venerdì 5 febbraio 2016

REVENANT - REDIVIVO

 

“Durante una spedizione in un territorio incontaminato e sconosciuto, il leggendario esploratore Hugh Glass (Leonardo DiCaprio) viene aggredito da un orso, quindi abbandonato dagli altri compagni di caccia. Ma, nonostante le feriti mortali e la solitudine, Glass riesce a non soccombere. Grazie alla sua forte determinazione e all’amore che nutre per sua moglie, una indiana d’America, percorrerà oltre 300 chilometri in un viaggio simile a un’odissea, attraverso il grande e selvaggio West, per scovare l’uomo che lo ha tradito, John Fitzgerald (Tom Hardy). Il suo inseguimento implacabile diventa un’epopea che sfida il tempo e le avversità, alimentata dal desiderio di tornare a casa e ottenere la meritata giustizia” (dal pressbook).




L’enorme scoglio contro il quale è destinato a scontrarsi qualsiasi spettatore di Revenant - Redivivo, a prescindere dalla propensione più o meno spiccata ad assecondare la famigerata sospensione dell’incredulità, è quello dell’inverosimiglianza. La questione, pur cenciosa e indegna di figurare in sede di recensione, risiede nella plateale invulnerabilità di Hugh Glass (Leonardo DiCaprio): le sue doti di sopravvivenza, automedicamento, infrangibilità e resistenza alle intemperie sono così sovrumane e incredibili da sfondare irreparabilmente il muro della credibilità. Per quanto si sia disposti a concedere a un robusto quarantenne - quale quello interpretato da un DiCaprio non particolarmente scheletrico - un patrimonio genetico straordinariamente fortunato, le aggressioni e le disgrazie dalle quali Glass viene bersagliato lungo tutto il film (lacerazioni di grizzly, contusioni da sballottamento nelle rapide gelate, incolumità ad attentati plurimi, cadute vertiginose da altezze incalcolabili e ferite da arma da taglio) risultano francamente inammissibili per un solo corpo. Detto più semplicemente, Glass più che un redivivo pare un immortale o, in alternativa, un essere umano che muore e resuscita più volte: dopo l’attacco del grizzly, dopo la frettolosa sepoltura di Fitzgerald (Tom Hardy) e Bridger (Will Poulter), dopo la sauna terapeutica allestita dal Pawnee che lo soccorre e, infine, dopo la permanenza nella carcassa equina. Non è dunque fortuito che, nel prefinale, egli convinca il recalcitrante Capitano Henry (Domhnall Gleeson) a portarlo con sé nella caccia a Fitzgerald dicendogli: “Ormai non ho più paura di morire. L’ho già fatto” (“I ain’t afraid to die anymore. I’ve done that already”).

Ora, sappiamo bene che il mito della verosimiglianza nasconde troppe insidie e acceca troppi occhi, sicché occorre chiedersi se questa plateale implausibilità non suggerisca altre chiavi di lettura (del resto se lo scrupolo della verosimiglianza fosse stato davvero irrilevante, la sequenza dell’aggressione del grizzly non sarebbe stata così scrupolosamente particolareggiata e, per così dire, incredibilmente credibile). Ebbene, dal momento che Revenant - Redivivo si apre e chiude sul respiro profondo di Glass e il prologo visualizza letteralmente un suo sogno in compagnia del figlio e della moglie, l’ipotesi meno stravagante e campata in aria consisterebbe nel piazzare l’intero film sotto l’ipoteca onirica. Eppure, per quanto suggestiva, anche questa supposizione non sembra in grado di sorreggere l’intero film, poiché l’onirismo di Revenant - Redivivo si manifesta in maniera palesemente sporadica e disorganica, possedendo esclusivamente la funzione di mostrare alcuni squarci dell’interiorità di Glass (Iñárritu: “Durante il viaggio, quando Glass è solo e fisicamente distrutto, l’unico modo per restare in contatto con la propria umanità è attraverso sogni e visioni, che ci forniscono informazioni sul suo stato mentale e sul suo passato”). In altri termini, il tenore onirico del sesto lungometraggio cinematografico di Alejandro González Iñárritu non determina l’impianto narrativo complessivo, ma lo punteggia episodicamente in chiave introspettiva. A questa componente, che cozza violentemente contro il registro iperrealistico di gran parte del film, si aggiunge infine una vena spirituale-animistica che mette in comunicazione le vicende di Glass e Fitzgerald con eventi naturali ad alto coefficiente numinoso e premonitorio quali cadute di meteore e gigantesche valanghe. Eventi che, entrando in risonanza l’apparato visionario e onirico partorito da Glass (la caduta della meteora si configura inizialmente come fenomeno naturale apparso a Fitzgerald, salvo poi venire riassorbita nel tumultuoso sogno di Glass) dialogano dall’alto con gli insegnamenti impartiti dalla moglie (“Quando c’è una tormenta e sei in piedi di fronte a un albero e guardi i suoi rami, giuri che cadrà, ma se guardi il tronco, vedrai la sua stabilità”) e da Hikuc (Arthur RedCloud), il misericordioso Pawnee che pronuncia la frase decisiva “La vendetta è nelle mani del Creatore”.

