venerdì 14 ottobre 2016

FRANTZ

 




Al termine della Prima guerra mondiale, in una cittadina tedesca, Anna si reca tutti i giorni sulla tomba del fidanzato Frantz, morto al fronte in Francia. Un giorno incontra Adrien, un giovane francese anche lui andato a raccogliersi sulla tomba dell'amico tedesco. La presenza dello straniero nella cittadina tedesca susciterà reazioni sociali molto forti e sentimenti estremi (dal pressbook). 






Presentato in concorso alla 73ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia.
Premio Marcello Mastroianni a Paula Beer per la miglior attrice emergente.
Distribuito nelle sale cinematografiche italiane il 22 settembre 2016.

I - Premessa autoreferenziale: il principio vitale della metamorfosi 


Nel secondo numero di INLAND. Quaderni di cinema, ho tentato di individuare ciò che, semplificando quel tanto che basta a rappresentarsi le cose, ho definito l'"elemento ozoniano", vale a dire quell'elemento capace di assumere la posizione di fulcro nell'intero cinema di François Ozon, assicurando all'insieme dei suoi film un'organizzazione dinamica e singolare. Mi permetto di rimandare spudoratamente al contributo di INLAND poiché lì passo in rassegna la sua intera filmografia alla luce di questo ipotetico elemento fondamentale (cosa che mi asterrò scrupolosamente dal fare in questa sede). Mette comunque conto riportare sinteticamente l'ipotesi formulata in quel breve saggio, perché di fatto è la stessa che orienta le seguenti riflessioni. In La pelle e la traccia: riscritture del sé. Il cinema trasformazionale di François Ozon ipotizzo dunque che questo fatidico elemento risieda nell'esigenza di cambiare continuamente pelle, mantenendo come traccia permanente la riscrittura dell'identità: "Non una variazione sul tema identitario condotta con sguardo immutabile, ma una dialettica che impegna e investe lo statuto dello stesso sguardo: l'epidermide muta di pellicola in pellicola, la traccia persiste nella metamorfosi stessa". Nel cinema di Ozon, insomma, ogni pellicola (alla lettera "piccola pelle") non farebbe che ripeterci questo: l'identità resta florida solo a condizione di mutare, il suo nucleo vitale non coincidendo affatto con l'unità definitiva e difensiva ma, al contrario, con la trasformazione permanente. Questo, in estrema sintesi, quello che ritengo essere l'elemento specifico, originario e semplicemente irrinunciabile del suo cinema, elemento che a mio avviso trova compiuta incarnazione in Ricky, infante alato nel quale convergono, facendo e facendosi corpo, i tratti di un'identità rigogliosa poiché libera di dispiegare le marche della differenza e quelli di un cinema che della metamorfosi ha fatto un vero e proprio principio vitale.

Osservato da questa angolazione, il radicale del cinema di Ozon coinciderebbe quindi con la mutazione pellicolare e, al tempo stesso, con l'identità come trasformazione, movimento continuo, plasticità dinamica. Ovviamente non si tratta del cencioso concetto di adattamento (il che trascinerebbe l'intero discorso sul versante del conformismo), ma, più precisamente, della necessità di non lasciarsi intrappolare dal protocollo affettivo ricevuto e assumere soggettivamente, riscrivendolo, il destino già programmato per ciascun individuo dal complesso di norme e istituzioni sociali (la famiglia in primo luogo). Tuttavia, lo ripeto, questo movimento non interessa soltanto i personaggi messi in scena di film in film, ma coinvolge lo stesso dispositivo cinematografico di Ozon, sottoponendolo a torsioni, deformazioni e riconfigurazioni ininterrotte (è una cosa che Melvil Poupaud ha detto con invidiabile essenzialità: "Gira molto e cambia stile ogni volta, restando personale al tempo stesso"). Questa esigenza trasformazionale è così irrinunciabile da aver portato Ozon a concepire persino il "film-mix" Quand la peur dévore l'âme (2007), ibrido intertestuale creato con la libera combinazione di parti di Secondo amore (Douglas Sirk, 1955) e La paura mangia l'anima (Rainer Werner Fassbinder, 1974). Mi pare assolutamente evidente che questo mediometraggio inveri formalmente il principio vitale della poetica ozoniana: plasmare nuove identità a partire dalla riconfigurazione di quelle ereditate.


II - Spostamento del punto di vista: condividere l'inconsapevolezza

 

