mercoledì 2 settembre 2015

DEALER






In una metropoli imprecisata, uno spacciatore trascorre una sfibrante giornata di incontri e consegne, pedalando da una parte all’altra della città con la sua bicicletta e il marsupio pieno di stupefacenti.








Non vi è niente di più distante dall’idea di nichilismo nel cinema di Benedek Fliegauf. Tutti i suoi film sembrano dirci questo: l’essere umano non è autosufficiente, occorre che ci sia qualcuno che se ne prenda cura. Altrimenti la sua natura degrada a quella di automa, oggetto inanimato, elemento minerale: è ciò che esemplifica A sor (2004), cortometraggio che rappresenta esplicitamente la sorte dei bambini trascurati (dimenticati a scuola dai genitori, si trasformano in manichini allineati in uno stanzone sotterraneo). Il concetto chiave è quello di sollecitudine: prendersi cura dell’altro diviene non soltanto il modo di scongiurare questa degradazione, ma anche la maniera di suggerire indirettamente una visione olistica delle cose, l’intimo legame tra il singolo e il tutto («The most important phrase in my current philosophy is “Everything is one”», affermava Fliegauf nel 2004).

Del resto la centralità del prendersi cura appare chiaramente, seppur espressa in termini non didascalici, anche nel primo lungometraggio del cineasta ungherese, quel Forest (2003) girato con attori non professionisti/amici (altro dettaglio che rimanda all’idea di legame) in cui i vari episodi apparentemente irrelati si rivelano meno disorganici di quanto sembri (si vedano soprattutto il prologo e l’epilogo nella stazione). Non solo: quasi tutti i segmenti del film si sviluppano sui concetti di premura e tenacia degli affetti - nei confronti di un cane, di un essere indeterminato, di una figlia, di una nonna scomparsa non fa differenza, la sola cosa che conta è tenere in vita il legame affettivo in tutta la sua intensità, al di là del convenzionale e immancabile sospetto di morbosità.

Ma, diversamente da Forest, Dealer elabora questa premurosa ossessione in termini ancora più impliciti e, proprio in virtù di questa reticenza, ancora più incisivi. Lo spacciatore (Felícián Keresztes) messo in scena da Fliegauf è un soggetto costretto dalla sua attività ad avere continue relazioni con altri individui: un obbligo che non si limita alla semplice consegna di sostanze (cocaina, eroina, funghi allucinogeni), ma che, per tutto il film, lo coinvolge in una serie di operazioni ben più impegnative (ascolto, ponderazione dei casi, somministrazione e confidenza). Detto più chiaramente, lo spacciatore tratteggiato da Fliegauf è una figura che riassume in sé le caratteristiche del medico, dell’infermiere e dell’amico: un curatore, in una parola (non sfugga il particolare della sua necessità di trattare personalmente con gli acquirenti: “Faccio affari solo di persona”, dice al braccio destro del capo spirituale costipato). Non sfugga, inoltre, che i suoi interventi si configurano, sin dalle prime battute, come vere e proprie prestazioni di soccorso che implicano forti responsabilità personali: prima Padre Ujvari (György Szép) che, in pieno blocco intestinale, è atteso da migliaia di fedeli, poi l’amico gravemente ustionato che implora la somministrazione di una dose letale per essere sollevato da sofferenze intollerabili, quindi la donna (Anikó Szigeti) che dice di aver bisogno di una dose di eroina per non presentarsi in crisi d’astinenza, il giorno dopo, a un colloquio con gli assistenti sociali che minacciano di portarle via la figlia. Questi non sono maneggi da spacciatore, sono prestazioni cliniche tanto clandestine quanto confidenziali.

