lunedì 26 settembre 2016

LOST RIVER

 




In una città morente, Billy, madre nubile di due bambini, è trascinata poco a poco nei bassifondi di un mondo oscuro e macabro, mentre Bones, suo figlio maggiore, scopre una strada segreta che porta a una città sommersa. Billy e suo figlio dovranno affrontare numerosi ostacoli affinché la loro famiglia riesca a cavarsela (dal pressbook).








Tra le innumerevoli conferenze stampa, presentazioni pubbliche e interviste festivaliere rilasciate da registi che perlopiù non fanno che ripetere le solite formule autopromozionali, si trovano anche, seppur sporadicamente, osservazioni sulle quali vale la pena soffermarsi, eleggendole a oggetto di riflessione. Soprattutto quando, come avviene in questo caso, a parlare è Paul Schrader, studioso, sceneggiatore e autore che ha attraversato quasi mezzo secolo di cinema americano captandone segnali di rinnovamento e riconfigurazioni radicali. Nell’intervista rilasciata alla Quinzaine des Réalisateurs in occasione della proiezione del suo ultimo e ludicamente funereo film Dog Eat Dog, Schrader afferma qualcosa che va ben al di là della constatazione lapalissiana o della dichiarazione di circostanza. Riferendosi non tanto al suo film quanto, più ampiamente, al cinema contemporaneo, Schrader dà alla sua osservazione una portata critico-teorica: la considerazione sul mutamento dei singoli film (critica) si ripercuote sulle condizioni generali di possibilità del mezzo (teoria).
Ecco cosa sostiene l’autore di Hardcore (1979), Cortesie per gli ospiti (1990) e The Canyons (2013): «La lezione di base che ho appreso negli ultimi cinque anni è che la nozione dello stile unificato sta collassando. Eravamo abituati a questa nozione che ogni film avesse il proprio stile particolare e ora, con queste sensibilità “multimedia multitasking”, puoi mescolare e combinare a piacimento quello che vuoi nei film e gli spettatori non se ne preoccupano. Puoi girare una scena alla Cassavetes, metterla accanto a una scena alla Welles, a una scena alla NCIS, alla Godard o alla Béla Tarr: gli spettatori le processeranno tutte insieme. Sicché ogni cosa è in qualche modo possibile e ciò rende la situazione eccitante ma anche un po’ caotica».

Ebbene, alla luce delle considerazioni schraderiane, non sorprende affatto che Lost River, esordio alla regia di Ryan Gosling, abbia messo in difficoltà la critica proprio per il suo carattere palesemente e ostentatamente eterogeneo. Il fatto, però, è che la disomogeneità stilistica (il collasso della nozione di stile unificato, direbbe Schrader) non costituisce soltanto una caratteristica diffusa e in qualche modo distintiva del cinema contemporaneo, ma in questo caso è addirittura assunta come insegna esplicita, vero e proprio principio creativo. Le prime parole che si leggono nel Presskit del film sotto la voce “Note del regista” non potrebbero essere più chiare: «A più di un titolo questo film è il regalo che mi hanno fatto i registi con i quali ho avuto la fortuna di lavorare in questi ultimi anni. Come attore sono passato dai film profondamente ancorati nella realtà di Derek Cianfrance all’immaginario di Nicolas Winding Refn. Penso di aver oscillato tra questi due estremi perché la mia sensibilità di regista si situa da qualche parte tra i due». Insomma, non siamo davanti a un film che fa della coerenza stilistica la propria ragion d’essere, ma, al contrario, ci troviamo di fronte a una pellicola che dichiara apertamente la propria eterogeneità estetica (l’oscillazione tra i due poli del realismo e della trasfigurazione immaginifica) e la propria eredità genetica (Cianfrance e Refn su tutti). In altri termini, le accuse di scarsa originalità, incoerenza e confusionismo piovute su Lost River (“ha scimmiottato Lynch, Malick, X, Y e Z”; “ci ha messo dentro troppa roba senza saperla controllare”; “il virtuosismo si è divorato la narrazione”) non ignorano soltanto la constatazione di Schrader, denunciando in questo modo il ritardo della critica nei confronti di un mutamento cinematografico in larga parte già consumatosi, ma trascurano anche il carattere fortemente esplicito della disomogeneità stilistica come deliberato principio compositivo, riproducendo così nel particolare (film) un attaccamento nostalgico a categorie di giudizio definitivamente superate e una miopia teorica che impedisce di mettere a fuoco la trasformazione avvenuta sul piano generale (cinema).