Ebbene, questo movimento di riappropriazione e soggettivazione è esattamente quello che permea Frantz, film liberamente ispirato a L'uomo che ho ucciso (Broken Lullaby, 1932) di Ernst Lubitsch - pellicola a sua volta basata sulla pièce teatrale L'Homme que j’ai tué di Maurice Rostand. Il rapporto coi lavori di Rostand e Lubitsch è molto simile a quello che contraddistingue Quand la peur dévore l'âme: pièce e pellicola vengono assunti come testi da rispettare esteriormente e riscrivere intimamente. Ne scaturisce una sorta di palinsesto che si nutre delle raschiature e delle interpolazioni imposte soggettivamente alla materia di partenza. La ripresa soggettiva di Broken Lullaby si compie infatti all'insegna di uno stravolgimento plateale: il ribaltamento del punto di vista dominante. Se il lavoro teatrale di Rostand e la pellicola di Lubitsch sposavano il punto di vista del protagonista maschile, Ozon sposta il baricentro emotivo e cognitivo sullo sguardo della fidanzata del soldato tedesco ucciso in trincea. Lo spostamento del punto di vista induce una profonda riconfigurazione della materia di partenza, poiché, pur mantenendo la tela narrativa di fondo (ambientazione storica e dinamiche drammaturgiche di base), l'adozione del nuovo angolo visuale comporta un posizionamento dello spettatore radicalmente differente: non più una posizione onnisciente e trepidante per il senso di colpa provato dal giovane francese che si reca in Germania per piatire il perdono, ma una condizione di inconsapevolezza e curiosità condivisa con la protagonista femminile che ha perso il fidanzato in guerra. In termini narratologici, ci troviamo in una situazione di focalizzazione interna, ovvero sappiamo soltanto ciò che sa Anna (Paula Beer) e ogni sua acquisizione cognitiva coincide con un nostro passo in avanti verso la scoperta della verità. Il desiderio di Ozon, come espresso dalle dichiarazioni contenute nel pressbook, si concentra fondamentalmente su questo nuovo orientamento narrativo: "il film di Lubitsch (…) è molto simile allo spettacolo teatrale e adotta lo stesso punto di vista, quello del giovane francese. Il mio desiderio invece era di adottare il punto di vista della ragazza che, così come lo spettatore, non sa perché quel giovane francese si reca sulla tomba del suo fidanzato".

È fin troppo semplice rilevare come questa dislocazione del punto di vista scateni l'attività congetturale dello spettatore. Detto più semplicemente, lo spettatore, privato dell’onniscienza di cui godeva nella pièce di Rostand e nella pellicola di Lubitsch, si trova costretto a formulare ipotesi sulla reale identità di Adrien (Pierre Niney) e sulla relazione che questo sconosciuto aveva con Frantz (Anton von Lucke). Chi è questo giovane francese spuntato dal nulla? Quale rapporto lo lega a Frantz? Perché è così ossessionato dalla memoria del defunto? Tutte queste domande non hanno luogo in Broken Lullaby, dal momento che lo spettatore sa fin dall'inizio che Paul (questo il nome del soldato francese nel film di Lubitsch) ha ucciso l'imbelle Walter in trincea (donde l'eloquente titolo L'uomo che ho ucciso). Insomma, in Frantz non è più la colpevolezza del soldato francese a menare le danze e costituire il nucleo emotivo della vicenda, ma l'inconsapevolezza equamente condivisa tra Anna e lo spettatore. Ed è proprio questa condizione d'inconsapevolezza condivisa a creare i presupposti di quella metamorfosi identitaria che, come abbiamo visto, costituisce il principio vitale del cinema di Ozon: è solo sulla base di questa incertezza che può svilupparsi la disponibilità all'apertura e alla trasformazione soggettiva. In palio c'è qualcosa di molto più cruciale del semplice intrattenimento: lo spostamento del punto di vista non risponde soltanto all'accrescimento del mistero intrigante, ma, soprattutto, all'allestimento di un teatro interiore propizio al dispiegamento della metamorfosi. Una metamorfosi che, naturalmente, investirà in primo luogo l'identità della protagonista, ma che, grazie alla centralità del suo punto di vista, coinvolgerà indirettamente e provvisoriamente (quanto meno per la durata della visione) anche quella dello spettatore.


III - Il movimento come materializzazione del percorso di trasformazione

 

È il movimento, in effetti, a rappresentare l'aspetto più appariscente di Frantz, un movimento che dapprima interessa la sola Anna, ma che, per interposta protagonista, finisce per contagiare lo spettatore: nel movimento del personaggio vediamo materializzarsi il suo stato e le sue potenzialità dinamiche, immedesimandoci nel suo percorso fisico e psicologico. Non è affatto fortuito che il film si apra sulla camminata della ritrosa Anna per le strade, i vicoli e le scalinate (elemento dinamico tutt'altro che secondario nel cinema di Ozon, basti pensare alla rilevanza scenografica della scala in 8 donne e un mistero) della cittadina tedesca di Quedlinburg. In questo silenzioso e solitario tragitto, non a caso completamente assente nel film di Lubistch in cui una dissolvenza incrociata elide classicamente il percorso dal negozio di fiori al cimitero, ci mettiamo in cammino insieme al personaggio, osservando il suo disinteresse per gli uomini che la guardano, interrogandoci sulla sua condizione, ipotizzando gli sviluppi futuri della vicenda. È del resto lo stesso Ozon a sottolineare l'importanza di questo incipit itinerante: "Mi piace molto riprendere i tragitti percorsi, è un modo concreto di materializzare l'idea del movimento dei personaggi e di mettere il film e i protagonisti in un luogo geografico. Era importante mostrare quella cittadina tedesca, quei tragitti dalla casa al cimitero, e poi fino alla Gasthaus. Guardare quel tragitto è interrogarsi sul personaggio, capire il suo percorso. All’inizio Anna è un po' ferma, gira su se stessa in questa cittadina. Per poi affrontare il grande viaggio che la porterà in Francia e la farà andare oltre le apparenze".

