mercoledì 4 settembre 2013

COMPLICES


Lione. La polizia rinviene nel fiume il corpo del poco più che diciottenne Vincent, deceduto per strangolamento: spetta ai detective Cagan e Mangin indagare sull’omicidio. Concentrata sugli ultimi due mesi di vita del ragazzo, l’inchiesta rivela non solo la sua vita al margine come membro di una gang di coetanei dedita a piccoli traffici e prostituzione, ma anche l’inizio della storia d’amore con Rebecca, incontrata casualmente in un cybercafè (mentre Vincent adesca un cliente via chat). I due scelgono di vivere una storia simbiotica, favorita da un’analoga solitudine (lui ha lasciato la madre e la sorella per abitare da solo in una roulotte in un bosco, la ragazza è figlia unica con una madre spesso assente per lavoro). Su suggerimento di Rebecca, spinta da curiosità e gelosia nonché dal desiderio di complicità e condivisione, Vincent la coinvolge nella sua attività clandestina.
Esordio al lungometraggio del cineasta elvetico Fréderic Mermoud, classe 1969, Complices testimonia la spiccata duttilità del polar contemporaneo, la sua propensione a farsi contenitore di aggregazioni tematiche ad ampio spettro e veicolo di elaborazione espressiva tutt’altro che incistato nella logora riproposizione di moduli sclerotizzati (si pensi, giusto a titolo di esempio, al più recente Une nuit di Philippe Lefebvre, concentratissima riscrittura della materia noir per eccellenza: la notte). In Complices, film sollecitato da un fatto di cronaca non troppo dissimile da quello messo in scena, la flessibilità del poliziesco si presta addirittura ad accogliere l’ossessione cardine di Mermoud, cineasta che fin dai primi cortometraggi (L’Escalier, Rachel) ha fatto delle “petites transgressions” l’oggetto privilegiato del suo cinema: “Con Complices volevo una nuova volta sondare la questione del desiderio amoroso tra i giovani; e mi sono detto che sarebbe stato interessante iscrivere questo tema in un genere codificato come il polar” (dal pressbook). Ciò che preme a Mermoud, insomma, è precisamente l’attrito tra le convenzioni culturali e la pressione di un desiderio che tende a forzarle, a incrinarle. Questo, di fatto, l’autentico nucleo della pellicola: la complicità del titolo rappresenta la spinta coesiva che permette ai personaggi l’uscita dai tracciati convenzionali, tanto dal punto di vista erotico-sentimentale (per Vincent e Rebecca) quanto da quello deontologico-professionale (per Cagan e Mangin).

Due, talvolta disomogenei tra loro, i piani narrativi di Complices: da un lato l’inchiesta poliziesca, dall’altro la contrapposizione tra dimensioni speculari e distinte, quella dell’adolescenza e quella dell’età adulta. Su questa investigazione parallela, l’indagine dei sentimenti e delle relazioni umane, Mermoud getta uno sguardo rassegnato, uno sguardo che si pacifica solo in parte - e non senza alcune forzature - alla fine del film. L’adolescenza è sì raffigurata nel suo bisogno di sogni e fusione (Vincent vive in una roulotte, una sorta di casa nel bosco, e qui hanno quasi sempre luogo i momenti più teneri e privi di malizia tra i due ragazzi, privi del disincanto e della freddezza con cui vive la sua esistenza di prostituto), ma anche nella perdita brusca e violenta dell’innocenza (dal momento in cui i due entrano in comunicazione con il mondo degli adulti, governato dal principio del piacere momentaneo, dell’appropriazione famelica e oggettuale dei corpi alla ricerca di un godimento univoco). Del mondo degli adulti e del suo deserto rimane poco altro, se non la coppia dei due poliziotti, uniti, oltre che a livello lavorativo, da un’amicizia permeata di lievi sfumature erotiche (Cagan vive da solo in un appartamento asettico e moderno, protetto da un guscio impermeabile persino alle vicende dei più vicini familiari, Mangin cerca l’amore o una gravidanza da infruttuosi incontri su internet).

Scremata la drammaturgia dai residui cronachistici e dai cascami sociologici (“Volevo piuttosto esplorare un certo modo d’essere dei due giovani innamorati, la loro maniera di giocare col loro desiderio, i loro corpi, di trasgredire delle norme sociali e provare una sorta di presente puro”), Mermoud oggettiva cinematograficamente i due piani narrativi differenziandoli in termini di durata, composizione del quadro e valori cromatici. Se le sequenze dedicate ai detective Cagan e Mangin (Gilbert Melki ed Emmanuelle Devos) si sviluppano secondo durate sostanzialmente lineari e compatte, procedono prevalentemente per inquadrature larghe o piani americani e sono fotografate con colori piuttosto freddi e desaturati, quelle consacrate a Vincent e Rebecca (Cyril Descours e Nina Meurisse) si articolano invece su una temporalità frammentaria ed ellittica, sono girate quasi esclusivamente con camera a spalla e immagini ravvicinate e, infine, risaltano per tonalità cromatiche sensibilmente sature e accese. Ne risulta un impianto stilistico altalenante tra poliziesco procedurale e concitazione romanzesca che, pur senza stravolgere il genere di riferimento o spingersi nell’estremismo formale (il pensiero va qui allo splendido giallo/thriller dello stesso anno Amer di Hélène Cattet e Bruno Forzani), trasforma progressivamente i due universi rappresentati in riflessi capovolti di un’affine complicità trasgressiva. Niente di realmente eversivo o radicalmente destabilizzante, beninteso, ma l’ennesima riprova della vitalità del polar contemporaneo nonché l’affermazione di un cineasta che tre anni dopo dirigerà, in collaborazione con Fabrice Gobert, gli ultimi quattro episodi della fortunatissima serie prodotta da Canal + Les Revenants, adattamento dell’omonimo film di Robin Campillo del 2004.

Un ringraziamento a Elisa Schiavi per il contributo.

Recensione pubblicata su www.spietati.it.

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