
"C’era una volta un regno… anzi tre regni vicini e senza tempo, dove
vivevano, nei loro castelli, re e regine, principi e principesse. Un re
libertino e dissoluto. Una principessa data in sposa a un orribile orco.
Una regina ossessionata dal desiderio di un figlio. Accanto a loro
maghi, streghe e terribili mostri,
saltimbanchi, cortigiani e vecchie lavandaie sono gli eroi di questa
libera interpretazione delle celebri fiabe di Giambattista Basile.
La Regina di Selvascura è disperata perché non riesce ad avere un
figlio, e a nulla valgono i tentativi del Re di distrarla, invitando a
corte artisti di strada e circensi. Una notte, un negromante suggerisce
loro una soluzione assai rischiosa: mangiando il cuore di un drago
marino, cucinato da una vergine, finalmente la Regina resterà incinta.
Il Re riesce nell’impresa di uccidere il drago, ma a costo della vita:
la Regina, però, può mettere in pratica quanto consigliato dal mago, e
dà così alla luce il figlio tanto desiderato, Elias. Negli stessi
istanti, anche un altro bambino viene al mondo: è Jonah, il figlio della
sguattera che ha cucinato per la regina il cuore del drago, rimasta
incinta aspirando i vapori dalla pentola… Elias e Jonah crescono,
identici come gemelli, uniti da un affetto profondissimo: un legame che
la regina cerca in ogni modo di spezzare, gelosa dell’amicizia che il
proprio figlio nutre per quel “bastardo”…
Sempre alla ricerca di nuovi piaceri, il Re di Roccaforte ode una voce
deliziosa provenire da una misera casetta sotto le mura del castello e,
immaginando non possa appartenere che a una bellissima giovane, subito
si invaghisce: invoca la fanciulla, le chiede invano di mostrarsi, le
invia un regalo prezioso, convinto di ottenere presto i suoi favori. Non
sa, il Re, che in quella casa non vive una giovane donna, ma due
vecchie sorelle, due lavandaie: Imma, ingenua e dalla voce virginale, e
la scaltra Dora, che vorrebbe approfittare dell’infatuazione del
sovrano. Ma in che modo?
Un giorno il Re di Altomonte cattura una pulce e ne fa in segreto il
proprio animale domestico: ci gioca, le parla, la vede crescere a
dismisura, nutrita a sangue e bistecche fino a raggiungere le dimensioni
di un maiale. Alla morte dell’enorme insetto, il Re, addolorato, lo fa
scuoiare. Ha un’idea: concederà la mano di sua figlia Viola, che
scalpita per lasciare il castello, a chi saprà riconoscere a quale
animale appartenga quella pelle. Pensa, il sovrano, che nessuno riuscirà
nell’impresa, e che in questo modo la figlia resterà per sempre al suo
fianco: i pretendenti, infatti, falliscono tutti, uno dopo l’altro.
Finché non si fa avanti un Orco che, con il suo fiuto infallibile,
indovina che si tratta di una pelle di pulce. Terrorizzata, la giovane
chiede al padre di salvarla, ma l’editto del Re non ammette deroghe:
Viola sarà costretta a partire con il mostro…" (dal pressbook).

Con
Il racconto dei racconti, libera trasposizione di tre fiabe basiliane (
La cerva fatata,
La pulce e
La vecchia scorticata),
Matteo Garrone riesce nella difficile impresa di coniugare l’impronta
spettacolare e sfarzosa del genere fantasy con la poetica che ha da
sempre contraddistinto il suo cinema. Non si tratta soltanto di
giustapposizione e coesistenza, ma di vera e propria compenetrazione
estetica: sull’impianto figurativamente lussureggiante del fantasy,
Garrone, spalleggiato da un gruppo di collaboratori di fulgido talento
come Dimitri Capuani alle scenografie, Massimo Cantini Parrini ai
costumi e Leonardo Cruciano al coordinamento degli effetti speciali,
innesta in profondità il proprio repertorio di fantasmi e ossessioni,
generando un peculiare ibrido che da una parte non tradisce alcuna
soggezione nei confronti della materia letteraria di partenza e,
dall’altra, non si lascia irretire dalla fascinazione per l’armamentario
del genere. Detto altrimenti, dalle fiabe di Basile il film di Garrone
trae il gusto per la descrizione immaginifica ma sempre ancorata al dato
concreto e al dettaglio icastico; e dall’apparato visivo del fantasy
ricava la vocazione creativa e ricreativa ma senza soccombere al
decorativismo fine a se stesso.