Ed è un indizio altrettanto rivelatorio il fatto che l'epilogo di Frantz sia scandito da un'altra camminata della protagonista, ma di senso diametralmente opposto a quello luttuoso e rassegnato dell'incipit: stavolta siamo al Louvre e Anna, di nuovo Giovane e bella (è stata la madre, spronandola a partire per Parigi, a sussurrarle "sei giovane e bella, non perdere questa chance!"), percorre i corridoi del museo con passo sicuro e spregiudicato, finalmente consapevole e disponibile all'incontro con l'altro (il dialogo conclusivo davanti al quadro di Manet ha quasi il sapore di un abbordaggio). Tuttavia non si tratta soltanto di emancipazione femminile, ma, più ampiamente, di trasformazione sentimentale, apertura all'esistenza. Ancora Ozon: “La sceneggiatura del film è costruita come un Bildungsroman, come un romanzo di formazione. Non ci conduce in un mondo di sogni o di evasione ma segue l'educazione sentimentale di Anna, le sue disillusioni riguardo alla realtà, alla bugia, al desiderio, alla maniera di un racconto iniziatico". Tra l'incipit chiuso nel dolore funereo e il finale aperto alla voglia di vivere ("Il me donne envie de vivre", dice Anna guardando il dipinto Le Suicidé) c'è l'incontro con Adrien, palese doppio di Frantz, c'è l'azione consolatoria della menzogna da lui avallata e, soprattutto, c'è la diversa piega che l'elaborazione del lutto prende per i due protagonisti. Momentaneamente ravvivato dalle bugie di Adrien, il romanticismo di Anna viene soffocato dalla scoperta della verità (le colorite passeggiate nella natura, ispirate alla pittura romantica di Caspar David Friedrich, perdono all'improvviso ogni umore cromatico). E se Adrien si rifugia vigliaccamente nell'abbraccio letale della famiglia, Anna non si lascia abbattere dalle disillusioni incassate a ripetizione, trovando al contrario, nell'acquiescenza del giovane francese, uno stimolo a cercare la propria indipendenza al di fuori della confortevole e mortale cornice domestica. Detto altrimenti, Adrien sopravvive fisicamente alla guerra in trincea e muore sentimentalmente tra le quattro mura della sua lussuosa dimora (il matrimonio programmato dalla madre con Fanny/Alice de Lencquesaing); mentre Anna, tentato il suicidio nelle fredde acque di un lago sassone per la disperazione, rinasce a nuova vita proprio dopo aver assaporato fino in fondo il veleno delle costrizioni familiari e averne osservato gli irreversibili effetti su Adrien (l'ultimo dialogo con la di lui perfida madre/Cyrielle Clair).


IV - Metamorfosi e suicidio: cambiare o morire

 

Tutto ciò ci riconduce, a posteriori, al principio della metamorfosi. Mi pare difatti che Frantz, analogamente e antiteticamente a Il tempo che resta, porti alle estreme conseguenze il discorso della trasformazione come questione di vita o di morte. Se il film del 2005 ci mostrava che persino la morte imminente poteva rappresentare un'occasione di apertura al cambiamento (il titolo del film fa pensare non solo al tempo che resta da vivere nella vita di un uomo, ma anche al tempo che rimane davvero della sua vita), Frantz ci mostra che l'ombra della morte può cadere sul soggetto in vita, perfettamente sano e con molti anni davanti a lui. In altri termini, se Il tempo che resta mostrava l'apertura alla vita perfino nella morte annunciata, Frantz mostra inversamente la chiusura mortale nella vita agiata. Con Frantz, insomma, ci troviamo di fronte alla formulazione definitiva delle conseguenze derivanti dall'incapacità di trasformarsi, dalla riluttanza nell'abbracciare il percorso della metamorfosi: rinunciare alla trasformazione equivale a una condanna a morte, al suicidio o alla morte in vita (che, in fondo, è esattamente la stessa cosa). E sono proprio i due tentati suicidi di Frantz a suggerire cinematograficamente questa equivalenza: nel momento in cui le possibilità di cambiamento appaiono sbarrate (Anna ha scoperto la menzogna di Adrien; Adrien è tornato in Francia con la coda tra le gambe), entrambi i personaggi provano a farla finita. Ma se Anna viene salvata dall'inopinato soccorso di un passante e, nonostante l'amarezza del disincanto, ritrova lentamente il desiderio di vivere (i genitori di Frantz e il confessore in questo senso favoriscono il suo recupero), Adrien, benché scampato al tentato suicidio, muore virtualmente rinunciando a spezzare la lapidaria linea familiare (quello di Adrien è fin troppo emblematicamente un destino di morte, le sue iniziali incise sulla tomba dello zio colonnello sanciscono per metonimia che il suo slancio vitale è ormai morto e sepolto). Non è pertanto fortuito che sia il solo tentato suicidio di Anna a essere rappresentato integralmente, mentre quello di Adrien è ricostruito per via indiziaria attraverso consultazioni di medici, registri clinici e, infine, testimonianze dello stesso giovane. È proprio questa mancata rappresentazione, che ovviamente non risponde a esigenze di sintesi (una breve scena dell'atto avrebbe occupato molto meno tempo della lunga e fuorviante indagine di Anna), a segnalarne tutto il peso specifico: affidando alla ragazza tedesca il ruolo attivo e ostinato di detective, il film allude al fatto che Adrien sia ormai un residuo passivo, un morto vivente sepolto in una tomba non meno marmorea di quella in cui è tumulato lo zio, il castello di famiglia. Nella ricerca dello scomparso Adrien (non suona più nell'orchestra, non è più ricoverato nella clinica psichiatrica, non è più a Parigi), Anna non ha fatto che passare da una tomba all'altra, da un sepolcro all'altro. E se lei continua a muoversi e cambiare, Adrien, ormai condannato a deperire comodamente, ha letteralmente smesso di farlo: "È troppo tardi", gli dice piangendo e dandogli un bacio in extremis mentre il suo treno per Parigi è sul punto di partire.

