giovedì 25 agosto 2016

EL ABRAZO DE LA SERPIENTE



 

Karamakate, un potente sciamano dell'Amazzonia, ultimo sopravvissuto del suo popolo, vive nella giungla più profonda, in isolamento volontario. Decenni di solitudine hanno fatto di lui un chullachaqui, il guscio vuoto di un essere umano, privo di ricordi e di emozioni. La sua vita svuotata è sconvolta dall'arrivo di Evan, un etnobotanico americano alla ricerca della yakruna, una pianta sacra dai grandi poteri, in grado di insegnare a sognare. Insieme si imbarcano in un viaggio nel cuore dell'Amazzonia, durante il quale passato, presente e futuro si intrecciano, e durante il quale Karamakate lentamente inizia a riconquistare i suoi ricordi perduti (dal pressbook).





Lodevole negli assunti (fare del punto di vista di un indigeno dell'Amazzonia colombiana il perno dell'intera vicenda) e ammaliante nella raffigurazione dello spazio (un bianco e nero prezioso e cristallino ammanta quasi integralmente i territori filmati), El abrazo de la serpiente è uno di quei film dai quali si rischia di rimanere facilmente intimiditi o addirittura accecati. La cosiddetta “importanza del tema” (restituire dignità e piena titolarità allo sguardo nativo nell'incontro/scontro con la cultura colonizzatrice), le difficoltà incontrate dalla troupe nella realizzazione delle riprese (sfida quasi impossibile per complicazioni logistiche e ambientali) e l'encomiabile rispetto dimostrato nei confronti del sapere tribale (la sapienza sciamanica profondamente radicata nella conoscenza e nell’esperienza storica del territorio) non possono non influire sull'atteggiamento e sul posizionamento affettivo dello spettatore durante la visione. Ma dal momento che tali fattori, per quanto consistenti e indiscutibili, non possono e non devono condizionare né intralciare il giudizio sull’esito cinematografico, occorre metterli in sordina e considerare liberamente il film. Gli indubbi meriti dell’impostazione “non-occidentale” adottata da Ciro Guerra (classe 1981) e dal cosceneggiatore Jacques Toulemond si calano difatti in forme inequivocabilmente convenzionali e illustrative. Detto altrimenti, dai rispettosi e rispettabili assunti non discende una forma filmica che li inveri cinematograficamente.

Non è soltanto il dettato visivo di El abrazo de la serpiente a tradire un arrangiamento grammaticalmente ortodosso (composizione dell'inquadratura concepita secondo principi di coerenza e leggibilità, soggettive classicamente costruite con raccordi di sguardo ben orientati), ma è anche il suo fraseggio sintattico a non discostarsi dai precetti retorici più consolidati (scene dotate di unità spaziale e temporale chiaramente definita, sequenze perfettamente concatenate tra di loro). Insomma, ci troviamo di fronte a un film che espone didascalicamente la materia trattata, “dicendo” la cultura tribale e sapienziale con ortografia impeccabile e razionale. Non che questo sia un limite in sé, beninteso, ma nella fattispecie impedisce alla pellicola di oggettivare cinematograficamente i propri propositi “non occidentali”. Persino il solo momento in cui i vincoli grammaticali e sintattici si sciolgono vistosamente (la visione provocata dagli effetti allucinogeni della yakruna) è incapsulato in una sequenza che, alla stregua di una parentesi onirica, ne mostra convenzionalmente il prima (l'assunzione della pianta) e il dopo (il risveglio/ritorno alla coscienza).

Ultima considerazione sulla costruzione narrativa di El abrazo de la serpiente, probabilmente l'aspetto più rimarchevole del film: il racconto è imperniato sul duplice incontro tra lo sciamano Karamakate e i due scienziati bianchi (l'etnologo Theodor Koch-Grünberg interpretato Jan Bijvoet e il botanico Richard Evans Schultes interpretato da Brionne Davis) nel corso di alcune decine di anni (una quarantina per la precisione). Nel corso del tempo, il giovane e possente Karamakate (Nilbio Torres) è divenuto un vecchio smemorato e disorientato (Antonio Bolívar) o più precisamente un chullachaqui (sorta di Doppelgänger privo di ricordi ed emozioni, proiezione svuotata del Karamakate di cui è il duplicato). Ebbene, l'incontro tra il guscio vuoto del vecchio sciamano e il botanico Evans ha non solo la funzione di riattivare gradualmente i ricordi e le emozioni perdute di Karamakate, ma anche e soprattutto quella di chiarirne la missione: consegnare il suo sapere ancestrale all'uomo bianco (Karamakate considera i due scienziati come un solo individuo, il secondo un chullachaqui del primo). Fondato sull'idea di ricondurre la doppiezza all'unità grazie alle proprietà visionarie della yakruna, questo programma rigenerante possiede il sapore di uno stratagemma fortemente dimostrativo. E, per quanto condotto con rispettosa adesione, non contribuisce minimamente a smuovere le regole di comprensione raziocinante dello spettatore. Più una dimostrazione che una rigenerazione, in una parola. Presentato in anteprima al Festival di Cannes 2015 nella sezione Quinzaine des Réalisateurs (si è aggiudicato il premio Art Cinéma) e candidato al premio Oscar come miglior film straniero.

Pubblicata su www.spietati.it.