A
rigore, tuttavia, non ha molto senso parlare di trapianto integrale del
fantasy in territorio italiano, poiché la raccolta di fiabe
Lo cunto de li cunti,
scritta in dialetto napoletano da Giambattista Basile e pubblicata
postuma tra il 1634 e il 1636, si presta perfettamente e naturalmente al
dialogo con la grammatica visuale del genere e, soprattutto, perché il
lavoro di riduzione compiuto da Garrone e dagli altri tre sceneggiatori
(Edoardo Albinati, Ugo Chiti e Massimo Gaudioso) non smarrisce affatto i
legami con la vena materica e sensoriale dell’affabulazione basiliana,
esaltandone al contrario gli aspetti fisici e sanguigni (basti pensare
al pasto cardiaco di Salma Hayek, al nutrimento della pulce di Toby
Jones o al cruento scorticamento di Shirley Henderson). Ad affermarsi
progressivamente è insomma la dimensione fiabesca, una dimensione che,
seppur depositandosi in forme di matrice fantasy (la trasformazione di
Dora in creatura celestiale, la sorgente che sgorga dalla fenditura
dell’albero, la vertiginosa caduta dell’orco nel burrone), non vanifica
gli umori materiali e tangibili scaturiti dalla fonte letteraria a
esclusivo vantaggio della fantasmagoria mirabolante. La meraviglia, fine
per eccellenza della poetica barocca, mantiene in definitiva, nella
pellicola di Garrone, un rapporto vitale e viscerale con una credibilità
non smaterializzata dalla componente fantasy.

Sollecitato
da motivi prevalentemente accidentali, chi scrive ravvisa una simile
commistione di fantastico e realistico in alcune pagine di un libro
totalmente estraneo alla tradizione italiana d’intrattenimento:
L’uccello dipinto (
The Painted Bird,
1965) di Jerzy Kosinski. Pur differendo enormemente dalle fiabe
barocche di Basile tanto sotto il profilo cronologico quanto sotto
quello narrativo, il calvario infantile vissuto dal protagonista del
romanzo di Kosinski si sviluppa in pregevole equilibrio tra iperbole
fantastica, magia popolare e verosimiglianza del cruore: una
triangolazione espressiva chiaramente apprezzabile, ancorché declinata
in modi nettamente distinti, nell’ottavo lungometraggio di Matteo
Garrone (basti menzionare l’altezza spropositata del negromante, la
subitanea gravidanza della vergine e della regina e, infine, lo
sgozzamento dell’orco). Oltre a oggettivarsi nelle fattezze artigianali
delle creature fantastiche - la plasticità del drago marino e della
pulce rievocano il ventre gelatinoso del pescecane del
Pinocchio (1972) di Comencini e le carcasse rambaldiane di
Terrore nello spazio (1965) di Mario Bava -, la concretezza dell’
imagerie che caratterizza
Il racconto dei racconti
si manifesta puntualmente nella grande quantità di dettagli dal sapore
domestico come la giacca indossata da Jonah (Jonah Lees), gemello di
Elias (Christian Lees), per recarsi nella camera della regina, i
trastulli privati del re di Altomonte (Toby Jones) e il sistema di
carrucole che permette alle due vecchie sorelle (Hayley Carmichael e
Shirley Henderson) di ricevere il regalo del re di Roccaforte (Vincent
Cassel) senza essere viste.