E, secondo chi scrive, è proprio questa giustapposizione dei tre registri a risultare stridente, condannando il film a carambolare tra clima iperrealistico, paesaggi onirici ed epifanie animiste (l’uccellino che esce dal petto della moglie, la spettrale montagna di teschi di bisonte, l’abbraccio col figlio-albero nella rovine della chiesa). Anziché compenetrarsi o conciliarsi tra loro, insomma, le tre modalità espressive si avvicendano bruscamente, impedendo al film di trovare una sua organicità narrativa. Inoltre, all’interno dello stesso registro iperrealistico si percepisce un forte attrito tra l’impronta poderosamente basica delle riprese quasi documentaristiche e i momenti performativi, nei quali i vari interpreti recitano le loro parti in ossequio alle norme didascaliche del canone hollywoodiano: si pensi al primo battibecco tra Fitzgerald e Glass, al minaccioso confronto tra Fitzgerald e Bridger una volta abbandonato Glass o al già menzionato dialogo tra Glass e il Capitano Henry nella baracca del forte. In questi frangenti dialogati persino lo stile cinematografico viene progressivamente appianato e normalizzato, passando dalle riprese in continuità della prima lite ai più convenzionali campi/controcampi del colloquio col comandante della spedizione. In definitiva, sotto il profilo narrativo e drammaturgico, Revenant - Redivivo sconta una disomogeneità di fondo che a lungo andare ne sfibra la tenuta: se i primi 40 minuti (fino alla decisione di lasciare Bridger, Fitzgerald e, naturalmente, Hawk ad assistere l’agonizzante Glass) possiedono una potenza di coinvolgimento pressoché priva d’incrinature, l’affacciarsi sempre più palpabile dei registri divergenti sfilaccia gradualmente la tenuta drammatica del film, allentandone la compattezza e, conseguentemente, la presa sullo spettatore.

Tre vicoli ciechi o solo parzialmente percorribili (nessuno dei tre provvede a fornire una chiave di lettura estensiva e ben necessitata del film) che vengono ampiamente riscattati sotto il profilo squisitamente visivo. Emmanuel Lubezki in testa, il comparto tecnico direttamente proveniente dalla troupe di Terrence Malick (non soltanto la direzione della fotografia di Lubezki, ma anche le scenografie di Jack Fisk e i costumi di Jacqueline West) compensa abbondantemente le rapsodiche divagazioni narrative, assicurando al film un’indiscutibile solidità sul piano figurativo. Traendo il massimo partito dalle riprese in ordine cronologico e dall’impiego pressoché esclusivo di luce naturale, la costola malickiana non si limita tuttavia a rivestire la pellicola di una corazza smagliante (campi lunghissimi di maestosa vastità, notturni dalle vibrazioni luministiche cangianti, apparati scenografici perfettamente integrati nell’ambiente), ma la dota a pieno titolo di una sua singolarità visiva: di una sua visione, in una parola. Ecco perché le accuse di eccessiva derivatività rivolte a Revenant - Redivivo non hanno molto senso: benché i riferimenti più stringenti siano facilmente intuibili (oltre a Terrence Malick, Andrej Tarkovskij e Werner Herzog), il film possiede un arrangiamento visivo di una fluidità cinetica (grazie all’uso combinato di gru, steadicam e camera a mano) e di una torsione ottica (in virtù dei grandangoli) tali da renderlo a tutti gli effetti un unicum capace di conquistare pienamente la propria autonomia cinematografica. Liberamente ispirato al romanzo del 2002 The Revenant: A Novel of Revenge di Michael Punke (tr. it. Revenant. La storia vera di Hugh Glass e della sua vendetta, Einaudi, 2014), libro a sua volta ispirato alle autentiche vicende del trapper Hugh Glass (1783-1833), Revenant - Redivivo, dunque, è sì un film iperrealisticamente inverosimile con ipoteca onirica a carico, ma solidamente provvisto di una sua autonomia estetica e di una sua impetuosa crudezza (non solo l’aggressione del grizzly, ma anche l’agguato iniziale degli Arikara e il corpo a corpo finale tra Glass e Fitzgerald). Per una versione dell’avventura di Hugh Glass sostanzialmente diversa e maggiormente incentrata sugli aspetti tragico-patriarcali, si suggerisce la visione di Uomo bianco va’ col tuo dio (Man in the Wilderness, 1971) di Richard C. Sarafian.

Pubblicata su www.spietati.it.

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