lunedì 23 gennaio 2012

ALLER AU DIABLE

Accompagnata da Jean-Cristophe Folly, futuro interprete di un biopic su Jean Béna, Claire Denis si reca in territorio Aluku (al confine tra il Suriname e la Guyana francese) per incontrare il famigerato cercatore d’oro nella sua dimora sulla riva del fiume Lawa.

Girato in soli quattro giorni di riprese con una camera HD, il mediometraggio Aller au diable (45’) fa parte del film Jeonju Digital Project 2011, ultimo esemplare di una serie prodotta dall’omonimo festival sudcoreano dal 2000. Regole elementari assegnate ogni anno a tre cineasti internazionali per assemblare un lungometraggio a episodi: low budget, minutaggio ridotto, utilizzo del digitale, tema libero. Se Jean-Marie Straub (Un héritier) si dedica a una riflessione di rigore alsaziano nella regione di Colmar e José Luis Guerin (Recuerdos de una mañana) si concentra diaristicamente sui piccoli eventi della storia recente del suo quartiere a Barcellona, Claire Denis attraversa l’Atlantico per incontrare il diavolo in persona: Jean Béna, un uomo di circa quarantacinque anni appartenente al gruppo etnico degli Aluku (popolazione affrancatasi dalla schiavitù olandese tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento). Personaggio assai controverso Béna: cercatore d’oro inviso al governo della Guyana francese, si è trasferito sulla sponda opposta del fiume di confine Lawa, in Suriname, edificando una dimora chiamata “Métal” e diventando un punto di riferimento per gli Aluku della zona. Eppure per lui i guai non sono affatto terminati, dal momento che la sua attività professionale è ostacolata dalle leggi nonché stigmatizzata dai media, che lo accusano di traffico d’armi, droga e crimini vari. Una crociata persecutoria che ha finito per rendere il cercatore d’oro sempre più schivo e diffidente, trasformando la sua villa in un luogo circondato dalla fama di rifugio minaccioso.


Muovendo da un’affermazione confidenziale di tenore diametralmente opposto dell’etnografo Kenneth Bilby (secondo il quale Jean Béna non è affatto quel trafficante avido, violento e senza scrupoli ritratto dalla stampa ufficiale), la cineasta francese vola da Parigi alla Guyana francese intenzionata a risalire il fiume e avvicinarsi gradualmente, grazie a colloqui preliminari con parenti e amici di Jean, al controverso personaggio. Rispetto a film di finzione come Chocolat (1988), S’en fout la mort (1990) o White Material (2009), Claire Denis abbassa la soglia del controllo e si abbandona alla casualità degli eventi senza imporre regole aprioristiche e diventando essa stessa parte del film (non solo con lo sguardo, ma anche con la voce e di persona in più di un’occasione). Unico partito preso del mediometraggio: filmare quei personaggi il meglio possibile (come affermato dalla stessa regista in una lezione di sceneggiatura alla European Graduate School di Saas-Fee). Introdotto da un prologo accompagnato dalla voce off della cineasta, Aller au diable di fatto costituisce un documentario preparatorio a un film di finzione prossimo venturo dedicato alla figura di Béna. Un vero e proprio biopic che sarà aperto dalla leggendaria emancipazione degli Aluku avvenuta secoli prima, si svilupperà a partire dal 1982 (data di morte della madre di Jean Béna) e nel quale il personaggio del cercatore sarà interpretato da Jean-Cristophe Folly (attore che nel documentario vediamo intento a studiare l’uomo che dovrà impersonare e di cui, infine, deciderà di non assimilare che la collera interiore).


Sull’esperienza documentaristica grava l’ipoteca della finzione, quindi. Claire Denis sfrutta l’opportunità offerta dal Jeonju Film Festival per condurre un’esplorazione in profondità necessaria a mettere in chiaro che non le interessa soltanto la dimensione finzionale, ma anche le radici storiche e umane della realtà da rielaborare sulla scorta delle conoscenze acquisite sul campo. Ed è proprio questa angolazione anomala (né liberamente soggettiva né squisitamente etnografica) che conferisce al mediometraggio un’andatura felicemente rapsodica: forte di un impianto informativo leggero e antiaccademico, l’accumulo degli incontri configura un'operazione di scavo graduale e sorprendente, smarcando Aller au diable dallo statuto di semplice lavoro propedeutico. Non un comune backstage (o meglio prestage), insomma, ma un autentico percorso di orientamento condiviso con lo spettatore (dei quattro giorni di riprese non è stato scartato praticamente nulla in fase di montaggio). Ma, oltre a possedere un approccio scevro di sovrastrutture ideologiche e un’immediata disponibilità al dialogo (qualità perfettamente ravvisabili nelle inquadrature ravvicinate degli interpellati), Claire Denis è anche cineasta di enorme sensibilità visiva: pur astenendosi da interventi manipolatori o decorativismi esotizzanti, si sofferma di tanto in tanto su situazioni e dettagli (la risalita del fiume, le abitazioni dei personaggi incontrati, la sagoma biancheggiante di “Métal” incastonata sulla sponda del Lawa) che aprono fugacemente e accidentalmente il documentario alla captazione delle suggestioni ambientali.

Recensione già pubblicata su www.spietati.it

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