E se la struttura a mosaico di Forest risulta ancora visibile in filigrana nell’andatura per microdrammi di Dealer (B.F.: «It had a similar mosaic-like structure to “Forest”»), nel suo secondo lungometraggio Fliegauf innesta con maggior forza il fenomeno della traccia sull’ossessione della sollecitudine. Intesa come impronta, come impressione lasciata nella mente - e non solo - dalle persone scomparse, la traccia diventa adesso il segno tangibile che può mantenere in vita l’affetto nei confronti di qualcuno fisicamente assente. La traccia - stare attenti - è al tempo stesso mentale e concreta: un’impronta che impedisce la cristallizzazione affettiva, che blocca il processo di mineralizzazione dell’essere attualmente assente. È l’incontro col padre (Lajos Szakács) a chiarire la dinamica che già s’indovinava in Forest: l’anziano genitore vede nella fossa prodotta dalla caduta mortale della moglie sul marciapiede non tanto una semplice buca fatta dal suo corpo precipitato dalla finestra di casa, quanto l’impronta reale in cui lei è ancora presente - “Lei è qui, capito? È solo qui e non nel cimitero, è solo qui!”, replica perentoriamente al figlio che gli ha appena ricordato, con risentita banalità, che la vera tomba della madre non è quella.

Indispettito dallo scetticismo del figlio, il padre gli impone di scendere insieme a lui: è qui, davanti all’impronta lasciata sul cemento dal corpo madre, che avviene il passaggio dalla dimensione esclusivamente verbale a quella visiva e dal piano meramente oggettuale a quello della traccia. La traccia non è un semplice ricordo, ma un segno tangibile depositatosi nella materia: un segno suscettibile di evocare chi lo ha lasciato fino a renderlo di nuovo presente (la stessa dinamica sarà promossa a nucleo tematico nel fin troppo programmatico Womb, film in cui chi ha lasciato il segno viene letteralmente riportato in vita). Rispetto alla città-necropoli lungo la quale lo spacciatore pedala ininterrottamente, la piccola fossa ricoperta di acqua stagnante rivela una potenza evocativa inusitata, trasformandosi sotto i nostri occhi in materia viva pur restando una pozzanghera chiazzata da macchie d’olio - “È lì, la vedi? Vedi il suo viso?”, dice il padre; “Quella è una macchia d’olio”, risponde bruscamente il figlio. La buca sul marciapiede è al tempo stesso una pozzanghera di acqua oleosa e un’entità affettivamente vibrante: lo sguardo di Fliegauf ne asseconda la doppia natura (l’oscillazione tra pozza d’acqua e segno spettrale) con un movimento di macchina lento e sinuoso che inquadra la superficie liquida dai contorni cangianti, i riflessi increspati degli alberi e le crepe sul cemento. Per lo spettatore diventa impossibile non scorgere in questa pozzanghera grigia e apparentemente insignificante qualcosa di enigmatico e magnetico: non soltanto uno squallido ristagno d’acqua in un’infossatura del marciapiede, ma anche un’impronta intimamente animata e misteriosamente attraente.

In termini più ampi, questa sequenza risulta cruciale per i risvolti metacinematografici che racchiude: qui Fliegauf sembra enunciare la sua concezione di cinema come dispositivo che trattiene l’impronta di ciò che è stato davanti alla lente della camera e che, adesso, continua a vivere nelle immagini. E che, soprattutto, è in grado di evocare la partecipazione emotiva dello spettatore. Alimentata dalla vitalità della traccia, l’ossessione della sollecitudine travalica dunque il piano del contenuto per investire pienamente quello dell’elaborazione estetica. È lo sguardo stesso di Fliegauf a prendersi cura degli esseri ripresi: esseri che, in virtù della premura audiovisiva con la quale sono rappresentati (inquadrature lunghe e avvolgenti, sound design ovattato e immersivo), continuano a evocare affetti e, seppur fisicamente assenti, a ripresentarsi sotto forma di impronta cinematografica - Just the Wind (2012), basato su una serie di aggressioni a una comunità rom avvenute realmente in Ungheria tra il 2008 e il 2009, porterà questa concezione di cinema empatico in ambito apertamente sociale, rasentando tuttavia il patetismo e il vittimismo («My aim was to be with the victims. I wanted to feel what they felt, and even more I wanted to express what they felt: to be haunted by these murderers and live this danger all day long just for being a Roma»).

Pubblicata su www.spietati.it.