lunedì 27 aprile 2015

FRENCH CONNECTION

Marsiglia, 1975. Pierre Michel, giovane magistrato appena arrivato da Metz con moglie e figli, viene incaricato di un’inchiesta sul crimine organizzato. Appena insediatosi decide di attaccare la cosiddetta French Connection, un’organizzazione mafiosa che esporta eroina in tutto il mondo. Rifiutandosi di dare ascolto a chi lo invita alla cautela, Pierre s’imbarca in una crociata personale contro il leggendario e intoccabile padrino Gaetan Zampa, ma deve rendersi conto che se vuole ottenere dei risultati deve cambiare tattica… (dal pressbook) 









Non inganni il logo Gaumont anni ’80 che precede French Connection, secondo lungometraggio del trentottenne cineasta marsigliese Cédric Jimenez: si tratta di un ammiccamento nostalgico che non avrà alcuna ripercussione sull’impianto estetico del film. O forse sì, ma nel senso del vintage più deteriore, del cimelio esibito come ornamento tutto esteriore: inutile orpello di un film che si gloria della ricostruzione d’epoca, spacciando l’autenticità urbana per credibilità cinematografica e gabellando la filologia criminale per esattezza drammaturgica. Il guaio è che, dopo un decennio di crescita culminata nella serie televisiva prodotta da Canal+ Braquo (2009), il polar francese molto probabilmente sta perdendo colpi: basti pensare a 96 Heures (2014) di Frédéric Schoendoerffer, Mea Culpa (2014) di Fred Cavayé o al pericolante Colt 45 (2014) di Fabrice Du Welz, giusto per citare titoli recenti e ovviamente non distribuiti in Italia. Registi come Schoendoerffer o Cavayé, già autori di polar rimarchevoli quali Scènes de crimes (2000) e Truands (2007) o Pour elle (2008) e À bout portant (2010), segnano visibilmente il passo con pellicole artificiose, compiaciute e virtuosistiche - per quanto di gran lunga più personali di questo La French. Discorso simile, infine, per il gran visir del genere Olivier Marchal, che, chiusa la trilogia della solitudine con L'ultima missione (2008) e codiretta la serie Braquo con Schoendoerffer, ha realizzato il meno incisivo Les Lyonnais (2011).

Pomposo, carnascialesco e caricaturale, French Connection conferma la fase calante del polar, gonfiando la carenza di originalità con iniezioni di budget (più di 20 milioni di euro), cast a tre stelle (Dujardin/Lellouche/Magimel) e magniloquenza da affresco storico (lo scontro tra giustizia e criminalità nella Marsiglia di metà anni ’70). Se il thriller cibernetico Aux yeux de tous (2012), esordio al lungometraggio di Jimenez, cercava affannosamente una sua formula cinematografica accatastando immagini da telecamere di sorveglianza, webcam e soggettive di un hacker sedicenne, La French si accontenta di servire stracotto di Scorsese (sequenze musicali a episodi in stile Quei bravi ragazzi) aromatizzato con spolverate di Friedkin (il traffico di eroina negli Stati Uniti, le intercettazioni) e guarnizione manniana (il faccia a faccia tra Dujardin e Lellouche in territorio neutro). La mancanza di uno stile personale, compensata da grossolane rimasticature americanizzanti, è manifesta. Tra smaccati espedienti di montaggio (l’alternato ingannevole tra l’irruzione della polizia in casa di Charles Peretti e le operazioni di raffinazione dell’eroina nel laboratorio situato altrove), un’accattivante playlist di brani pop anni ’70 (C’est comme ça que je t’aime di Mike Brant, Comic Strip di Serge Gainsbourg, The Snake di Al Wilson e via di seguito) e figure femminili impeccabilmente convenzionali (devota e premurosa la moglie del bandito, esigente e lamentosa quella del giudice), French Connection sacrifica la specificità francese del polar sull’altare dello spettacolo anodino e tonitruante. E la tanto sbandierata verosimiglianza marsigliese si riduce a solare oleografia da cartolina mediterranea: perché a Marsiglia piove solo piombo.

Pubblicata su Gli Spietati.