giovedì 17 maggio 2012

SISTER

Svizzera, Canton Vallese. Simon, dodicenne dotato di spirito intraprendente, vive in una casa popolare nel fondovalle insieme alla consanguinea Louise. Ogni giorno, dal torreggiante edificio nel quale abita, prende la funivia per recarsi nelle lussuose stazioni di alta montagna, dove sgraffigna costosi sci e accessori vari che vende ad amici e acquirenti occasionali o smercia a piccoli trafficanti. Tra alti e bassi gli affari procedono piuttosto bene, ma la routine domestica non è altrettanto appagante: nonostante la minore età, è Simon che provvede al sostentamento dell’anomalo nucleo familiare. La più grande Louise non pare intenzionata ad assumersi la benché minima responsabilità, approfittando delle risorse economiche di Simon senza troppi scrupoli o rimorsi.

 

 Nel secondo lungometraggio cinematografico della cineasta franco-svizzera Ursula Meier, classe 1971, cambia il microcosmo di riferimento, ma non il carico metaforico che già appesantiva il sovrastimato Home (2008): lì era una casetta sul ciglio di un’autostrada in costruzione a simboleggiare la marginalità soffocata dall’omologazione coatta, qui è l’immacolata opulenza dell’alta montagna elvetica, meta di turismo facoltoso, a condizionare l’esistenza del dodicenne Simon (Kacey Mottet Klein) e a monopolizzare i suoi sogni di benessere. Lassù, come proclamato dal titolo originale L’enfant d’en haut, Simon accantona la propria condizione di ragazzino sfavorito, mescolandosi provvisoriamente alla folla privilegiata di sciatori gaudenti. Si inventa una nuova identità, elevandosi fisicamente e socialmente: non più il fratello minore della scapestrata Louise (Léa Seydoux), ma il figlio dei proprietari di un grande albergo, troppo impegnati dal lavoro per accompagnarlo sulle piste. Si spinge addirittura a gesti di inopinata generosità per apparire - e sentirsi - sullo stesso piano di questa élite vacanziera: a una fascinosa donna anglofona (Gillian Anderson) con due bambini elargisce prima premurosi consigli e indicazioni dettagliate sulle piste, poi, incontratala di nuovo in un rifugio, si offre di pagare il conto del pranzo, dicendole di chiamarsi Julien come uno dei suoi due bambini. L’effetto dell’alta montagna lo porta a vedere in questa donna così distinta e amorevole coi propri figli un fantasma materno, la madre ideale. Tutto il contrario della realtà a bassa quota.



Eppure, nonostante queste parentesi idealizzanti, Simon non dimentica perché si trova lì: rubare, approfittare della disinvolta spensieratezza dei vacanzieri extralusso per sgraffignare sci e accessori da rivendere, magari con qualche ritocco, ai coetanei, ai lavoratori dei rifugi o a Mike (Martin Compston), un piccolo trafficante inglese che come lui ha bisogno di soldi per comprare carta igienica, pane e pasta. Ma per Simon il denaro non è soltanto un mezzo di sostentamento, rappresenta anche una risorsa affettiva: la sfuggente Louise si avvicina a lui (o si lascia avvicinare) solo dietro ricompensa. Con lei Simon ha imparato che il calore umano si compra come qualsiasi altro bene di consumo, per lui i sentimenti hanno un prezzo. Detto molto schematicamente, con l’attività del furto e col denaro Simon compensa la mancanza di affetto. Ed è proprio alla luce di schematismi simili che Sister, Orso d’Argento Speciale alla Berlinale 2012, evidenzia tutti i suoi limiti: la rigidità strutturale di fondo - basata su coppie antitetiche quali basso/alto, povertà/ricchezza, realtà/ideale - condanna il film all’apologo didascalico da mostrare nelle scuole. Carattere limitatamente pedagogico rimarcato dall’irrealizzabilità del desiderio di elevazione (la fine della stagione coincide col ritorno a valle) e da un simbolismo visivo sempre più enfatico e ingombrante (Simon si dondola su uno skilift, il suo destino è appeso a un filo). Ma ogni considerazione assennata viene meno quando sullo schermo compare Jean-François Stevenin (il responsabile della cucina del rifugio), icona del cinema francese nonché autore di Le passe-montagne (1979), uno dei film più inclassificabili che chi scrive abbia avuto la fortuna di contemplare.


Recensione pubblicata su www.spietati.it.

mercoledì 16 maggio 2012

Polar 2.0

POLAR 2.0 Mariolina Diana, Michele Raga (a cura di)
Il termine polar, nato dall’unione di poliziesco e noir, indica quel genere, tipicamente francese, che mette in scena l’ambiente criminale nelle sue molteplici sfaccettature. Lotte tra bande, killer spietati e banali assassini, detective privati, ispettori e agenti di polizia (i famosi flic) sono il materiale umano su cui si fonda una lunga tradizione letteraria e cinematografica insieme. Grandi registi ed eccellenti artigiani, da Jean-Pierre Melville a Luc Besson, passando per Godard, Chabrol e Truffaut, si sono messi al servizio del polar, e altrettanto hanno fatto attori come Jean Gabin, Lino Ventura, Yves Montand, Jean-Paul Belmondo, Alain Delon, fino ai più giovani Gérard Depardieu, Daniel Auteuil, Jean Reno, Vincent Cassel. Polar 2.0 è il poliziesco francese degli anni Duemila, rinnovato nello stile e nelle tematiche, contaminato con l’horror, il western, il film d’azione, ambientato a Parigi come a Marsiglia, nelle carceri come nelle banlieue.
[Il Foglio Letterario Edizioni – pp. 280 € 15,00] 


Polar 2.0. Il poliziesco francese del nuovo millennio è un libro scritto da Alessandro Baratti, Luca Bandirali, Claudia Cassotti, Roberto Chiesi, Mariolina Diana, Fulvio Fulvi, Mauro Gervasini, Gabrielle Lucantonio, Mario Molinari, Diego Mondella, Michelangelo Pasini, Gianluigi Perrone, Adelina Preziosi, Michele Raga, Giulio Sangiorgio, Enrico Terrone, Fabio Zanello.