venerdì 26 febbraio 2016

KNIGHT OF CUPS

 

C’era una volta un giovane principe che fu inviato dal proprio padre, il re dell'Est, in Egitto per trovare una perla. Ma quando il principe arrivò, gli abitanti del luogo gli versarono una coppa. Bevendola, egli scordò di essere il figlio di un re, si dimenticò della perla e cadde in un sonno profondo (traduzione dalla prima sinossi del film: “Once there was a young prince whose father, the king of the East, sent him down into Egypt to find a pearl. But when the prince arrived, the people poured him a cup. Drinking it, he forgot he was the son of a king, forgot about the pearl and fell into a deep sleep”). 






Per un’introduzione ai motivi gnostici presenti nell’ultima produzione di Terrence Malick, si rimanda alle recensioni di The Tree of Life e To the Wonder, nelle quali è delineato il sistema religioso di riferimento e sono presi in considerazione alcuni risvolti della stessa impronta tradizionale (il movimento gnostico ebbe la sua massima diffusione nei primi secoli del cristianesimo). Detto altrimenti, la lettura della seguente trattazione non può prescindere da ciò che è stato sviluppato nelle precedenti riflessioni su The Tree of Life e To the Wonder, di cui rappresenta un ulteriore e più approfondito sviluppo. Sebbene l’impianto degli ultimi tre film di Malick (ai quali, in virtù di segnali e affinità meno evidenti, si potrebbero aggregare anche The New World e La sottile linea rossa) sia contraddistinto da un libero arrangiamento sincretistico, non tenere conto della componente riconducibile al pensiero gnostico impedirebbe, secondo chi scrive, di coglierne il tratto più consistente, ingenerando plateali malintesi (accuse di estetizzante vaniloquio ermetico) o sviste colossali (disinvolte attribuzioni ai più svariati sistemi dottrinali). Non sorprende dunque che la prima locandina ufficiale del film (riportata a fianco) raffiguri L’albero dell’anima del tedesco Dionysius Andreas Freher (1649-1728), mistico cristiano saldamente legato all’opera di Jacob Böhme (1575-1624), figura ampiamente associata alla tradizione gnostica. Chi scrive, consapevole del grado di arbitrarietà e opinabilità che essa presenta, rivendica infine la paternità di questa chiave di lettura, elaborata alcuni anni fa durante una revisione di The Thin Red Line e consolidata nel 2011 durante la visione di The Tree of Life.

Allegorie: dal Pellegrinaggio del cristiano all’Inno della Perla

Il viaggio del pellegrino da questo mondo a quello venturo presentato in forma di sogno: posta all’inizio del film e recitata dalla voce narrante di John Gielgud, la citazione dell’opera The Pilgrim’s Progress from This World to That Which Is to Come Delivered under the Similitude of a Dream (1678) di John Bunyan mette subito le cose in chiaro, dicendoci esplicitamente che quella raccontata da Knight of Cups non sarà altro che una gigantesca allegoria, la storia di un viaggio emblematico sotto forma di immagini raffiguranti la condizione dell’essere umano costretto a errare su questa terra in un pericoloso pellegrinaggio. Tuttavia non si tratta di un’allegoria generica e intercambiabile con qualsiasi altra vicenda simbolica, si tratta precisamente e quasi letteralmente dell’oggettivazione cinematografica di un testo gnostico del III secolo: l’Inno della Perla. Nella recensione di To the Wonder, si era già accennato a questo testo esemplare della tradizione gnostica, ma in quel caso il riferimento possedeva un significato ironico e sostanzialmente inconcludente, poiché l’aquila incaricata di recare il messaggio di risveglio e ricordo delle origini regali non produceva alcun effetto sull’atteggiamento di Marina/Olga Kurylenko.