Azione castrante della madre di Adrien e morte in vita di quest'ultimo, funzione emancipatoria dei genitori di Frantz e del confessore e, infine, movimento/mutamento liberatorio di Anna: il quadro d'insieme sembrerebbe completo. Ma di fatto manca un dettaglio fondamentale: perché il film s'intitola Frantz anziché "Anna", "Anna e Adrien" e via ipotizzando? Quale posizione occupa il giovane tedesco ucciso ancor prima dell'inizio del film? In primo luogo, il suo ruolo di assente onnipresente non è troppo dissimile da quello rivestito dalle figure maschili nella celebre commedia Donne (The Women, 1939) di George Cukor: pur essendo rigorosamente esclusi dalla scena tutta al femminile, gli uomini sono i protagonisti assoluti dei dialoghi e delle dinamiche rappresentate. In virtù della sua assenza fisica, insomma, Frantz acquisisce una presenza drammaturgica così ingombrante da farsi chiodo fisso, ossessione inestirpabile: la replica di Anna alla madre di Adrien al termine del dialogo di congedo - "Non sono io che tormento suo figlio, signora, è Frantz" - esplicita definitivamente l'onnipresenza di questo fantasma aleggiante su tutto il film. In secondo luogo, di gran lunga più decisivo del primo, Frantz riassume esemplarmente in sé i tratti dell'auctor in fabula, non soltanto rivestendo il ruolo di doppio fantomatico di Adrien (col violino a fare da sonante oggetto mediatore tra i due), ma, soprattutto, assumendo a pieno titolo la funzione registica. Detto in termini più brutali, Frantz rappresenta lo stesso Ozon all'interno del film. Non è solo l'ovvia concatenazione lessicale "Frantz>Französisch>Français>François" a suggerire questa assimilazione, ma, meno banalmente, il suo agire nell'ombra e il suo palesarsi nel riflesso di Adrien. Che cosa fa Frantz oltre a morire in trincea e ossessionare i personaggi con la sua assenza? Scrive una lettera che funziona come una sceneggiatura, elegge Adrien a suo sostituto in una sorta di casting suicida e, dettaglio letteralmente determinante, vigila sornione sull'intera vicenda. È lui che, in albergo, occhieggia dall'altra parte dello specchio stabilendo una complice intesa con Adrien, complicità che suona distintamente come un'investitura ufficiale. È il suo sguardo a oggettivarsi virtualmente nei punti macchina: durante il primo pranzo in casa Hoffmeister, la camera inquadra la scena dalla prospettiva che nel film di Lubitsch era occupata dalla sedia vuota del giovane caduto, il "posto del morto". Sceneggiatore fantasma, occulto artefice del casting e benevolo promotore dell'incontro tra Anna e Adrien, Frantz è in definitiva l'autentico demiurgo che muove i fili dietro le quinte e che, in un estremo gesto di annichilimento a vantaggio della sua protegée, si suicida figuratamente e figurativamente per ridarle di nuovo “envie de vivre”. La metamorfosi si è compiuta, il bianco e nero funereo si è finalmente convertito in colore schioccante: Frantz/Adrien/François può definitivamente eclissarsi e fissarsi in pura immagine, ostacolo ormai estraneo alla gioiosa vitalità di Anna.

V - Postilla autoreferenziale: coazione a non ripetere

 

Al termine di questa smisurata celebrazione della metamorfosi, non posso fare a meno di interrogarmi brevemente sul limite più insidioso dell'intero discorso. Se è vero che il cinema di Ozon è rigorosamente anticonservativo (molto più che anticonvenzionale), è altrettanto vero che questo rigore ha qualcosa di programmatico e vagamente impositivo. La celebrazione del movimento trasformativo come fatto irrinunciabile non rischia forse d'irrigidirsi in norma tanto inderogabile e costrittiva quanto il protocollo notarile dal quale ci si vorrebbe smarcare? È questa ipoteca normativa ad apparirmi sempre più chiaramente come il limite interno (e nascosto) del suo cinema: in forma di domanda retorica, qual è la differenza tra coazione a ripetere e coazione a non ripetere?

