Karamakate, un potente sciamano dell'Amazzonia, ultimo sopravvissuto del
suo popolo, vive nella giungla più profonda, in isolamento volontario.
Decenni di solitudine hanno fatto di lui un chullachaqui, il guscio
vuoto di un essere umano, privo di ricordi e di emozioni. La sua vita
svuotata è sconvolta dall'arrivo di Evan, un etnobotanico americano alla
ricerca della yakruna, una pianta sacra dai grandi poteri, in grado di
insegnare a sognare. Insieme si imbarcano in un viaggio nel cuore
dell'Amazzonia, durante il quale passato, presente e futuro si
intrecciano, e durante il quale Karamakate lentamente inizia a
riconquistare i suoi ricordi perduti (dal pressbook).

Lodevole
negli assunti (fare del punto di vista di un indigeno dell'Amazzonia
colombiana il perno dell'intera vicenda) e ammaliante nella
raffigurazione dello spazio (un bianco e nero prezioso e cristallino
ammanta quasi integralmente i territori filmati),
El abrazo de la serpiente
è uno di quei film dai quali si rischia di rimanere facilmente
intimiditi o addirittura accecati. La cosiddetta “importanza del tema”
(restituire dignità e piena titolarità allo sguardo nativo
nell'incontro/scontro con la cultura colonizzatrice), le difficoltà
incontrate dalla troupe nella realizzazione delle riprese (sfida quasi
impossibile per complicazioni logistiche e ambientali) e l'encomiabile
rispetto dimostrato nei confronti del sapere tribale (la sapienza
sciamanica profondamente radicata nella conoscenza e nell’esperienza
storica del territorio) non possono non influire sull'atteggiamento e
sul posizionamento affettivo dello spettatore durante la visione. Ma dal
momento che tali fattori, per quanto consistenti e indiscutibili, non
possono e non devono condizionare né intralciare il giudizio sull’esito
cinematografico, occorre metterli in sordina e considerare liberamente
il film. Gli indubbi meriti dell’impostazione “non-occidentale” adottata
da Ciro Guerra (classe 1981) e dal cosceneggiatore Jacques Toulemond si
calano difatti in forme inequivocabilmente convenzionali e
illustrative. Detto altrimenti, dai rispettosi e rispettabili assunti
non discende una forma filmica che li inveri cinematograficamente.

Non è soltanto il dettato visivo di
El abrazo de la serpiente
a tradire un arrangiamento grammaticalmente ortodosso (composizione
dell'inquadratura concepita secondo principi di coerenza e leggibilità,
soggettive classicamente costruite con raccordi di sguardo ben
orientati), ma è anche il suo fraseggio sintattico a non discostarsi dai
precetti retorici più consolidati (scene dotate di unità spaziale e
temporale chiaramente definita, sequenze perfettamente concatenate tra
di loro). Insomma, ci troviamo di fronte a un film che espone
didascalicamente la materia trattata, “dicendo” la cultura tribale e
sapienziale con ortografia impeccabile e razionale. Non che questo sia
un limite in sé, beninteso, ma nella fattispecie impedisce alla
pellicola di oggettivare cinematograficamente i propri propositi “non
occidentali”. Persino il solo momento in cui i vincoli grammaticali e
sintattici si sciolgono vistosamente (la visione provocata dagli effetti
allucinogeni della yakruna) è incapsulato in una sequenza che, alla
stregua di una parentesi onirica, ne mostra convenzionalmente il prima
(l'assunzione della pianta) e il dopo (il risveglio/ritorno alla
coscienza).

Ultima considerazione sulla costruzione narrativa di
El abrazo de la serpiente,
probabilmente l'aspetto più rimarchevole del film: il racconto è
imperniato sul duplice incontro tra lo sciamano Karamakate e i due
scienziati bianchi (l'etnologo Theodor Koch-Grünberg interpretato Jan
Bijvoet e il botanico Richard Evans Schultes interpretato da Brionne
Davis) nel corso di alcune decine di anni (una quarantina per la
precisione). Nel corso del tempo, il giovane e possente Karamakate
(Nilbio Torres) è divenuto un vecchio smemorato e disorientato (Antonio
Bolívar) o più precisamente un chullachaqui (sorta di Doppelgänger privo
di ricordi ed emozioni, proiezione svuotata del Karamakate di cui è il
duplicato). Ebbene, l'incontro tra il guscio vuoto del vecchio sciamano e
il botanico Evans ha non solo la funzione di riattivare gradualmente i
ricordi e le emozioni perdute di Karamakate, ma anche e soprattutto
quella di chiarirne la missione: consegnare il suo sapere ancestrale
all'uomo bianco (Karamakate considera i due scienziati come un solo
individuo, il secondo un chullachaqui del primo). Fondato sull'idea di
ricondurre la doppiezza all'unità grazie alle proprietà visionarie della
yakruna, questo programma rigenerante possiede il sapore di uno
stratagemma fortemente dimostrativo. E, per quanto condotto con
rispettosa adesione, non contribuisce minimamente a smuovere le regole
di comprensione raziocinante dello spettatore. Più una dimostrazione che
una rigenerazione, in una parola. Presentato in anteprima al Festival
di Cannes 2015 nella sezione Quinzaine des Réalisateurs (si è
aggiudicato il premio Art Cinéma) e candidato al premio Oscar come
miglior film straniero.