Con Knight of Cups, invece, siamo in presenza di una vera e propria traduzione in immagini (ovviamente libera, rapsodica e parziale) dell’Inno, la prima parte del quale è stata addirittura utilizzata, in forma sintetica, quale sinossi del film stesso. Mette conto riportare questa parte dell’Inno per facilitare il confronto tra il testo gnostico e la prima trama ufficiale del film (in seguito ne è stata rilasciata un’altra più convenzionale): “Quando ero bambino e abitavo nel regno della casa di mio Padre e mi dilettavo della ricchezza e dello splendore di coloro che mi avevano allevato, i miei genitori mi mandarono dall’oriente, nostra patria, con le provviste per il viaggio. Delle ricchezze della nostra casa fecero un carico per me: esso era grande, eppure leggero, in modo che potessi portarlo da solo... Mi tolsero il vestito di gloria che nel loro amore avevano fatto per me, e il manto di porpora che era stato tessuto in modo che si adattasse perfettamente alla mia persona, e fecero un patto con me e lo scrissero nel mio cuore perché non lo potessi scordare: ‘Quando andrai in Egitto e ne riporterai l’Unica Perla che giace in mezzo al mare, accerchiata dal serpente sibilante, indosserai di nuovo il tuo vestito di gloria e il manto sopra di esso, e con tuo fratello, prossimo a noi in dignità, sii erede nel nostro regno’. Lasciai l’Oriente e m’avviai alla discesa, accompagnato da due messi reali, poiché il cammino era pericoloso e difficile ed io ero troppo giovane per un tale viaggio; oltrepassai i confini di Maishan, punto d’incontro dei mercanti dell'Oriente, giunsi nella terra di Babel ed entrai nelle mura di Sarburg. Scesi in Egitto e i miei compagni mi lasciarono. Mi diressi deciso al serpente e mi stabilii vicino alla sua dimora in attesa che si riposasse e dormisse per potergli prendere la Perla. Poiché ero solo e me ne stavo in disparte, ero forestiero per gli abitanti dell’albergo. […]. Tuttavia mi vestii con i loro abiti, perché non sospettassero di me, che ero venuto da fuori per prendere la Perla, e non risvegliassero il serpente contro di me. Ma in qualche modo si accorsero che non ero uno di loro e cercarono di rendersi graditi a me; mi mescerono nella loro astuzia [una bevanda], e mi dettero da mangiare della loro carne; e io dimenticai che ero figlio di re e servii il loro re. Io dimenticai la Perla per la quale i miei genitori mi avevano mandato. Per la pesantezza del loro cibo caddi in un sonno profondo.” (traduzione di Hans Jonas basata specialmente sul testo siriaco).

Nei primi minuti del film assistiamo inoltre a un’autentica illustrazione dell’Inno: dopo i titoli di testa, accompagnati dalla declamazione del titolo esteso e dell’incipit dell’opera di John Bunyan, vediamo l’arrivo sulla terra del protagonista Rick (Christian Bale). In termini allegorici, si tratta della sua discesa verso l’Egitto, regione che nella letteratura gnostica rappresenta a tutti gli effetti il mondo materiale. Hans Jonas, nel suo studio intitolato Lo gnosticismo (SEI, Torino 1991), commenta così il motivo simbolico dell’Egitto presente nel testo gnostico: “L’Egitto come simbolo del mondo materiale è molto comune nello gnosticismo (e fuori di esso). La storia biblica della schiavitù e della liberazione d’Israele si prestava magnificamente a quel tipo d’interpretazione spirituale che piaceva agli Gnostici. Ma la storia biblica non è l’unico riferimento che vedeva l’Egitto nella sua funzione allegorica. Fin dai tempi antichi l’Egitto era stato considerato come la sede del culto dei morti e perciò il regno della Morte; questo ed altri aspetti della religione egiziana, quali i suoi dèi con la testa di bestia e la grande parte che vi aveva la magia, ispirarono agli Ebrei e più tardi ai Persiani un particolare orrore e li portarono a considerare l’«Egitto» come la personificazione di un principio demoniaco. Gli Gnostici allora si valsero di questa concezione per fare dell’Egitto un simbolo di «questo mondo», cioè il mondo della materia, dell’ignoranza e di una religione perversa: «Tutti gli ignoranti [ossia coloro che sono privi di gnosi] sono ‘Egiziani’», afferma un detto peratico citato da Ippolito.” (p.119).

