioni e gli scazzi giornalieri della BPM, Brigade de protection des mineurs, squadra composta da dieci elementi: il comandante Gérard detto Balloo, i tenenti Nadine e Iris e, a seguire, gli agenti Fred, Mathieu, Chrys, Sue Ellen, Nora, Gabriel e Bamako. Tutti sotto l’autorità del funzionario Beauchard, responsabile delle varie sezioni operative. Al gruppo viene provvisoriamente aggregata Melissa Zaia, fotografa incaricata dal Ministero dell’Interno di preparare un libro fotografico sull’attività della polizia. Legata sentimentalmente a Francesco, dal quale ha avuto due figlie, Melissa stringe una relazione con Fred, finendo per preferirlo al più ricco e influente compagno.



Scovate pure tutti i limiti che volete in Polisse (melodrammaticità, faciloneria, equilibrismo narrativo), ma di fronte alla trascinante vitalità sprigionata dal terzo lungometraggio di Maïwenn Le Besco appaiono inezie che solo un malinteso senso del rigore potrebbe scambiare per espedienti coercitivi o formule ammiccanti. Qui si tratta di ben altra cosa, ovvero della capacità esclusivamente francese di scrutare la realtà di tutti i giorni con sguardo frontale e incisivo senza lasciarsi condizionare da schemi precostituiti o logiche commerciali (come invece accade ad Acab, ‘fiction potenziata’ che, secondo l’opinabile e non trasferibile gusto di chi scrive, testimonia la riluttanza del cinema nostrano a sbarazzarsi del manicheismo paratelevisivo). Ne è riprova il metodo di lavorazione seguito dalla trentacinquenne cineasta nata nella banlieue parigina: lungo periodo di internato negli uffici della BPM (Brigade de protection des mineurs), massiccia raccolta di materiale osservato o riferito dai flic della “brigade des biberons” (lo sprezzante nomignolo col quale le altre sezioni della polizia chiamano la BPM) e stesura di un primo e magmatico abbozzo di sceneggiatura (successivamente rielaborata e disciplinata grazie all’apporto di Emmanuelle Bercot). Un apprendistato sul campo che pur in misura meno radicale ha coinvolto l’intero cast, sottoposto a uno stage concentrato in una settimana con due ex poliziotti della BPM. Obiettivo: approfondire la conoscenza delle tecniche della brigata e cementare il gruppo.

Polar d’autore che prosegue idealmente la linea Police (Maurice Pialat, 1985)-L.627 (Bertrand Tavernier, 1992)-Le petit lieutenant (Xavier Beauvois, 2005), Polisse si ricollega fin dal titolo alla quasi omonima pellicola di Pialat, di cui riproduce in scala minore la sintesi tra cronachismo e romanticismo, graffiando il realismo quotidiano con brucianti frizioni sentimentali. Ma a differenza dei film geneticamente affini, il polar di Maïwenn presenta due rimarchevoli differenze. La prima consiste nel microcosmo rappresentato: non più commissariati di quartiere, flic della “Stup” (la brigata stupefacenti) o della “Crim” (la brigata criminale), ma una squadra snobbata dalle altre unità e considerata di minore importanza nell’assegnazione di mezzi e risorse (e questa condizione penalizzante si presenta a più riprese nel corso del film, specialmente nelle dispute tra Balloo, il comandante della BPM, e il funzionario Beauchard). La seconda risiede nell’ottica adottata, nel cosiddetto punto di vista: non più un’angolazione feroce, semidocumentaristica o lacerante come quella di Pialat, Tavernier e Beauvois, ma uno sguardo esplorativo affidato all’azione simultanea di due (all’occorrenza tre) camere digitali. Maïwenn ha dato ai tre operatori Pierre Aïm (anche direttore della fotografia), Claire Mathon e Jowan Le Besco (fratello minore della regista) completa libertà di movimento astenendosi dal dirigerli canonicamente, ma pretendendo in cambio un approccio istintivo, reattivo. Catturare i lampi di verità sul set: ecco l’unica esigenza di messa in scena condivisa da questa insolita cellula cineasta-operatori.

Accordata agli interpreti la facoltà d’improvvisare sulla base di una sceneggiatura accuratamente strutturata (la collaborazione con Emmanuelle Bercot ha riguardato soprattutto il consolidamento dello script), Maïwenn ha girato un’enorme quantità di materiale (circa 150 ore) che ha impegnato tre diversi montatori per più mesi, producendo un primo assemblaggio di 200’ ridotto per sottrazioni progressive al minutaggio definitivo (127’). Un processo all’insegna dell’impetuosità controllata che traspare chiaramente nell’impaginazione narrativa: le operazioni della BPM sono presentate in una serie di pannelli che introducono i bambini oggetto di abusi o con problemi di sopravvivenza/sussistenza e, contestualmente o poco dopo, gli adulti che di quegli abusi e violenze sono responsabili più o meno pentiti (quasi tutti tendono a minimizzare). Ma, più ampiamente, a guidare la narrazione non vi è una vera e propria linea portante, bensì una continua carambola tra interrogatori in centrale, frammenti di conversazioni domestiche, operazioni sul territorio e pause occasionali in cui si precisano le dinamiche di gruppo. Pubblico e privato si intrecciano indissolubilmente, l’attività professionale riverbera su quella affettiva, i confini tra intimità e ruoli sociali si incrinano: ne esce un potente affresco che da una parte raffigura il carattere trasversale, interclassista della violenza sui minori e dall’altra tratteggia caratteri sfumati, a più dimensioni, lontani tanto dall’eroismo esemplare quanto dall’invulnerabilità psicologica e fisica.