Pubblicata su www.spietati.it.

mercoledì 5 ottobre 2016

ONE MORE TIME WITH FEELING







"One More Time With Feeling" documenta la registrazione del sedicesimo album in studio di Nick Cave & the Bad Seeds (Skeleton Tree), affrontando le ripercussioni intime della morte di Arthur, il figlio quindicenne di Nick Cave. 










Presentato Fuori Concorso al Festival di Venezia 2016 e uscito nelle sale italiane per due soli giorni (27 e 28 settembre), One More Time with Feeling avrà una nuova distribuzione nei cinema a partire dal primo dicembre.


I - La sostituzione della campagna promozionale

 

È stato Nick Cave a chiedere esplicitamente ad Andrew Dominik di realizzare un film che lo esentasse in qualche misura dall'esposizione pubblica e funzionasse come una sorta di un live show cinematografico, dispensandolo dall'incombenza della promozione del suo ultimo disco Skeleton Tree (ecco perché Cave non era a Venezia ed ecco perché i video del nuovo album sono veri e propri estratti del film). Insomma, One More Time with Feeling è a tutti gli effetti un film sostitutivo, un lavoro che sta per qualcos'altro: gli incontri con la stampa, la presentazione del disco, i concerti in giro per il mondo. Per il momento c'è il film al loro posto e già questa sostituzione dovrebbe farci drizzare le antenne: anziché qualcosa che avviene nella realtà e nel corso del tempo, abbiamo un sostituto cinematografico che condensa e rimpiazza tournée e campagna promozionale. I motivi per i quali Cave ha deciso di girare il film rivolgendosi proprio a Dominik sono numerosi e non starò certo a elencarli (basti menzionare la lunga amicizia tra i due, complice involontaria Deanna Bond, ex fidanzata di Cave e attuale compagna del regista). Ma tra questi almeno uno non può essere omesso, poiché, seppur universalmente noto, costituisce l'ostacolo inaggirabile della questione: la morte di Arthur, figlio quindicenne dell'artista australiano e fratello gemello di Earl, che compare a più riprese nel film. Così Dominik a proposito della dolorosa congiuntura attraversata da Cave: "When he realized he had to promote the record, the thought made him feel sick: talking to journalists, discussing Arthur. He didn't feel he could do it with strangers. The initial instinct for Nick was to protect himself, so he didn't have to answer questions. It becomes the only subject that there is, all the film is dealing with is Nick's grief feelings".

Come possiamo facilmente indovinare, alla funzione inizialmente alternativa alla promozione e all'esibizione pubblica si accompagna, complicandola, una funzione fortemente elaborativa e contenitiva. Sta di fatto che, a una prima occhiata, il dato più appariscente del film sembra consistere nella stratificazione, nell'accavallarsi e intrecciarsi di molteplici livelli compositivi: il bianco e nero quasi integrale, le esigenze di calibratura del 3D, i dialoghi con Warren Ellis, Cave, la moglie Susie e il figlio Earl, la messa a punto dell'arrangiamento per le incisioni, le esecuzioni musicali in studio, le liriche pronunciate in voce over da Nick, le riflessioni dello stesso Cave su frammenti del girato, le aperture ambientali su Brighton, Londra e così via. Si crea una gerarchia rigida tra i vari strati? Almeno in parte sì, impossibile non riconoscerlo, giacché la funzione performativo-promozionale è salvaguardata e solidamente eseguita: i brani di Skeleton Tree ci sono tutti, video inclusi (non dimentichiamo che Cave, come sottolineato da Dominik, ha finanziato il progetto personalmente: "Nick paid for the film out of his own pocket, and I would like for him to recoup his investment. It's basically to sell the record, that's the idea of the film"). Ciononostante, espletata la commissione promozionale, la stratificazione si svincola dalla gerarchizzazione dei livelli e genera una fertile confusione inclusiva che possiede due caratteristiche fondamentali: da una parte oggettiva cinematograficamente la necessità di prevenire l'effetto di spettacolarizzazione del dolore (la minaccia onnipresente del "grief porn") e, dall'altra, inscrive nel tessuto compositivo il processo ancora incompiuto dell'elaborazione del lutto, processo che, com'è noto, non può fare a meno dei tre requisiti del tempo, del dolore e della memoria (Arthur è morto nel luglio 2015 e i 10 giorni di riprese del film si collocano nel febbraio 2016, poco più di 6 mesi dopo il drammatico evento, ai quali si sono aggiunti successivamente alcuni frammenti girati in aprile).