In queste prime inquadrature siamo ancora in una fase transitoria: le vedute della terra osservata da altezze celesti, seguite da immagini di un’infanzia all’insegna della levità e della luminosità, introducono alla voce narrante del padre che recita, parafrasandolo, il testo dell’Inno: “Ricordi la storia che ti raccontavo quand’eri piccolo? Quella di un giovane principe, un cavaliere, che fu mandato da suo padre, Re dell’Oriente, a occidente, in Egitto per trovare una perla. Una perla proveniente dagli abissi del mare”. È esattamente in questo momento, in concomitanza col riferimento alle profondità del mare, che la camera si immerge letteralmente nelle onde marine con l’obiettivo puntato verso la superficie illuminata dal sole, l’inquadratura successiva mostrando Rick immerso nell’acqua sullo sfondo e in primo piano le due ragazze giapponesi con le quali si sta dirigendo in macchina a una festa sulla terrazza di un grattacielo. Lungi dall’essere un espediente bizzarro ed estetizzante, l’immersione nell’acqua possiede una funzione ben definita, quella di raffigurare l’ingresso definitivo nel mondo della materia e della corruzione (nel corso del film vedremo altre figure precipitare letteralmente nell’universo narrativo con un tuffo nell’acqua). Questo un eloquente frammento del commento di Hans Jonas al passaggio del Canto della Perla dedicato alle acque : “Il “mare” o le “acque” sono un simbolo gnostico fisso per il mondo della materia o delle tenebre nel quale è immerso il divino. […] I Perati interpretavano il Mar Rosso, che doveva essere attraversato andando o tornando dall’Egitto, come «l’acqua della corruzione» e lo identificavano con Kronos, cioè il «tempo» e il «divenire».” (p.119). L’immersione nell’acqua indica dunque, in questo frangente come in altri momenti del film, l’immersione nel mondo materiale e il passaggio attraverso stati mentali progressivi che scandiscono l’itinerario spirituale di trasformazione dell’interiorità.

L’illustrazione del Canto della Perla prosegue per l’intera durata della festa: alle parole “Ma quando il principe arrivò, gli offrirono una coppa che gli fece dimenticare tutto” vediamo Rick abbracciato dalle due ragazze giapponesi che gli fanno bere un bicchiere dopo l’altro. Immagini di stordimento e abbandono alcolico di Rick scandiscono il seguito del racconto: “Dimenticò di essere il figlio del re. Si dimenticò della perla. E cadde in un sonno profondo”. “Il re, però, non aveva dimenticato suo figlio. Continuò a mandare lettere, messaggeri, guide”, prosegue la voce narrante, mentre la festa volge al termine e Rick si aggira solitario negli spazi del grattacielo. Il racconto paterno si chiude su queste parole: “Ma il principe continuava a dormire”, preparando la sequenza successiva nella quale un terremoto, anticipato dal frullare delle ali di un uccello, sveglia Rick costringendolo a uscire di casa (la stessa abitazione che vedremo deserta nel finale) e scendere per strada, procurandogli per la prima volta quella sensazione di spaesamento che lo accompagnerà per gran parte del film. Non è soltanto la terra a tremare, ma anche e soprattutto la sua coscienza: l’evento sismico produce un primo cambiamento in Rick, causandogli smarrimento e facendogli perdere interesse nelle cose del mondo. È l’inizio di un processo che, tappa dopo tappa, lo condurrà alla liberazione completa dai vincoli materiali nel capitolo finale emblematicamente intitolato Libertà. A proposito del risveglio, Jonas osserva: “Pertanto, il primo effetto della chiamata è sempre descritto come «risveglio» (…). Spesso l’esortazione semplicemente formale: «Svegliati dal sonno» (o «dall’ebbrezza», o meno frequentemente «dalla morte»), con elaborazione metaforica e con frasario differente, costituisce il solo contenuto del richiamo gnostico alla salvezza. Tuttavia questo imperativo formale racchiude implicitamente tutto lo schema speculativo nel’'ambito del quale le idee di sonno, ebbrezza, risveglio, assumono il loro significato specifico; e di regola la chiamata rende esplicito tale schema come parte del suo contenuto, cioè collega il comando del risveglio con i seguenti elementi dottrinali: il “ricordo” dell’origine celeste e della storia trascendente dell’uomo; la “promessa” della redenzione, in cui è compresa anche la ragione della missione del redentore e della sua discesa nel mondo; e infine l’“istruzione” pratica sul come vivere d’ora in avanti nel mondo, in conformità della «conoscenza» recentemente acquisita e in preparazione dell’eventuale ascesa”. (pp.85-86).

