sabato 12 novembre 2016

UN CONDANNATO A MORTE È FUGGITO

 


Lione, 1943. Accusato di spionaggio e preparazione di un attentato, il tenente Fontaine è imprigionato in un carcere controllato dalle forze di occupazione tedesca dopo un disperato tentativo di fuga. Condannato alla fucilazione, Fontaine escogita un piano di evasione servendosi dei pochi mezzi che la situazione gli mette a disposizione: un cucchiaio, del fil di ferro, coperte, ganci fabbricati con la cornice della lanterna. E, soprattutto, facendo affidamento sulla sua inflessibile volontà.






Un uomo e una porta

 

 Il reale di cui i film di Bresson recano testimonianza non è deducibile che dalla messa in scena. Che questa percezione sia stata l'oggetto di una ricerca, di un brancolamento che ha condotto a stabilire un sistema singolare, questo è noto e Un condannato a morte è fuggito ne segna senza dubbio la rottura. […] Il Condannato, precisamente, è la prima pellicola di Bresson che utilizza sistematicamente gli elementi - firma se vogliamo - che sono il marchio dei suoi film: frammentazione dello spazio, non-attori, meccanizzazione della recitazione e della dizione…
Philippe Arnaud,"Robert Bresson".

Un film su un uomo e una porta: ecco che cos'è Un condannato a morte e fuggito. In questa porta che separa Fontaine dal primo spiraglio di libertà si materializza il caso inteso come coincidenza e destino: l'accidente e il senso. Per raggiungere la libertà ventilata dall'aria che s'intrufola nella finestra della sua cella ("Il vento soffia dove vuole"), Fontaine deve innanzitutto misurarsi con questa barriera di legno che lo porterà ancora di più all'interno del carcere, nelle sue ignote anfrattuosità ("Il fallait que cette porte s'ouvre, je n'avais rien prévu pour après"; "Occorreva che questa porta si aprisse, non avevo previsto niente per dopo"). Per conquistare l'aria, deve sprofondare nell’orizzonte interno delle cose, spingersi nell'ignoto. Disperato e disilluso ("Non mi facevo alcuna illusione sulla sentenza"), Fontaine deve al caso e all'inoperosità la sua prima intuizione evasiva ("Fu per un caso che riuscii a fare il primo passo verso la libertà"): seduto davanti alla porta, non avendo nient'altro da fare che posarvi lo sguardo, si accorge che l'interstizio tra le tavole di quercia è di un legno diverso, più tenero e intaccabile ("Sicuramente esisteva il modo di smontare la porta"). Inizia così la sua lotta implacabile contro gli ostacoli che lo separano dalla libertà.

Ma ciò che Fontaine opera sulla porta non è troppo dissimile dal gesto cinematografico che Bresson compie sulla compattezza della realtà: inciderla, frammentarla e ricomporla per raggiungere una dimensione ulteriore. Manomettere la realtà per scassinarla e raggiungere l'ignoto, il mistero. Pazientemente: con un lavoro di scomposizione e ricomposizione che non mostri i segni della manomissione se non in quanto indizi impercettibili, tracce appena visibili. Impalpabili. È un lavoro nel quale la ricomposizione della superficie scheggiata (non è forse, quella di Fontaine, una montatura che rievoca il montaggio?) comporta una cura tanto attenta e premurosa quanto la scomposizione preliminare: "Ce qui me prenait beaucoup de temps c'était la remise en place et le camouflage" ("Ciò che mi prendeva molto tempo era la ricomposizione e la mimetizzazione"). In questa volontà inflessibile si fondono intenzioni e gesti del prigioniero Fontaine e del cineasta Bresson: uomini che, per raggiungere una dimensione negata dalla realtà, smontano e rimontano la materia prima, ognuno con i mezzi ridotti che questa stessa realtà, accidentalmente, mette a loro disposizione.