II - Il mantello protettivo del 3D

 

Includere la confusione nel film diventa quindi doppiamente necessario: scongiurare l'oscenità del grief porn da un lato e, dall'altro, mostrare l'elaborazione del lutto in corso (il titolo One More Time with Feeling mi pare suggerire proprio questa idea di processo in cui il tempo dell'elaborazione non è ancora terminato, ma ha bisogno di un supplemento, un ulteriore lasso per compiersi a sufficienza). Non è del resto un mistero che Dominik abbia concesso a Cave e alla moglie Susie la facoltà di scartare dal montaggio finale le parti sgradite (un accordo dello stesso tipo lo vediamo stabilire all'interno del film con Earl, durante il primo incontro familiare nello studio di registrazione). Oltre a queste due caratteristiche fondamentali, la confusione inclusiva produce un altro effetto: la costruzione di un luogo astratto - o un non-luogo se preferiamo - la cui esistenza è squisitamente cinematografica (è vero che le riprese si sono svolte tra Londra e Brighton, ma i continui accavallamenti audiovisivi impediscono alla dimensione geografica di ancorare stabilmente le sequenze). Questo luogo astratto e squisitamente filmico ci avvicina al mantello affettivo di One More Time with Feeling, un mantello rappresentato sia da Warren Ellis che dalla tecnica di ripresa in 3D. Storico collaboratore di Cave e autentico collante dell'equilibrio collettivo, Ellis è non solo la figura che tiene insieme i pezzi (Cave lo dice a chiare lettere in una delle riflessioni in voice over), ma è anche colui al quale gli scontenti Nick e Susie hanno concesso l'ultima parola sul destino del film (Andrew Dominik: "Susie didn't like anything with her and Nick didn't like anything with him, but they liked each other. And so what they did was show it to Warren and he basically decided the fate of the film. Fortunately Warren liked it all, so it just got left alone").

Ebbene, la ripresa/visione in rilievo, fortemente suggerita per un film che nella dimensione spaziale ha la sua flagranza, possiede la stessa proprietà contenitiva e protettiva attribuita da Cave a Ellis: tiene insieme i pezzi in un abbraccio che non soffoca in una stretta apprensiva e che, pur assicurando coesione strutturale, non costringe le diversità in un ordine prestabilito. E, soprattutto, protegge l'intimità dei soggetti senza comprometterne la singolarità, anche quando questa coincide con una vulnerabilità prossima al disfacimento. Come precisato da Dominik, l’ambizione del film consiste esattamente nel prendersi cura della fragilità di Cave (e della sua famiglia, occorre aggiungere), sbozzando un'embrionale struttura narrativa in cui i sentimenti informi, confusi e dolorosi possano depositarsi in cerca di un senso e di una forma possibili: "But it's a guy trying to make a record, and there's all this noise around him and inside him is an inner voice that is constantly struggling and trying to deal with his feelings. It's about giving them a narrative structure that can help him make some sense of something that doesn't make a lot of sense. That's the whole ambition of the film. It's supposed to portray the confusion and the beauty". Avvolgere la confusione nel mantello 3D, insomma, significa circoscrivere un lavorio interiore che può essere rappresentato solo in chiave spaziale e in tonalità minore (il bianco e nero scheletrico, la struttura narrativa minimale coincidente col film stesso come contenitore): del resto la dimensione temporale e grandiosamente trasformativa era già stata ampiamente celebrata in 20,000 Days on Earth, pellicola in cui la magniloquenza espressiva assecondava la tendenza all’ostentazione megalomanica di Cave e in cui la trasformazione performativa aveva i tratti quasi mistici dell'ascensione raggiante (l'esecuzione live di Jubilee Street sopra ogni altra cosa: "I'm transforming / I'm vibrating / I'm glowing / I'm flying / Look at me now / I'm flying / Look at me now").


III - Il nucleo vuoto del trauma

 

Così, se 20,000 Days on Earth era tanto lineare quanto pieno di Cave, One More Time with Feeling va nella direzione opposta, accumulando frammenti caotici e svuotando. Qui è la qualità spaziale (della musica e non solo) a prevalere, è l'accumulo di sequenze costruite con pezzi di cose concepite in momenti differenti a strutturare il film. E, soprattutto, è la sensazione letteralmente indicibile del vuoto a imporsi come nucleo doloroso che il mantello tridimensionale, in questa rappresentazione simile alla stratificazione terrestre, abbraccia e custodisce premurosamente. All'interno di questo spesso involucro protettivo che cosa si trova? Nient'altro che lo spaventoso vuoto del trauma, un "anello" o "recinto" (parole dello stesso Cave) che, aprendo una voragine nel reale, non offre più una versione grandiosamente narcisistica della trasformazione, ma obbliga, semplicemente e inevitabilmente, al cambiamento. Cave lo dice molto bene nel film: "La maggior parte di noi non vuole cambiare veramente. In effetti, perché dovremmo? Ciò che inseguiamo è una sorta di variazione dal modello originale. Proviamo sempre ad essere noi stessi - versioni migliori di noi stessi. O almeno così ci auguriamo. Ma cosa succede quando un evento è così catastrofico da cambiarci completamente? Ci trasformiamo in persone sconosciute. Così quando ci guardiamo allo specchio, riconosciamo la persona che eravamo. Ma ora dentro la nostra pelle vive una persona diversa". È questo buco nel reale a costituire l'autentico nucleo irrappresentabile, vuoto e gravitazionale del film, un nucleo traumatico che il film tenta di costeggiare e circoscrivere senza fargli violenza, senza risolverlo finzionalmente, senza incapsularlo in una struttura rigida e simbolicamente consolatoria. Ancora Dominik: "The real feeling is not one of sadness or one of anger, it's this incredible feeling of emptiness. He talks about it as a trauma, and that's really what it is. He has not been able to create some story around it that contains it or encapsulates it in the same way that you can when you're talking about a song or some other experience. I hope what the film manages to do is to express that confusion. That it isn't resolved".