Dualismo e salvezza

Jonas definisce lo gnosticismo “religione dualistica trascendente di salvezza” (p.44): il dualismo risiede nella recisa e inconciliabile opposizione tra tenebroso mondo materiale e luminoso principio divino, tra il binomio carne-anima (quest’ultima non essendo altro che un ulteriore rivestimento concepito dalle maligne potenze cosmiche) e l’elemento spirituale o “pneuma” che risiede, come scintilla perduta, nell’interiorità più recondita dell’individuo (alcune correnti gnostiche dividevano l’umanità in tre categorie di rango discendente: pneumatici, psichici e sarchici o carnali). Ancora Jonas: “Il Dio gnostico non è semplicemente estramondano e sopramondano, ma nel suo significato ultimo contromondano. L’unità sublime del cosmo e di Dio è spezzata, i due vengono separati e si apre tra di essi un abisso che non sarà mai completamente colmato: Dio e il mondo, Dio e la natura, spirito e natura, fanno divorzio, estranei l’uno all’altro, persino contrari. Ma se questi due sono estranei l’uno all’altro, allora anche l’uomo e il mondo sono estranei l’uno all’altro, e questo in termini di sentimento è molto probabilmente il fatto primario. C’è una fondamentale esperienza di una frattura assoluta tra l’uomo e ciò in cui si trova situato, il mondo. […] Codesta impostazione dualistica è alla base di tutto l’atteggiamento gnostico e unifica le espressioni grandemente diverse, più o meno sistematiche, che quell’atteggiamento assunse nel rituale e nella fede gnostica” (p.234). Dio e mondo da una parte e uomo e mondo dall’altra si trovano in questo modo nettamente e irriducibilmente contrapposti: gli appetiti e le seduzioni dei sensi così come le leggi morali e l’etica terrena altro non sono che stratagemmi escogitati dal potere demiurgico e dagli arconti (i governanti al suo servizio, guardiani della prigione cosmica) per tiranneggiare e tenere sotto scacco gli uomini: “Come il mondo è ciò che aliena da Dio, così Dio è ciò che aliena e libera dal mondo” (p.235), oppure “Il Dio gnostico, in quanto distinto dal demiurgo, è il totalmente differente, l’altro, lo sconosciuto. In lui l’assoluto che è al di là trasparisce attraverso gli involucri cosmici che lo racchiudono” (p.253).

Se il dualismo configura questa frattura insanabile, la prospettiva di salvezza conduce a una presa di posizione altrettanto radicale nei confronti del mondo terreno e delle sue leggi. La salvezza, invariabilmente vincolata al riconoscimento dell’elemento pneumatico che risiede nel soggetto e ne costituisce il vero sé, consiste proprio nel conoscere con mezzi spirituali la propria origine divina e dirigere tutte le energie a disposizione nel mantenimento di tale consapevolezza, disinteressandosi sistematicamente di tutto ciò che ostacola questa verità trascendente: “Per gli Gnostici, «guardare a Dio» significa (…) saltare al di là delle realtà interposte, che per questa diretta relazione non sono altro che legami ed ostacoli, o tentazioni che distraggono, o, tutt’al più, realtà irrilevanti. La somma di queste realtà interposte è il mondo, compreso il mondo sociale. L’interesse eminente per la salvezza, l’occuparsi esclusivamente del destino dell’io trascendentale, «snatura», per così dire, tali realtà e distacca il cuore da esse quando è inevitabile occuparsene” (p.250). Ebbene, gli otto capitoli di Knight of Cups non fanno altro che raccontare questo distacco dal mondo sociale e questo superamento delle realtà interposte tra il principio divino e l’elemento pneumatico di Rick, in un processo associato agli arcani maggiori - non privo di ostacoli - che muove dalla Luna alla Libertà (unico capitolo il cui titolo non corrisponde a una carta dei tarocchi), passando per L’Appeso, L’Eremita, il Giudizio, La Torre, La Papessa e la Morte. Ogni capitolo coincide piuttosto chiaramente con un incontro e un commiato. La Luna: incontro con Della (Imogen Poots), che rimprovera Rick di non volere l’amore ma solo un’esperienza d’amore, e separazione improvvisa; L’Appeso: incontro col fratello Barry (Wes Bentley) e il padre Joseph (Brian Dennehy), entrambi accecati da rabbia e sensi di colpa, e graduale distacco (torneranno brevemente, sempre più collerici e inquieti, tanto nel quinto capitolo La Torre quanto nel settimo Morte); Giudizio: incontro con l’ex moglie Nancy (Cate Blanchett), che gli rinfaccia di essere stato sempre più assorbito dal mondo, nuova separazione e così via.

