martedì 10 aprile 2012

Tyrannosaur (2011), Paddy Considine

Recensione pullulante di spoiler, si raccomanda la lettura a visione avvenuta.


Ideale prosecuzione/evoluzione di Dog Altogether (2007), primo saggio dietro la macchina da presa dell’attore e cosceneggiatore Paddy Considine, Tyrannosaur riprende le situazioni abbozzate nel corto d’esordio espandendone la portata narrativa e scandagliando in profondità le vicende dei due personaggi principali. A beneficiare dell’approfondimento più consistente è la figura di Hannah (Olivia Colman), volontaria in un negozio di carità che, oltre a svolgere le normali attività di commessa, accoglie pazientemente e conforta con la preghiera chi, come Joseph (Peter Mullan), fa irruzione nel charity shop in evidente stato confusionale e in altrettanto evidente bisogno di aiuto. È stato proprio il desiderio di esplorare il personaggio femminile appena sbozzato in Dog Altogether che ha spinto Considine a scrivere la sceneggiatura di Tyrannosaur: “In qualche modo conoscevo Joseph (…), ma sentivo questo bisogno di scoprire Hannah”. E di vera e propria scoperta si tratta, poiché questa figura apparentemente benestante e superficialmente benevola nasconde un inferno segreto di sofferenze quotidiane e irreparabili violenze domestiche. Dietro l’atteggiamento che agli occhi di Joseph sembra volontaristico e (auto)indulgente buonismo si celano le lesioni croniche dell’umiliazione privata.

Eppure Tyrannosaur, titolo che allude iperbolicamente alla corpulenza dell’ex moglie di Joseph, non è un film sugli abusi sessuali, sull’alcoolismo o sul degrado sociale, ma uno studio di caratteri. Rispettati nella loro integrità psicologica, nella loro irriducibile soggettività, i personaggi di Joseph e Hannah non esemplificano tipi sociali o casi sintomatici, ma abitano lo schermo conservando un fondo di opacità, uno strato grigio e indecifrabile che resiste strenuamente alla decodifica convenzionale. Ne è testimonianza la scena in cui Hannah rincuora il marito James (Eddie Marsan) che le si getta ai piedi implorando perdono: la mdp inquadra l’uomo di spalle mentre le si china in grembo lasciando in primo piano la donna che, tranquillizzandolo e accarezzandolo, reca sul volto un’espressione attraversata da tensioni contrastanti e impossibili da bloccare in un sentimento definibile con certezza (sul suo viso si dipingono, fluttuando e accavallandosi, le sfumature della commiserazione, dell’esasperazione, dell’angoscia e di uno smarrimento indicibile). Siamo su un altro pianeta rispetto al feticismo psicologistico che prescrive la corrispondenza biunivoca tra espressione facciale ed emozione provata dal personaggio.

Creazioni pellicolari che acquistano volume psichico proprio perché strappate alla retorica della narrazione a tema e sottratte alla collocazione geografica precisa (il film è stato girato in gran parte a Leeds, tuttavia l’ambientazione rimanda a una qualsiasi città dell’Inghilterra centro-settentrionale). Non illustrazioni di un manifesto, ma figure potenzialmente inesauribili e al tempo stesso non totalmente esponibili, non totalmente filmabili. Non si tratta di banale pudicizia, ché Tyrannosaur calpesta e maltratta il pudore fino a pisciarci letteralmente sopra, ma di salvaguardia di un’alterità che è tanto quella dei personaggi messi in scena quanto quella degli spettatori. Alla strumentalizzazione morbosa, insomma, il primo lungometraggio di Considine preferisce una rappresentazione costellata di sottintesi e reticenze, una trama dialogica intessuta di scontrosità che feriscono apertamente e legano intimamente i due protagonisti. Non è il solo linguaggio della violenza o della compassione ad accomunarli, ma soprattutto una reciprocità che si sottrae alla verbalizzazione e alla dichiarazione esplicita. Al contrario, più l’occasione di esprimerla apertamente aumenta più i comportamenti si fanno elusivi e respingenti: puntualmente le immagini oggettivano questa dissonanza di prossimità spaziale e distanza sentimentale mettendo a fuoco solo uno dei personaggi e riducendo l’interlocutore a sagoma in secondo piano.

Imponente e classicheggiante, lo stile di Tyrannosaur si discosta nettamente dalle riprese hand-held tipiche dei film britannici socialmente orientati. Formato panoramico, inquadrature spaziose e lapidarie, soggettive limpidamente scandite, movimenti di macchina lenti e incisivi: il linguaggio filmico sfoderato da Considine nobilita l’estetica digitale (Red One Camera e Canon 5D per alcune scene notturne) con un dettato visivo imperioso e tutt’altro che intimidito dall’ambizione della grandiosità. Astenendosi provvidenzialmente dal facile espediente del montaggio alternato, Tyrannosaur rappresenta le vicende incrociate di Joseph e Hannah con giustapposizioni sintattiche secche e perentorie: una scelta stilistica deliberatamente antidocumentaristica che culmina nell’ellissi dell’evento decisivo. Centrale sia dal punto di vista narrativo che da quello emotivo, l’omissione della ribellione di Hannah scinde il film in due parti, la prima segnata dalla violenza, la seconda trafitta dalla speranza. Un’inversione meno rassicurante di quanto sembri, poiché la progressiva affermazione di Hannah come personaggio potenzialmente salvifico è destinata a sgretolarsi sotto i nostri occhi. E nonostante l’immancabile inglesata nel pub dopo il funerale del migliore amico di Joseph sulle note di “Sing All Our Cares Away” di Damien Dempsey, il discontinuo commento musicale di Tyrannosaur trova infine nella struggente ballata “We Were Wasted” dei The Leisure Society un epilogo di lacerata ma inesausta vitalità.



Recensione pubblicata su www.spietati.it.