venerdì 21 settembre 2012

PIETÀ


Kang-do, scagnozzo di un boss che concede prestiti a usura con vertiginosi tassi d’interesse, ha un metodo tutto suo per riscuotere i crediti: rende invalidi i debitori per intascare il milionario indennizzo dell’assicurazione. La sua cruenta routine è però scombussolata da un evento del tutto inaspettato: gli si para dinanzi una donna di mezza età sostenendo di essere sua madre. Dapprima respingente e profondamente diffidente, giorno dopo giorno Kang-do si persuade che la donna pentita e servizievole sia davvero sua madre.
È indubbio che in qualità di parabola, ossia di racconto esemplare/paradigmatico, Pietà risulti in gran parte riuscito. La critica al conflittuale ‘denarocentrismo’ (“Cosa sono i soldi? L’inizio e la fine di tutte le cose”) della società sudcoreana e per estensione di tutte le realtà economicamente e criticamente sviluppate, seppur di natura semplicistica e tutto sommato incompleta, possiede una centralità indiscutibile. Non suona dunque come trascurabile civetteria autoriale l’affermazione di Kim Ki-duk a proposito del denaro quale terzo personaggio del suo diciottesimo lungometraggio: l’impietoso esattore Kang-do (Lee Jung-jin) non fa che estremizzare e imbarbarire quella logica economica che, in forme socialmente legittimate, persegue i debitori insolventi fino a metterne a repentaglio la sopravvivenza. A dire il vero l’esponente creditizio è addirittura al cubo: il prestito a usura ne rappresenta già un’elevazione al quadrato e il fratturante sistema di riscossione escogitato da Kang-do ne costituisce un’addizione esponenziale (il suo boss giunge persino a rimproverargli l’eccessiva ferocia, chiamandolo ‘macellaio’).

L’implacabilità di Kang-do, che respinge le accuse dei debitori rinfacciando loro di aver chiesto soldi in prestito sapendo di non poterli restituire, altro non è che l’inattaccabile e schiacciante logica del capitale: ecco che cosa, a chiare lettere, dice Pietà. Kang-do è personaggio emblematico, insomma, così come emblematica appare la figura femminile di Mi-seon (Cho Min-soo): è forse il caso di ricordare che nella cinematografia coreana i soggetti femminili recano nel loro corpo un’analogia con l’intera nazione (è il profilo geografico della penisola, tra le altre cose, ad aver in qualche modo suggerito e incentivato l’assimilazione tra figura femminile e identità nazionale). Sicché, di allegoria in analogia, Pietà sviluppa un discorso tutt’altro che inedito o ideologicamente stratificato (il progetto punitivo non abbandona mai i confini della prospettiva individuale per farsi coscienza dialettica), ma non per questo rinuncia a sostanziarlo drammaticamente e oggettivarlo cinematograficamente. In altri termini, non basta dire che il cinema di Kim ha già affrontato tematiche e dinamiche affini con esiti migliori (Bad Guy e Address Unknown sono i primi titoli che vengono in mente), ma occorre osservare concretamente ciò che è cambiato rispetto ai film degli esordi.

Nel corso degli anni - indicativamente tra Samaria, Primavera… e Ferro 3 - Kim è andato smaterializzando il suo cinema, letteralmente ‘disincarnandolo’ (si veda proprio Ferro 3) e tramutandolo in un gigantesco contenitore di simboli privi di base materiale e non necessitati dal punto di vista narrativo (sprovvisti cioè di quella che Jean Mitry chiama ‘logica di implicazione’, processo di arricchimento semantico che si attualizza nel corso del film). È convinzione di chi scrive, dunque opinabilissima, che solo il ricorso a una sorta di pensiero magico sia in grado di restituire a questo repertorio autoreferenziale le proprietà espressive necessarie all’articolazione di un dialogo con lo spettatore, sia pur su basi squisitamente poetiche. Non si tratta di immagini o situazioni chiave che condensano, come il nucleo incandescente di una sfera, il senso disseminato e riflesso per lampi in tutto il testo (cosa che, al contrario, succedeva in Address Unknown, dove un corpo conficcato nel terreno esprimeva fisicamente la lacerazione serpeggiante nell’intero film), ma di simboli araldici, blasoni di rappresentanza che attestano la nobiltà del titolo.