Film corale, stilisticamente impulsivo e narrativamente rapsodico, Polisse è infine impreziosito da un cast che vede riuniti alcuni tra i migliori interpreti del cinema francese contemporaneo: Frédéric Pierrot nei panni di Balloo e Carole Franck in quelli della moglie Céline; Karine Viard nel ruolo di Nadine e Marina Foïs in quello dell’amica-nemica Iris; Karole Rocher nella parte di Chrys e Nicolas Duvauchelle in quella di Mathieu. Una batteria d’attori completata da Naidra Ayadi (Nora), Emanuelle Bercot (Sue Ellen) e dalla stessa Maïwenn nelle vesti della fotografa Melissa, autentico auctor in fabula che incassa in silenzio, facendo da scudo al film per interposto personaggio, le rituali accuse di miserabilismo e pietismo indirizzatele da Fred (il rapper-attore di origine martinicana Didier Morville aka Joeystarr, attuale compagno della regista-attrice). Proteste palesemente gratuite e ingiustficate, in realtà alimentate da un interesse che sfocerà inrelazione sentimentale. Del resto se il registro dominante è a tinte drammatiche, non scarseggiano affatto pennellate distensive o sprazzi di ilarità collettiva che scaturiscono sia dalla necessità di esorcizzare l’orrore quotidiano con l’umorismo sia dal desiderio di condividere i rari momenti di gioia, come avviene durante la serata in discoteca per lo scampato pericolo di un bambino uscito dal coma. Sulle note di Stand on the Word dei Keedz, Fred apre le danze seguito a ruota da Balloo, la “Brigade des biberons” si sbraccia in una coreografia estemporanea e Sue Ellen si lancia in una lap dance da ovazione. Contagiate dall’euforia, persino le inquadrature si mettono a ballare. Presentato in concorso al 64º Festival di Cannes, Polisse si è aggiudicato il premio della Giuria. Strameritato.

Recensione pubblicata su www.spietati.it.

3 commenti:

  1. Ciao Alessandro, era da tempo che non bazzicavo il tuo blog e ho notato con un certo stupore che è "dimagrito".Che fine ha fatto tutto il resto? Ero ansioso di conoscere il tuo pensiero su Polisse, che ho appena visto, e ora ho avuto il piacere di leggerlo.Sei più in forma che mai.Il film di Maiwenn per me è favoloso, nel solco di un realismo che altri hanno difficoltà a catturare.Gli accostamente a Police, a L 627 e a Le petit lieutenent mi vedono totalmente d'accordo.A dir la verità a me è venuto anche un altro accostamento.Mentre lo vedevo pensavo a La classe di Cantet per lo stesso modo di rapportarsi a una realtà difficilissima da vivere e sopportare.Che cosa ne pensi?Per me sia il film di Maiwenn che quello di Cantet sono capolavori.Se ti interessa sto traslocando la mia roba su bradipofilms.blogspot.com....Spero di sentirti presto!

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  2. Ciao Emidio, è sempre un piacere leggerti. Il forzato trasferimento di dominio ha comportato la demolizione del precedente blog (fortunatamente ho potuto recuperare i vecchi contenuti, ma non trasferirli direttamente in questo nuovo spazio).
    Il riferimento a Entre les murs - come a L'Esquive, aggiungerei - ci sta tutto ed era proprio quello che intendevo suggerire con l'osservazione sulla "capacità esclusivamente francese di scrutare la realtà di tutti i giorni con sguardo frontale e incisivo senza lasciarsi condizionare da schemi precostituiti o logiche commerciali". Personalmente ho apprezzato più il film di Maïwenn che quello di Cantet e a dirla tutta non ritengo un capolavoro né l'uno né l'altro (ma qui entra in gioco la mia diffidenza nei confronti del termine "capolavoro", che sostituirei con "capo d'opera" e applicherei soltanto al/ai titolo/i più compiuto/i della filmografia di un cineasta).
    Passerò senz'altro a dare un'occhiata al tuo blog.
    Un caro saluto e a presto!

    PS- E' d'imminente uscita un libro sul neopolar che contiene alcuni miei interventi, non mancherò di segnalare la pubblicazione :)

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  3. Il libro sicuramente non me lo lascerò scappare...anche io ho visto il Kechiche de L'Esquive in questo film( mi pare di averlo pure scritto mentre sono quasi trasecolato quando ho letto una recensione di Polisse che lo accostava a Cous Cous di Kechiche). Per quanto riguarda la parola capolavoro sicuramente hai ragione tu:è inflazionata ed appiattita dal troppo uso che se ne fa....io cerco di usarla con parsimonia...A risentirci presto,è sempre un piacere dialogare con te!

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