mercoledì 29 ottobre 2014

ANIME NERE

Se nasci in Aspromonte il tuo destino è spesso segnato, ma molti giovani cercano di intraprendere un cammino alternativo e vanno a vivere altrove. Sono però costretti a tornare al luogo d’origine dove le dinamiche sono criminali e l’insegnamento tramandato dalla famiglia, che loro stessi hanno assorbito, è spesso crudele e duro da accettare. Ad una situazione già difficile si aggiungono una realtà familiare fatta di affetti e contraddizioni e un paesaggio straordinario. Una storia incentrata sul male che definisce i rapporto tra gli uomini (dal sito della Biennale).








Liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Gioacchino Criaco («La storia che racconto - lui dice - è solo frutto di fantasia», si legge sulla seconda aletta di copertina), Anime nere raccoglie solo alcuni spunti del libro per addentrarsi nei meandri dei rapporti tra Luigi (Marco Leonardi), Rocco (Peppino Mazzotta) e Luciano (Fabrizio Ferracane), fratelli di una famiglia segnata dal sangue (l’uccisione del padre su un sentiero di montagna da parte di un rivale), dalla criminalità (il traffico di stupefacenti messo in piedi da Luigi e l’attività edilizia di Rocco a Milano, sovvenzionata dai proventi del commercio di droga) e dalle tradizioni dell’Aspromonte (Luciano, il fratello maggiore, è rimasto ad Africo e, prendendo le distanze dagli affari di Luigi e Rocco, coltiva la terra e alleva le capre senza nutrire ambizioni espansionistiche). A differenza del padre, Leo (Giuseppe Fumo), il figlio ventenne di Luciano, intende seguire le orme degli zii e, presa a fucilate la vetrina di un bar il cui titolare aveva osato gettare fango sulla reputazione della famiglia, parte nottetempo per Milano raggiungendo Luigi e Rocco. La ragazzata di Leo, come viene definita dal boss locale Nino Barreca a Luciano in una convocazione dai risvolti intimidatori, accende tuttavia la miccia di una reazione a catena che, ricondotta l’intera famiglia ad Africo per rafforzare il prestigio territoriale a dispetto della supremazia del clan Barreca, porterà all’inevitabile spargimento di sangue (di cui Luigi sarà la prima vittima).

Si diceva dei legami piuttosto flebili tra il romanzo di Criaco e il film di Francesco Munzi, affiancato alla sceneggiatura da Fabrizio Ruggirello e Maurizio Braucci: se difatti il libro, benché scritto per lo più in prima persona, possiede un andamento rapsodico (frequenti i cambi di prospettiva e le divagazioni storico-antropologiche) e un respiro assai ampio sia cronologicamente che geograficamente (dalle leggende arcaico-tribali al loro riverbero nella contemporaneità e dalla Locride a Milano passando per la Sierra Nevada, Creta, Torino, Roma, Monaco di Baviera e Parigi), la pellicola riduce sensibilmente la pluralità di punti prospettici (pur mantenendo un impianto corale, l’alternanza delle focalizzazioni si tiene stretta alla saga familiare senza traiettorie eccentriche) e si concentra su un arco piuttosto limitato di tempo e spazio (difficile ipotizzare un tempo del racconto superiore a qualche settimana, la linearità della narrazione restringendo inoltre il teatro dell’azione al triangolo Amsterdam-Lombardia-Aspromonte). Serrando tempi e spazi in modo sempre più marcato attorno ai legami di sangue e all’onore da difendere a ogni costo, Anime nere delinea progressivamente il proprio centro d’interesse: non tanto l’incontenibile avanzata dei “figli dei boschi”, come vengono chiamati nel romanzo, alla conquista del mondo criminale (“Eravamo tutti simili, mossi irrefrenabilmente da una forza spropositata che ci portava a sostituire gli ormai spenti napoletani e siciliani che ci avevano preceduto”, p.102), quanto, più precisamente, l’indagine di una forma di pensiero e azione profondamente radicata in un territorio definito ma ancor più profondamente alimentata da logiche cristallizzate nella tradizione.

Non è fortuito, dunque, che il gesto estremo col quale Luciano tenta d’interrompere il meccanismo ciclico e autoperpetuantesi della vendetta sia anticipato dal rogo, questo sì davvero folle e incomprensibile nell’ottica tradizionale, delle fotografie di famiglia (tra le quali quella del padre ucciso). Per spezzare il cerchio punitivo non è sufficiente celebrare il culto della terra rinunciando all’avidità e accantonando le fantasie di grandezza (quando Luigi, nei panni del diavolo tentatore, gli propone il possesso di tutta la montagna, Luciano risponde che non saprebbe che cosa farsene e che gli basta ciò che ha), occorre anche e soprattutto distruggere quella parte di memoria in cui l’odio si è sedimentato e vistosamente coagulato, seguitando ad alimentare i propositi vendicativi. Odio tramandato e oblio agognato sembrano insomma riassumere le due tensioni fondamentali di una pellicola che, se da una parte sviluppa con ammirevole rigore l’esplorazione in profondità di un’abitudine mentale e sociale all’ostilità e alla violenza, dall’altra evidenzia più di una volta la difficoltà altrettanto palese nel saldare scavo antropologico e progressione narrativa: non un solo elemento risulta svincolato dall’esigenza di significare a chiare lettere il proprio ruolo all’interno della narrazione e dall’obbligo di trovare una collocazione nel quadro d’insieme. Restrizione categorica e sistematica che in più occasioni finisce per svilire l’azione a semplice funzione determinativa (basti pensare alla sequenza dell’esecuzione di Luigi, preceduta da una passeggiata notturna che è già cronaca di una morte annunciata), la recitazione a ostensione dimostrativa (la sequenza della cerimonia funebre col conseguente colloquio di sguardi tra Rocco e Luciano) e la rappresentazione a esposizione illustrativa (persino una capra che guarda in macchina diviene emblema del caos incipiente). E se la fotografia desaturata di Vladan Radovic dialoga efficacemente con le sonorità rarefatte e vibranti di Max Richter (“Summer 2” e “Winter 3”) o con l’ampiezza malinconica dei Set Fire to Flames (“Steal Compass/Drive North/Disappear”), il compasso estetico del film fatica spesso ad aprirsi a un’interazione con l’ambiente non strettamente e rigidamente funzionale al disegno narrativo. È infine opinabile parere di chi scrive che sia ancora Il resto della notte ad attestarsi come l’esito più equilibrato e incisivo raggiunto finora del quarantacinquenne cineasta romano.

Pubblicata su www.spietati.it

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