Duole molto essere costretti ad adottare un tono così didascalico e illustrativo, ma è proprio di fronte a film del genere che occorre fare, in qualche modo, il punto della situazione ed evidenziare lo strappo prodottosi tra critica e film da una parte e critica e teoria dall’altra: rifugiarsi nel misoneismo rancoroso in nome di una perduta unità stilistica significherebbe allontanarsi irrimediabilmente dalla produzione audiovisiva contemporanea e alienarsi inconsapevolmente nel culto di un passato mitico nel quale i Grandi Maestri padroneggiavano lo Stile (Forma) e la Narrazione (Contenuto). Anche perché, non appena superato lo scoglio della disomogeneità formale, si scorge con facilità un elemento coesivo sufficientemente capace di assicurare unità espressiva a Lost River: il tono oscuramente fiabesco. L’oscillazione tra ancoraggio realista e trasfigurazione immaginaria trova difatti in questa tonalità una sintesi in grado di incorporare un realismo che talvolta rasenta addirittura l’improvvisazione (la sequenza del ballo tra Bully/Matt Smith e Marylou/Mama Aris) e una traccia fantastica che in alcuni frangenti non teme di seguire una segnaletica scopertamente surreale (l’incantesimo della città sommersa e i lampioni che si accendono quasi per magia dopo l’immersione di Bones/Iain De Caestecker).

Questa tonalità distinta e persistente che attraversa e lega a varie altezze l’appariscente eclettismo stilistico (ecletticità peraltro acuita dalle spezzature di un montaggio che gioca molto spesso su divaricazioni spaziali e accavallamenti cronologici sensibilmente spiazzanti) consente inoltre al film di integrare continui riferimenti a pellicole anni ’80 senza che questi ne dirottino la traiettoria intimamente fantastica (Gosling: «Ho attinto ai film fantastici per il grande pubblico degli anni ’80 coi quali sono cresciuto e ho passato questi riferimenti attraverso il prisma della sensibilità che ho acquisito successivamente in materia di cinema. Partendo da là, la storia di Lost River ha cominciato a disegnarsi sotto forma di fiaba oscura, con la città nel ruolo della damigella in pericolo e dei personaggi simili ai frammenti di un sogno spezzato che tentano di ricostruirsi»). Il materiale eterogeneo che confluisce in Lost River (come la facciata del locale notturno in cui Eva Mendes e Christina Hendricks si esibiscono in performance grandguignolesche, riproduzione quasi letterale del famigerato cabaret parigino L’Enfer) trova dunque la sua organicità in questa atmosfera fiabesca che il direttore della fotografia Benoît Debie modula e trasferisce sulla pellicola (pur ospitando inserti digitali, il film è stato girato in 35mm) con la consueta maestria nella resa dell’illuminazione naturale e delle variazioni tonali.

Ma l’aspetto di gran lunga più ragguardevole del primo lungometraggio cinematografico di Ryan Gosling risiede senza ombra di dubbio nella costruzione di uno spazio urbano tanto percorribile in ogni sua dimensione quanto disabitato, decadente e disertato dalle forze dell’ordine: la reale Detroit filmata diviene a tutti gli effetti la città immaginaria di Lost River, una sorta di Manhattan carpenteriana con Bully nei panni del Duca e il rame come oggetto di valore sul quale egli rivendica dominio assoluto (“I own this fucking copper, I own this fuckin’ city! Welcome to Bullytown!”, sbraita dalla sua Cadillac Eldorado sulla quale troneggia un’assurda poltrona imbottita). Un microcosmo fantastico in cui realtà suburbana e proiezione distopica riverberano l’una nell’altra sulle sonorità echeggianti di Johnny Jewel. Presentato nella sezione Un Certain Regard al Festival di Cannes 2014.
Disponibile in Dvd e Blu-Ray (M2 Pictures, Eagle Pictures).

Pubblicata su www.spietati.it.