Visioni di unità e frammentazione dell’io, lo straniero e il salvatore salvato

Il crescente disinteresse di Rick nei confronti dell'attività professionale (quella di sceneggiatore hollywoodiano a un punto di svolta) si manifesta con evidenza nel capitolo La Luna e si definisce ulteriormente in quello intitolato La Torre. È in questo capitolo, il quinto, che, mentre Rick vaga in macchina per le strade di Los Angeles, ascoltiamo Hyperborea: un brano tratto dall’album Substrata (1997) del musicista norvegese Biosphere (Geir Jenssen). Il brano ambient riporta quasi integralmente il racconto della visione del maggiore Garland Briggs (Don S. Davis) al figlio Bobby (Dana Ashbrook) nel primo episodio (Che il gigante sia con te) della seconda stagione di Twin Peaks: "Parlo di una visione radiosa, chiara come un torrente di montagna, dove l’anima può rivelare tutti i suoi segreti [“the mind revealing itself to itself” nell’originale]. Nella mia visione mi trovavo sulla veranda di una grande costruzione, un palazzo lussuoso di proporzioni gigantesche, al suo interno sembrava di vedere una luce proveniente dai riflessi del candido marmo. Conoscevo questo posto, era la casa dove sono nato e cresciuto. Da tanto tempo non vi ritornavo, è stato come ritrovare il senso profondo della mia stessa esistenza. Mi aggiravo per le camere e notavo che tutto era rimasto come ai tempi della mia giovinezza. A dire il vero c’erano più stanze di quante ne ricordassi, ma disposte in modo da integrarsi perfettamente con la costruzione originale, io stesso non riuscivo a cogliere la differenza. Mentre mi dirigevo verso l’ingresso della casa, ho udito bussare alla porta, c’era mio figlio dietro quella porta. Era spensierato, era felice come lo è chi ha una vita da vivere in profonda armonia, con gioia. Ci siamo abbracciati, un abbraccio caldo e affettuoso, ci eravamo ritrovati. Eravamo una sola persona in quel momento, una sola. La visione era finita e io mi sono svegliato con una straordinaria sensazione di ottimismo e di totale fiducia in te e nel tuo futuro. Così ti vedo io, figliolo. Sono tanto felice di aver avuto l’opportunità di parlarti di questo. Io desidero solo di poterti aiutare in tutte le cose.”. Nel film di Malick, il brano si interrompe dopo il riferimento alla luce che sembra emanare dall’interno del marmo radioso e splendente, tuttavia il frammento riportato è più che sufficiente non soltanto a stabilire una connessione tra le due sequenze, ma soprattutto a suggerire l’affinità di contenuto tra il racconto del maggiore Briggs e il componimento gnostico che innerva Knight of Cups: entrambi parlano di luminosi ritorni e riconciliazioni unificanti. Riconoscimento, rispecchiamento e gioia nell’unità ritrovata tra padre e figlio. Questa la parte finale dell’Inno (corsivo mio): “Trovai la lettera che mi aveva ridestato davanti a me sul mio cammino; e come mi aveva svegliato con la sua voce, ora mi guidava con la sua luce che brillava dinanzi a me; e con la voce incoraggiava il mio timore e col suo amore mi traeva. E andai avanti... I miei genitori... mandarono incontro a me a mezzo dei loro tesorieri, a cui erano stati affidati, il vestito di gloria che avevo tolto e il manto che doveva coprirlo. Avevo dimenticato il suo splendore, avendolo lasciato da bambino in casa di mio Padre. Mentre ora osservavo il vestito, mi sembrò che diventasse improvvisamente uno specchio-immagine di me stesso: mi vidi tutto intero in esso ed esso tutto vidi in me, cosicché eravamo due separati, eppure ancora uno per l'uguaglianza della forma… […]. E con i suoi movimenti regali si offerse tutto a me e dalle mani di quelli che lo portavano si affrettò perché potessi prenderlo; e anch’io ero mosso dall'amore a correre verso di esso per riceverlo. E mi protesi verso di lui, lo presi, e mi avvolsi nella bellezza dei suoi colori. E gettai il manto regale intorno a tutta la mia persona. Così rivestito, salii alla porta della salvezza e dell’adorazione. Inchinai la testa e adorai lo splendore di mio Padre che me lo aveva mandato, i cui comandi avevo adempiuto perché anch'egli aveva mantenuto ciò che aveva promesso... Mi accolse gioiosamente ed ero con lui nel suo regno, e tutti i suoi servitori lo lodarono con voce di organo, cantando che egli aveva promesso che avrei raggiunto la corte del Re dei Re e avendo portato la mia Perla sarei apparso insieme a lui»." (p.117).