Se
il registro estetico del film, sostenuto dalla fotografia cangiante di
Peter Suschitzky e dal montaggio intrecciato di Marco Spoletini, si
tiene in equilibrio tra dimensione fantastica e realismo, le alterazioni
del
Pentamerone rispondono a una doppia esigenza: potenziare la
drammaticità delle narrazioni basiliane e, al contempo, accentuare le
ossessioni squisitamente garroniane (il desiderio di possesso, il
connubio tra amore e violenza, la ricerca esasperata della bellezza, la
metamorfosi e la caducità dei corpi). Un esempio per ciascuna fiaba. Nel
racconto
La cerva fatata, divenuto
La regina
nel film, è il sovrano a desiderare ardentemente la gravidanza della
moglie e, soprattutto, non è lui a uccidere il drago marino, ma sono
cento pescatori mandati in mare a procacciarsi l’ambito cuore e
portarglielo. La pellicola sposta invece il baricentro drammatico sulla
sola regina (l’immersione del re e la successiva agonia sulla riva del
fiume servono soltanto a mostrare la sua devozione nei confronti della
sposa e, di contro, la sostanziale indifferenza per la morte del coniuge
da parte della donna, interessata esclusivamente a impadronirsi del
pulsante talismano), facendo di Salma Hayek una figura interamente
dominata dal desiderio di maternità esclusiva.

Nella fiaba basiliana
La pulce,
a ferire a morte e decapitare l’orco non è Porziella, la figlia del re
di Altomonte, (Viola/Bebe Cave nel film), ma uno dei sette figli della
vecchia che si è offerta di soccorrerla (la circense Alba Rohrwacher
nella pellicola di Garrone). A emergere dal diverso finale configurato
dal film non sono soltanto l’intraprendenza e la determinazione di
Viola, ma anche la necessità di un atto violento per liberarsi dal giogo
amoroso: impossibile non ravvisare nella figura dell’orco un gigantesco
e altrettanto possessivo doppio paterno. In altri termini, l’orco
(Guillame Delaunay) tratta Viola con la stessa asfissiante sollecitudine
con la quale il re di Altomonte trattava la pulce: un legame ossessivo,
premurosamente autoritario e di soffocante cattività che, se non
spezzato dalla violenza, non può che condurre alla morte dell’oggetto
amato (è in questo senso che la decapitazione dell’orco coincide con
l’affrancamento dall’autorità paterna e, soprattutto, con la conquista
della sovranità soggettiva).

Nel
cunto basiliano
La vecchia scorticata, diventato
Le due vecchie
nell’adattamento cinematografico, il re di Roccaforte è sedotto non
soltanto dalla misteriosa voce proveniente dal giardino sottostante, ma
anche dalle continue lamentele espresse dalla voce stessa per qualsiasi
inezia, lamentele così insistenti e leziose da indurre il sovrano a
ipotizzare che sotto la sua reggia abiti “la quintessenza delle
morbidezze”. Questa sfumatura psicologica, evidentemente tesa a
suggerire la facilità all’infatuazione e la suggestionabilità del re,
scompare del tutto nella sceneggiatura del film, venendo rimpiazzata
dalla spiccata inclinazione alla voluttà, se non da una vera e propria
erotomania, posseduta dal personaggio interpretato da Vincent Cassel.
Meglio: nella pellicola non è tanto il personaggio del sovrano a
possedere l’erotomania, quanto, al contrario, è l’erotomania a possedere
- e scrivere - il personaggio. Se l’ipererotismo costituisce
l’ossessione che attanaglia e guida il re, il desiderio chimerico della
bellezza rappresenta invece l’aspirazione irrealistica che, fomentata
dall’avidità, contagia e dirige le azioni delle due vecchie sorelle,
conducendo Dora alla defenestrazione (e, nell’epilogo, all’irreversibile
deterioramento) e Imma allo scorticamento volontario (eloquente
allusione alla pratica dissennata della chirurgia estetica).

