lunedì 5 dicembre 2011

UOMINI DA MANGIARE

Christine Leunens, Uomini da mangiare (Primordial Soup, 1999), Meridiano zero, 2010, pp.170, € 14,00.

Wachovi, Florida. Vita, visioni e aberrazioni alimentari di Kate Lester, bambina soggetta alle storture educative della madre lituana. Perso il padre alcuni anni prima a causa di un incidente in auto dai risvolti inconfessabili, Kate fa del suo meglio per sottrarsi ai diktat dell’irascibile e micragnosa genitrice, artefice di ripugnanti manicaretti tradizionali, ma l’intransigente e reticente educazione materna la spinge a fantasticare un universo in cui l’erotismo sconfina nel cannibalismo.

Le tre e diciotto di lunedì 5 dicembre. Scrivo nel cuore della notte mentre il vento soffia raffiche che scuotono i rami degli alberi, mandandoli a sbattere contro la lamiera della portineria nella quale da più di nove ore sono rintanato. Ho già pensato a un paio di modi per iniziare la recensione, ma entrambi mi sono suonati goffi e pomposi, così per rompere il ghiaccio ripiego su questa istantanea tra il cronachistico e il pietoso. Il fatto è che Uomini da mangiare non è affatto un libro facile da recensire. Non tanto perché la protagonista è una ragazzina vessata da una madre dai gusti culinari decisamente discutibili, ma poiché Primordial Soup, questo il ben più pregnante titolo originale, è un romanzo chiuso, ossessivamente chiuso.

Chiuso nella prospettiva narrante in prima istanza. A filtrare l’intera vicenda della famiglia Lester è lo sguardo di Kate, o meglio la visione di Kate (oggettivata dalla scrittura in prima persona), orfana di padre come la sorellina Cecilia e in balia di una madre allucinante: avida, opportunista, collerica e totalmente contraria a dare credito alle richieste delle figlie, soprattutto quelle provenienti dalla maggiore. Inevitabile che Kate, ripetutamente castigata per la condivisibile ripugnanza delle pietanze materne o la formulazione di qualsiasi esigenza personale fuori ordinanza, si rifugi nell’immaginazione per sopperire alle lacune egoistiche della genitrice, tanto perentoria e brutale nel somministrare punizioni o imporre assurde regole di condotta quanto evasiva e reticente allorché si tratta di affrontare questioni di educazione sessuale.

Chiuso nella monomania gastronomica in secondo luogo. Concretamente rifiutato da Kate, il cibo monopolizza l’intera vita della ragazzina: prima costituendo il campo di battaglia tra la sua volontà e i dogmi materni, poi rappresentando il campo semantico a cui ricondurre e tramite il quale decifrare l’ignoto, i traumi misteriosamente naturali della crescita. Tutto ciò che sfugge all’asessuato pragmatismo dell’educazione materna viene interpretato da Kate sotto forma di commestibilità, in una grottesca, totalizzante riduzione dell’esistenza all’attività del mangiare. Come quando, in seguito a uno svenimento provocato da un filmato sulla catena alimentare, si sveglia nell’infermeria della scuola e nota: “Le pareti dell’infermeria erano mute e rosa, tranne che per un poster raffigurante il profilo di un essere umano con del cibo all’interno. La scritta diceva SIAMO QUELLO CHE MANGIAMO”.

Chiuso nell’ossessione biblica, infine. Inseparabile compagna di Kate, la Bibbia pullula di metafore alimentari riferite alla sessualità. La ragazzina, colta alla sprovvista dalla bruciante comparsa degli appetiti erotici e incapace di formulare interpretazioni di secondo grado, prende alla lettera le immagini del testo sacro (“La Bibbia dice che l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e dovranno divenire una sola carne”), finendo per identificare atto sessuale e cannibalismo amoroso. Inevitabile che l’approdo al college e lo scontro con la spregiudicatezza intellettuale dei professori facciano vacillare le fideistiche certezze dell’ingenua Kate: “La diga morale che aveva trattenuto la corrente per tutto quel tempo stava cominciando a cedere, e le mie gambe pure”. Ma anziché smantellare l’edificio alimentare edificato sulle instabili fondamenta bibliche, la ragazzina ormai adolescente ci si asserraglia dentro in un crescendo allucinatorio dagli esiti rovinosamente autolesionistici. Un libro teneramente, beffardamente autoreferenziale. O meglio di un’ironia dolcemente autofagica. Le cinque e sei minuti di lunedì 5 dicembre.

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