Quella di Rick, insomma, è la tipica figura gnostica del "salvatore salvato": il nobile uomo straniero (il principe proveniente dal regno orientale) inviato in Egitto (il mondo terreno) per trovare la perla che giace nelle profondità marine (la scintilla divina imprigionata nella realtà materiale), ma che durante la sua missione, a causa delle narcotizzanti seduzioni del mondo delle tenebre, cade nel sonno e dimentica il compito assegnatogli. Occorre dunque un intervento dall’alto (una voce che parli alla sua interiorità, segni che lo spronino al ricordo della ricerca e figure che lo guidino al ritorno nella dimora celeste), affinché si svegli e ricordi la sua missione: "C’è un inconfondibile accenno ad una doppia funzione, attiva e passiva, dell’unica e medesima entità. In ultima analisi, lo Straniero che discende redime se stesso, cioè quella parte di sé (...) persa un tempo nel mondo e per lei egli stesso diviene straniero nella terra delle tenebre ed è infine un «salvatore salvato»." (p.84). Non è senza motivo che la voce narrante, una voce interiore/interiorizzata e perciò distinta dall’inquieta figura del padre Joseph che vediamo aggirarsi nel film, gli attribuisca esplicitamente lo statuto di straniero: "Tu vivi in esilio. Straniero in un paese straniero. Un pellegrino. Un cavaliere", gli sussurra interiormente la voce flautata esattamente a metà film. Ma la condizione di estraneità era già stata formulata, nei primi minuti del film, in un passaggio che sanciva l’identificazione sostanziale di padre e figlio: "Figlio mio... sei esattamente come me. (…) Un pellegrino, su questa Terra. Uno straniero. Frammenti... Pezzi... di un uomo". A proposito della frammentazione che ha intaccato la pienezza originaria (il Pleroma) e della conseguente necessità di ristabilire l’unità primordiale nella prospettiva della salvezza, Jonas osserva: "Di conseguenza la salvezza implica un processo di raccolta, di collezione di ciò che era andato disperso, e la salvezza mira al ristabilimento dell’unità primitiva. «Io sono tu e tu sei io, e dove tu sei io sono, e in tutte le cose sono disperso. E da ovunque tu vuoi, tu mi raccogli; ma raccogliendomi, tu raccogli te stesso». Questa raccolta di sé viene considerata come procedente "pari passu" con il progresso della «conoscenza», e il suo adempimento come una condizione per la definitiva liberazione dal mondo: «Colui che raggiunge tale gnosi e raccoglie se stesso dal cosmo... non è più trattenuto quaggiù, ma sale al di sopra degli Arconti»; e proclamando questo stesso fatto l’anima che ascende risponde alla sfida dei guardiani celesti: «Sono giunto a conoscere me stesso ed ho raccolto me stesso da ogni parte»" (p.68).