Con Arirang, videoconfessione che mescola autocommiserazione, narcisismo e arroganza addobbata di rinunce, qualcosa è effettivamente cambiato. Pur prescindendo dalla visione di Amen, lavoro che, stando alle poche immagini e notizie in circolazione, si candida a operatore di passaggio tra il minimale solipsismo di Arirang e la rinnovata vitalità di Pietà, il film vincitore del Leone d’Oro presenta numerosi elementi di rigenerazione cinematografica. Sarebbe troppo facile affermare che Kim è tornato alle origini, a un cinema di stordente violenza e lacerante dolcezza: l’esperienza maturata nel frattempo, associata alla visibilità internazionale, ha profondamente spostato le coordinate della sua poetica. Eppure nell’uso istintivo e convulso della camera digitale s’indovina il tentativo di ridisegnare un’estetica barbara, ancorata alla materialità delle cose. Lo stesso timbro cromatico-luministico delle immagini, di una cupezza opprimente che si schiarisce episodicamente in abbacinante candore (soprattutto nel prefinale), segna una brusca inversione di marcia rispetto alle tavolozze tenui o sgargianti delle pellicole precedenti, riversando la livida oscurità di Arirang su una tela nuovamente solida e resistente agli strappi sintattici.

 Per quanto il tentativo di riallacciarsi all’estetica dei film degli esordi (da Crocodile a The Coast Guard per intenderci) trovi riscontro anche nella rappresentazione del quartiere residuale e fatiscente di Cheonggyecheon dove il giovane Kim ha lavorato come operaio, lo slancio rigenerativo di Pietà deve tuttavia fare i conti col precipitato del periodo calligrafico (da Ferro 3 a Dream, con Primavera… e La samaritana a fare da titoli di transizione). Sotto l’opaco involucro digitale si intravede insomma un’artificiosità drammaturgica scaltramente ammiccante (la revisione del film in questo senso è determinante): dialoghi programmatici e capziosi (l’elencazione in crescendo sui significati del denaro), parabola espiatoria (la disperante via crucis di Kang-do), costruzione narrativa a sorpresa (illustrata esplicitamente allo spettatore in una situazione di stridente inverosimiglianza). Ancora: il personaggio di Mi-seon opera da auctrix/spectatrix in fabula (oltre a manipolare e dirigere Kang-do, ne osserva scrupolosamente le reazioni), il maglione preparato all’uncinetto funge da correlativo oggettivo del progredire della trama vendicativa (non solo la accompagna, ma la porta metonimicamente a compimento), i rari riflessi della donna sull’acquario nell’appartamento di Kang-do alludono alla doppiezza della sedicente madre (doppiezza che l’ultimo terzo di film si premurerà di sfrondare da ogni ambiguità).

Infine la camera saetta zoom e si agita convulsamente in corrispondenza dei momenti di maggiore tensione o delle esplosioni di violenza, una violenza relegata tatticamente e sistematicamente fuori campo con stacchi calcolati ed ellissi grafiche (particolare su una punta ruotante di acciaio, stacco sul pavimento irrigato di sangue). Stilizzazione, ovvero caricatura dello stile: leggibile, convenzionale e facilmente apprezzabile/riconoscibile. Persino l’epilogo, in cui Kim ritrova la potenza visiva primigenia, viene sovraccaricato da un implorante e sublimante Kyrie che ne attutisce sonoramente l’incidenza espressiva. Alla luce di ciò, non sorprende più di tanto l’affermazione veneziana di Pietà: nel migliore dei mondi possibili La cinquième saison di Peter Brosens e Jessica Woodworth si sarebbe aggiudicato il Leone d’Oro all’unanimità. In questo il maggior riconoscimento va a una pellicola interlocutoria che, pur dicendoci di una poetica non più totalmente schiava di un simbolismo evanescente e parzialmente ricondotta alla dimensione concreta, costituisce un film di passaggio e non un punto d’arrivo.

Recensione pubblicata su www.spietati.it

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