Siamo
insomma in presenza di personaggi che, indipendentemente dal sesso,
dall’età o dai titoli di nobiltà, risultano totalmente determinati da
desideri ossessivi che causano conflitti e violenza (non sfugga, infine,
che persino Viola, in apparenza vittima innocente della possessività
paterna e della forza fisica dell’orco, è pesantemente influenzata e
intimamente solleticata dalla letteratura romantico-avventurosa di
tradizione cavalleresca). Personaggi eterodiretti, in una parola. E
siamo, in definitiva, in pieno territorio garroniano,
L’imbalsamatore
attestandosi come termine di paragone più stringente e incisivo
(desiderio che degenera in ossessione, gusto per il deforme, tendenza
alla reificazione dell’oggetto amato, inscindibilità di amore e
violenza, doppiezza dei personaggi). Garrone: “Definirei
Il Racconto dei Racconti
come un fantasy con incursioni nell’horror. In modo obliquo ma
palpabile, questi due generi - il fantasy e l’horror - si intravedono,
si respirano già nel mio percorso artistico precedente: ne
L’imbalsamatore e in
Primo amore gli accenti horror sono molto evidenti, in
Reality il piglio fiabesco ispira sia la storia che lo stile; e persino in
Gomorra, oltre il realismo delle situazioni, lo spirito di alcuni episodi è quello di vere e proprie favole nere. Se ci pensate,
L’imbalsamatore
- anche con i suoi accenti grotteschi e patetici - sembra proprio una
favola di Basile: «C’era una volta un nano che imbalsamava dei grandi
animali e si innamorò di un bellissimo giovane…»”.
Il racconto dei racconti
pullula di doppi (i gemelli albini partoriti da due madri differenti,
il re geloso e l’orco possessivo, le due vecchie sorelle) ed è proprio
questa insistenza sullo sdoppiamento e sulla doppiezza, ovviamente già
presente nelle fiabe basiliane, a neutralizzare la rassicurante
convenzionalità di una lettura moraleggiante o normalizzante
dell’adattamento cinematografico, rendendo l’ottavo lungometraggio di
Matteo Garrone l’ennesima incursione nell’immaginario grottesco di
personaggi che, riflettendosi e proiettandosi gli uni negli altri,
vedono concretarsi ciò che vorrebbero essere e quello che sono - Jonah
che indossa la giacca di Elias, trasformandosi provvisoriamente in
principe; il re di Altomonte che, vedendosi “medusizzato” dalla testa
insanguinata dell’orco, implora il perdono della figlia; Imma che,
rispecchiandosi in Dora rigenerata, in un’inquadratura che le riprende
di profilo a sottolinearne la beffarda specularità, non sta più nella
pelle, alla lettera. L’intero discorso porterebbe alla questione
dell’assimilazione inconsapevole di modelli estetici strettamente legati
al potere (bellezza e sovranità, autoritarismo dello sguardo
estetizzante), ma, per evitare sbrigative semplificazioni, conviene
porre l’accento sull’elemento stilistico più tangibile della pellicola
di Garrone: la durata delle inquadrature. Se, come ha più volte ripetuto
il cineasta, questo film segue un percorso inverso rispetto alle
pellicole precedenti (non più la trasfigurazione fantastica della
realtà, ma l’opposto), la risorsa cinematografica che esemplifica con
maggiore evidenza l’ancoraggio realista delle immagini risiede
principalmente nella lunghezza delle inquadrature. Fin dalla prima
sequenza, l’arrivo al castello di Selvascura (il castello di Donnafugata
in Sicilia),
Il racconto dei racconti mostra una
spiccata predilezione per le inquadrature di lunga durata,
cinematograficamente consistenti e temporalmente pesanti (donde la
sensazione di una maggiore staticità rispetto alla frammentazione visiva
convenzionalmente associata al genere). Una propensione al
long take
che, sebbene non rigida e totalizzante, ostacola la smaterializzazione
digitale delle immagini (il lavoro sugli effetti speciali va nella
stessa direzione) e promuove progressivamente il consolidarsi di una
visione concreta, sanguigna e terragna. Presentato in Concorso al 68º
Festival di Cannes.