Se l’idea della frammentazione rimanda alla necessità di una raccolta inesausta delle particelle divine sparpagliate e imprigionate nel mondo (una raccolta che coinvolge nel suo svolgimento tanto il destino del singolo quanto quello dell’essere universale), lo statuto di “straniero in un paese straniero” chiama in causa uno dei concetti chiave del repertorio gnostico. Considerata la sua importanza nel sistema di pensiero gnostico, mette conto riportare per esteso il passo nel quale Jonas illustra il carattere fondamentale e praticamente inedito dell’attributo riferito tanto all’Essere supremo quanto all’Uomo (il “redentore redento”): “Il concetto di Vita straniera è una delle parole-simbolo maggiormente espressive che si incontrano nel linguaggio gnostico, ed è nuova nella storia del linguaggio umano in generale. Ha equivalenti in tutta la letteratura gnostica, per esempio nel concetto di Marcione del «Dio straniero» o soltanto dello «Straniero», «l’Altro», «lo Sconosciuto», «l’Innominabile», «il Nascosto»; o il «Padre sconosciuto» di parecchi scritti gnostico-cristiani. […]. Ma anche al di fuori di questi usi teologici in cui è uno dei predicati di Dio o dell’Essere supremo, la parola «straniero» (e i suoi equivalenti) ha il suo proprio significato simbolico come espressione di una elementare esperienza umana, e questo è il fondamento dei differenti significati della parola in parecchi contesti teoretici. […]. Straniero è ciò che proviene da altro luogo e non appartiene a questo qui. A coloro che sono di qui appare strano, non familiare e incomprensibile; ma il loro mondo dal canto suo è altrettanto incomprensibile allo straniero che viene ad abitarvi e simile ad una terra straniera dove si trova lontano da casa. Soffre perciò il destino dello straniero che è solitario, senza protezione, incompreso e incapace a comprendere, in una situazione piena di pericoli. Angoscia e nostalgia della patria sono parte del destino dello straniero. Egli che non conosce le strade del nuovo paese girovaga sperduto; se impara a conoscerle troppo bene, dimentica di essere uno straniero e si perde in un senso diverso, soccombendo all’attrattiva del mondo straniero e diventando estraneo alla sua propria origine. Diviene così un «figlio della casa», ed anche ciò fa parte del fato del forestiero. Nell’alienazione da se stesso l’angoscia è sparita, ma questo stesso fatto è il culmine della tragedia dello straniero. La reminiscenza della sua origine, il riconoscimento del suo posto di esilio per quello che è, è il primo passo indietro; il risveglio del desiderio della patria è l’inizio del ritorno. Tutto ciò appartiene al lato di «sofferenza» dell’estraneità; tuttavia in relazione alla sua origine è allo stesso tempo un segno di eccellenza, una fonte di potere e di vita segreta, sconosciuta all’ambiente circostante, e in ultima analisi impermeabile per esso, perché è incomprensibile alle creature di questo mondo. In questa superiorità dello straniero, che lo distingue anche quaggiù, sebbene segretamente, sta la sua gloria manifesta nel regno nativo, che è al di fuori di questo mondo. In tale situazione lo straniero è il remoto, l’inaccessibile, e la sua singolarità significa maestà. Perciò lo straniero preso assolutamente è il totalmente trascendente, l’«al di là», e un attributo eminente di Dio. Entrambi gli aspetti dell’idea dello «straniero», il positivo e il negativo, l’estraneità come superiorità e sofferenza, come prerogativa di distanza e fato di essere coinvolto nel mondo, si alternano come le caratteristiche di un unico e medesimo soggetto: la «Vita». […] Nella sua suddivisa esistenza in questo mondo essa partecipa in modo tragico all’interpenetrazione di entrambi gli aspetti; e l’attualizzazione di tutte le caratteristiche delineate sopra, in una drammatica successione che è governata dal tema della salvezza, compone la storia metafisica della luce esiliata dalla Luce, della vita esiliata dalla Vita e coinvolta nel mondo: la storia della sua alienazione e del suo ritrovamento, la sua «via» giù e attraverso il basso mondo e su di nuovo. Secondo i vari stadi di questa storia, il termine «straniero» o i suoi equivalenti possono entrare in molteplici combinazioni: «la mia anima straniera», «il mio cuore oppresso dal mondo», «la vigna solitaria», si applicano alla condizione umana, mentre «l’uomo straniero» e «l’estraneo» si applicano al messaggero del mondo della Luce (…).” (pp.60-61).