Ecco precisarsi con argenteo rigore l'«anti-sistema» di Bresson: suggerire, per via d'immagini allusive, l'orizzonte interiore del mondo, ciò che avviene tra le cose. Si tratta di una strategia quasi militare ("Cinématographe, art militaire. Préparer un film comme une bataille", Note sul cinematografo): accerchiare ciò che non è immediatamente o direttamente figurabile attraverso un'attitudine privativa che sottragga la visione integrale dello spazio e degli eventi. Una forma ablativa di rappresentazione che fa dell'assenza il suo centro gravitazionale: ciò che non vedi è quello che conta, è lì che risiede il mistero. Il cuore dell'azione scompare (la prima sequenza del film lo annuncia a chiare lettere), inghiottito dall'enigma che cela e rivela al contempo: il procedimento metonimico (la parte per il tutto o la sostituzione della causa con l'effetto) ne è il precipitato estetico. Nel vuoto, la verità infigurabile.

Sarebbe inutile e scriteriato tentare di dire qualcosa di nuovo su un film di cui è stato già detto tutto (per le informazioni di prammatica rivolgersi altrove, grazie). Ciononostante, mi preme mettere in luce un aspetto paradossale che mi ha profondamente colpito durante l'ennesima revisione di questo capolavoro (per una volta l'abusato termine ritrova la sua luminosità): il quarto lungometraggio di Bresson, di cui onoriamo qui i sessanta anni dalla sua uscita nelle sale francesi, dimostra con adamantina chiarezza che per raggiungere la verità (l'evocazione del segreto dell'essere attraverso la menzogna di ciò che appare ma non è) occorre un costante e inesorabile sforzo di falsificazione. In Un condannato a morte è fuggito tutto è all'insegna dell'impostura: si pensi alla falsa innocenza dei prigionieri di fronte allo sguardo dei sorveglianti (l'apparente docilità dei detenuti nasconde una febbrile attività clandestina), alla falsa staticità (una miriade di microeventi brulica nel film, mettendo lo spettatore in un ininterrotto stato di allarme), alla falsa appartenenza del film al genere carcerario (la prigionia di Fontaine non è che un pretesto per parlare della reclusione esistenziale di ogni essere umano), alla falsa impronta fenomenologica (la forte frammentazione della continuità smentisce di fatto il postulato dell'oggettività) e, infine, alla falsa letterarietà (il sapore distintamente letterario della voce narrante di Fontaine non intacca la disadorna austerità dell'arrangiamento visivo). Ciò che appare attiene alla menzogna, insomma, e il suo solo compito è quello di evocare la dimensione del segreto: l'essere implica il non apparire. E il cinema di Bresson perseguirà sempre più radicalmente, da Pickpocket (1959) in poi, titolo sottrattivo se mai ve n'è stato uno, questa rapina del visibile a esclusivo vantaggio dell'essere. Perché vedere tutto significa mancare la pungente intensità delle cose.

Qualche giorno fa, traversando i giardini di Notre-Dame, incrocio un uomo i cui occhi colgono dietro di me qualcosa che io non posso vedere e s'illuminano d'improvviso. Se, contemporaneamente all'uomo, avessi visto la giovane donna e il bambino verso i quali si mise a correre, quella faccia felice non mi avrebbe tanto colpito; forse non ci avrei nemmeno fatto caso.
Robert Bresson, "Note sul cinematografo".


Nota sul doppiaggio

 

Non saprei dire con esattezza quante versioni di questo film abbia visto (probabilmente intorno alla dozzina), ma di una cosa sono certo: vedere Un condamné à mort s'est échappé in originale costituisce un'esperienza totalmente diversa rispetto alla versione doppiata. Oltre alle consuete alterazioni linguistiche che ogni traduzione comporta e oltre all'inevitabile perdita del carattere macchinico della dizione così cruciale in Bresson, in questo caso assistiamo ad altri due fenomeni letteralmente aberranti. In primo luogo è anche la sintassi del testo originale a subire plateali distorsioni e omissioni: giusto a titolo di esempio, "Durant l'attente, dans la cour, je m’étais habitué à l'idée de la mort. J'aurais préféré une exécution immediate" diventa "Abituarsi alla morte… Ero così vicino alla fine da desiderarlo". In secondo luogo, soprattutto, è l'assedio costante dei rumori del carcere, un vero e proprio traffichio persecutorio, a ridursi ad amorfo e smorzato rumore di fondo. E così questo concerto per cucchiaio, chiavi e fil di ferro in do minore si tramuta in un film in sordina.

Pubblicata su www.spietati.it.