In altri termini, One More Time with Feeling non è un surrogato narcisisticamente immaginario della perdita (il vieto cliché del dolore che alimenta la creatività) né una protesi simbolica incaricata di colmare il buco reale provvedendo un supplemento narrativo tornito e rassicurante (Dominik: "I don't think perfection is your friend, I think perfection is the enemy"), ma, molto più semplicemente, una testimonianza spaziale (essere lì, in quella situazione, e inquadrare: "We worked framing, which is just pointing the camera", dice Dominik nella conferenza stampa veneziana) che si guarda bene dal proporre un arrangiamento terapeutico o una conformazione normativa alla materia rappresentata. Se questa rispettosa inclusione rifletta in qualche misura l'istintiva soggezione di Dominik per Cave non è dato sapere né rileva minimamente in questa sede, quello che è certo, invece, è che tempo, dolore e memoria sono lasciati integralmente all'interiorità del musicista australiano, il film attenendosi a testimoniare un processo in atto. Ed è proprio questa intimità avvolgente del 3D che dà al film un valore intensamente topologico, un valore in cui lo spazio acquisisce vivide connotazioni psichiche: i 35' di performance musicali riverberano nella cassa di risonanza tridimensionale al cui centro, avviluppato dall'accidentata improvvisazione delle riprese, risiede il vuoto irrappresentabile del trauma, preservato nella sua radicale indicibilità.

One More Time with Feeling non ha dunque la pretesa di riannodare forzosamente reale, immaginario e simbolico di Cave in un'illusione di guarigione post-traumatica (qui il dopo non esiste, c'è solo il presente sfrangiato, aperto e intrinsecamente incompiuto), ma intende, al contrario, preservare il processo in corso con una distanza intima e benevolente (il bianco e nero contribuisce a questo distanziamento discreto, ovvero non invasivo e insieme apprezzabile). Non si tratta, ovviamente, di neutralità dello sguardo: durata delle inquadrature e movimenti di camera (dolly felpati, carrellate circolari, avvicinamenti stetoscopici per amplificare la pulsazione spaziale della musica) esprimono con cristallina e permanente chiarezza la sollecitudine della rappresentazione, un impasto audiovisivo di complementarità e coinvolgimento. E, inversamente, non si tratta neanche di eccessivo pudore o ritrosia rinunciataria. Dal momento che il film deriva per forza di cose dall'intrusione in uno spazio intimo, tanto sul versante del processo creativo quanto su quello più strettamente personale (Dominik: "I always felt like I was intruding"), la questione cruciale di One More Time with Feeling si concretizza nell'esigenza di evitare sia il cinismo del grief porn che l'inibizione del commiserevole mutismo (ancora Dominik: "As a friend, I wouldn't ask Nick the questions that I would ask him as a director. And I had to be the director"). Si tratta, invece e in ultima battuta, di affidare a una consapevolezza non edulcorata dai cascami del sentimentalismo il coraggio di abolire la struttura narrativa riparatoria e accogliere la dirompenza della lacerazione nello spazio filmico. Perché in fondo a One More Time with Feeling, topologicamente e letteralmente, nel luogo terminale della galleria di ritratti e al luogo della persona evocata, non c'è l'immagine di Arthur, ma uno spazio bianco. Il trauma reale della sua scomparsa ha lasciato un vuoto che il film non può riempire, pena lo scadimento nell'assistenzialismo, ma soltanto mostrare nella sua irreparabile assenza. Uno spazio in cui egli è mancante, non più lì, realmente irrappresentabile.

Un ringraziamento all'amico Francesco Saccaro, le cui osservazioni sulla stratificazione connessa all'elaborazione del lutto hanno dato il via a queste riflessioni.

Pubblicata su www.spietati.it.

HOUNDS OF LOVE

 




Nell'estate del 1987, la diciassettenne Vicki Maloney viene rapita da una coppia di serial killer, John e Evelyn White. Dal momento che la fuga pare impossibile, Vicky inizia a osservare la dinamica di coppia dei suoi sequestratori, indovinando rapidamente che, per sopravvivere, dovrà incunearsi tra loro (dal pressbook). 








