giovedì 8 ottobre 2015

SICARIO

 

“In una zona di confine tra Stati Uniti e Messico, dove la legge non conta, Kate (Emily Blunt) è un’agente dell’FBI giovane e idealista, arruolata dal funzionario di una task force governativa per la lotta alla droga (Josh Brolin) per compiere una missione speciale. Sotto la guida di un ambiguo e impenetrabile consulente (Benicio Del Toro) la squadra parte per un viaggio clandestino, costringendo Kate a mettere in discussione tutto ciò in cui crede per riuscire a sopravvivere.” (dal presskit). 






 
Se per il mind game movie Enemy si è resa necessaria una lettura dettagliata e approfondita, per Sicario, altro film di marcata impronta hollywoodiana alla stregua di Prisoners , non mette conto, secondo chi scrive, lanciarsi in elucubrazioni analitiche particolarmente sofisticate. Col settimo lungometraggio del cineasta canadese Denis Villeneuve ci troviamo precisamente in quella zona grigia che, per usare una formula convenzionale e risaputa quanto il film, suolsi definire “blockbuster d’autore” (una di quelle espressioni che non significano assolutamente nulla se non suggerire una paradossale e contraddittoria coesistenza nobilitante di concezione commerciale e tocco autoriale). Non che Villeneuve si impegni poco o che la vicenda di Kate (Emily Blunt), Matt (Josh Brolin) e Alejandro (Benicio Del Toro) non presenti elementi che chiamino in causa la sua principale ossessione (ancora una volta è il caso, inteso come coincidenza e destino, a decidere la sorte degli individui che si affannano inutilmente), ma la scrittura prefabbricata di Taylor Sheridan e l’inviolabile armatura spettacolare del film pregiudicano irrimediabilmente qualsiasi scarto sostanziale dalla norma a cui i thriller statunitensi ci hanno abituati (e assuefatti) ormai da decenni. Quando i dialoghi nelle stanze del potere somigliano a scambi da giardino d’infanzia e la questione di fondo che attraversa la pellicola si riduce alla trita domanda “Il fine giustifica i mezzi?”, c’è poco da fare: non rimane che affidarsi al fenomeno della persistenza retinica e disattivare le sinapsi.
Occorre tuttavia osservare che Denis Villeneuve possiede un indiscutibile talento visivo e, soprattutto, ha il dono di saper creare relazioni conflittuali tra spazio e personaggi che non sviliscono l’ambiente a semplice contenitore dell’azione: basti pensare alla lunga e determinante sequenza iniziale in cui avviene il ritrovamento fortuito della “casa della morte” (la casualità non è mai innocente nei film di Villeneuve, è sempre dominata da un principio superiore) o all’altrettanto corposa sequenza della trasferta a Juárez, nella quale l’ostilità latente che permea l’intero viaggio sfocia in uno scontro a fuoco egregiamente orchestrato. Ma questi pezzi di bravura, ai quali si stenta ad associare la parte notturna girata con le termocamere (di sapore smaccatamente videoludico, scaffale first-person shooter), s’incastonano nel film come sparute gemme su una montatura dozzinale, restando allo stadio di mero ornamento formale. Detto altrimenti, queste esibizioni di destrezza registica non coinvolgono lo stile inteso come trattamento complessivo della materia cinematografica (dalla scrittura alla postproduzione), ma si limitano ad abbellire la parte più esteriore e visibile della pellicola (non sorprende quindi che siano proprio queste due sequenze a essere sfoggiate orgogliosamente nel trailer ufficiale). Lo stesso dicasi per il soundtrack potente e tellurico, quasi industrial/noise in alcuni passaggi, di Jóhann Johansson e per la virtuosistica fotografia di Roger Deakins (alla seconda collaborazione con Villeneuve dopo Prisoners): anziché modellare in profondità la sostanza del film, vi si appiccicano esternamente come gradevoli motivi decorativi. Ciononostante, di fronte a una sceneggiatura che ammannisce a getto continuo situazioni di adamantina convenzionalità (il rapporto tra Kate e il partner Reggie, l’abbordaggio formidabilmente sospetto nel pub dell’irresistibile Ted, le continue e sempre più brutali strigliate di Matt, il regolamento di conti nella casa del boss messicano e, apoteosi finale, la minaccia a mano armata del dannato Alejandro), ogni tentativo di traghettare la pellicola verso destinazioni meno note e frequentate finisce per colare a picco insieme allo spettacolare blocco che trasporta. Presentato in concorso al 68º Festival di Cannes.

Pubblicata su www.spietati.it.

Nessun commento:

Posta un commento