Thriller psicologico ad alto contenuto di sadismo e ferocia manipolatoria, Hounds of Love, lungometraggio cinematografico d'esordio di Ben Young (classe 1982), rappresenta a prima vista l'ennesima variazione sul tema della coppia di serial killer in cui la figura femminile asseconda ed esegue più o meno docilmente gli ordini perversi del maschio padrone. In questa sorta di sottogenere all’insegna dell'amour fou è immancabilmente la gelosia della donna servile a incrinare l'eccitante ecatombe amorosa della coppia: impossibile non pensare a titoli come The Honeymoon Killers (1970) di Leonard Kastle o al più recente Alleluia (2014) di Fabrice Du Welz, passando per Profundo carmesí (1996) di Arturo Ripstein. Ma, a differenza delle pellicole citate, Hounds of Love apporta due sostanziali modifiche: la prima è quella della stanzialità spaziale (i tre film menzionati sono sostanzialmente road movie irrorati di sangue), la seconda è quella dell'introduzione della "terza incomoda" (la ragazza sequestrata stavolta non si lascia imprigionare nel canonico ruolo di vittima designata/carne da macello, ma conquista gradualmente qualificazione attiva grazie alle sue capacità di osservazione).

Passato pressoché in sordina nella sezione veneziana Giornate degli Autori, Hounds of Love concentra la sua forza illocutoria proprio in questi due punti di torsione espressiva, facendo di necessità virtù: l'ambientazione anni '80 a Perth (Australia Occidentale) non risponde soltanto a esigenze di verosimiglianza (Young si è ispirato a casi reali di coppie criminali), ma soprattutto alla necessità di contenere i costi produttivi (non inganni il formato cinemascope 2:35, il film è stato girato in digitale con due camere Arri Alexa e una Phantom Flex4k per le riprese ultrarallentate a 1000 fps). Questo solido ancoraggio realista, reso possibile dalle particolari condizioni urbanistiche di Perth (intere aree sono state costruite negli anni '70 e '80, restando praticamente immutate fino a oggi), dà a Hounds of Love un sapore tanto credibile quanto singolare: è anche in virtù del radicamento ambientale che il film non scade nell'apologo surreale o nell'allegoria sociologicamente connotata. Una singolarità che segna altrettanto incisivamente l'impianto drammaturgico: la cattura di una preda che, vistasi impossibilitata a fuggire, sfrutta le risorse psicologiche per lacerare la relazione sadomasochistica dei suoi aguzzini sposta il centro gravitazionale del dramma dalla follia a due ermeticamente chiusa allo squilibrio di una triangolazione emotiva sempre sul punto di rovinare da una parte o dall'altra. Il microcosmo a tenuta stagna della violenza domestica e del controllo maschile si tramuta progressivamente in uno spazio sbilanciato e scricchiolante, fratturato da improvvise crepe che ne compromettono la stabilità strutturale. Ed è precisamente sulla spinta di queste componenti singolari che Hounds of Love, come afferma lo stesso Ben Young, acquisisce una traiettoria in qualche modo universale: "Dal punto di vista tematico il film tratta di codipendenza, controllo e violenza domestica, temi che per loro natura sono molto universali".

Ispirato dalle letture materne (la madre di Ben Young è scrittrice di crime fiction ed è solita passare i libri che legge per le sue ricerche al figlio), Hounds of Love (titolo a sua volta ispirato dall'omonimo brano di Kate Bush non finito nel film a causa dell'eccessivo costo dei diritti) articola la triangolazione emotiva anche nel rapporto tra lo spettatore e i personaggi messi in scena: se la coppia di aguzzini interpretata da Emma Booth e Stephen Curry (il volto della commedia australiana, strappato qui alla consueta maschera rassicurante) reclama una qualche empatia nelle vessazioni a cui John è sottoposto dallo spacciatore-creditore e nell'affetto mostrato da Evelyn per il suo cane (animale che sostituisce metaforicamente i figli lontani), Vicki oggettiva esemplarmente all'interno del film la posizione spettatoriale (è in una condizione di immobilità fisica e percezione accresciuta: submotricità e iperpercettività che caratterizzano la situazione della visione cinematografica). E, infine, lo stratagemma comunicativo adoperato da Vicki (Ashleigh Cummings) per comunicare col fidanzato (il crittogramma che, lo sappiamo dall'inizio del film, potrà essere decodificato solo da Jason) introduce un ulteriore meccanismo di attivazione cognitivo-emotiva dello spettatore.

Proveniente dalla regia di serie televisive, video pubblicitari e musicali, Young manipola l'impasto audiovisivo con padronanza e disinvoltura: nonostante uno sguaiato ammiccamento a Il silenzio degli innocenti (il raccordo di montaggio ingannevolmente salvifico del prefinale) e uno scioglimento piuttosto artificioso, il cineasta australiano esaspera le riprese in slow motion con lenti lungofocali, creando un sentimento di voyeurismo immediato (si veda l'incipit) e agganciando questo registro visivo alla perversione predatoria di John. E anche se gli inserti musicali non brillano affatto per originalità ("Nights In White Satin", The Moody Blues; "Lady D’Arbanville", Cat Stevens; "Atmosphere", Joy Division), il soundtrack elettronico di Dan Luscombe, tra droni opprimenti e sonorità ansiogene, incapsula minacciosamente l'intero film nell'incubo della paranoia permanente. Insieme a Chopper (2000) di Andrew Dominik e Animal Kingdom (2010) di David Michôd, non a caso altri due lungometraggi d'esordio, Hounds of Love compone un ideale trittico sulla perdita dell'innocenza australiana.

Pubblicata su www.spietati.it.