Rick, dunque, si configura chiaramente ed esplicitamente come un personaggio allegorico che ripropone nella contemporaneità la figura tradizionale dell’uomo straniero: quel “redentore redento” dell’Inno della perla che, dimentico della sua missione e della sua natura a causa dell’attrattiva del mondo (piacere carnale, affermazione professionale, concupiscenza e ambizione), è divenuto un “figlio della casa” (non è fortuito che nel capitolo finale Libertà l’appartamento in cui egli ha dimorato nella sua esistenza terrena sia totalmente deserto). È proprio in virtù del terremoto iniziale e delle continue esortazioni della voce paterna (si ribadisce che si tratta di una voce interiore, quindi virtualmente proveniente dal “Padre sconosciuto”) che Rick viene risvegliato e inizia a provare quelle sensazioni di angoscia e nostalgia della patria che “sono parte del destino dello straniero” (non sfugga inoltre questo dettaglio apparentemente insignificante: la prima volta che Rick compare sul set si stropiccia gli occhi come se si fosse appena svegliato e vaga sperduto tra i teatri di posa). Ma se è il terremoto a scuotere inizialmente la sua coscienza, è la voce interiore del padre a costituire il vero e proprio filo conduttore del suo pellegrinaggio: lungo tutto il film è questo flatus vocis a rammentare in continuazione la ricerca e il suo oggetto. Queste alcune delle formule impiegate: “La perla. Da qualche parte, nel mare”; “Ricorda. La perla. Che sussurra. Che fa un cenno. Ogni uomo… ogni donna. Una guida. Un dio ”. E soprattutto, subito dopo il riferimento alla condizione di “straniero in un paese straniero”, esattamente al centro del film, l’accorata esortazione “Trova la tua strada dall’oscurità alla luce” (“Find your way from darkness to light”). È questo il passaggio cruciale di Knight of Cups, per inciso un’altra carta dei tarocchi (il Cavaliere o Fante di Coppe): nientemeno che l’esortazione, indirizzata allo spettatore per interposto personaggio, a trovare il proprio percorso spirituale dall'oscurità alla luce.

Trilogia gnostica, l’anima e il pneuma, la ricaduta nel sonno

In questo senso e al netto di future smentite, Knight of Cups, The Tree of Life e To the Wonder comporrebbero una “trilogia gnostica” modulata su tonalità differenti, il primo film ponendo maggiormente l’accento sulla cosmogonia, il secondo sull’errore di amore (profano e sacro: la passionalità che inganna e l'Amor Dei come coercizione), il terzo, infine, sull’esemplarità del pellegrinaggio terreno (Il viaggio del pellegrino da questo mondo a quello venturo presentato in forma di sogno, nel quale si scopre il modo in cui si mette in viaggio, le sue pericolose avventure e, infine, l’arrivo alla destinazione desiderata). Secondo chi scrive, i tre film configurerebbero un macrotesto di genere protrettico, vale a dire teso a proporre un itinerario di conversione ed esortare il risveglio delle anime - anche se in questo caso sarebbe più pertinente parlare di spirito o, ancora più correttamente, di “pneuma”: “Il termine “pneuma” è usato in genere nello gnosticismo greco come equivalente dell'espressione «sé» spirituale, per il quale il greco, a differenza di alcune lingue orientali, manca di un termine proprio. In tale funzione lo troviamo impiegato nella cosiddetta Liturgia di Mitra con aggettivi quali «santo» e «immortale», in contrasto a "psyche" o «potere umano psichico». L’alchimista Zosimo usa «il nostro “pneuma” luminoso», «l’uomo interiore pneumatico», eccetera. In alcuni gnostici cristiani è anche chiamato «scintilla» e «seme di luce».” (p.125). È del resto il processo di affioramento degli elementi gnostici a sorprendere e reclamare attenzione: se in The Tree of Life e in To the Wonder la trama gnostica, intrecciata a motivi autobiografici e sacri in senso lato, si poteva cogliere in filigrana, in Knight of Cups viene praticamente abolita la distinzione tra significato essoterico (esterno, letterale) e significato esoterico (interno, simbolico), il percorso iniziatico del protagonista attestandosi esplicitamente quale motore del racconto. Detto altrimenti, la parabola esemplare dell’Inno della perla può benissimo rimpiazzare (lo ha fatto ufficialmente nella prima sinossi del film) la vicenda dello sceneggiatore in crisi tra Los Angeles e Las Vegas: anzi, senza la ricerca del vero sé rappresentato dalla perla, Knight of Cups non avrebbe alcuna traiettoria narrativa comprensibile. Il carattere fortemente protrettico della trilogia, con un salto mortale che si avventura spericolatamente nell’universo mentale dell’autore, potrebbe anche rendere conto dell’improvvisa accelerazione creativa compiuta da Malick in questi ultimi anni: tenuto conto che persino The New World sarebbe suscettibile di essere letto in chiave dualistica (la lotta precosmica tra i due arciprincipi della Luce e delle Tenebre in un’ottica vicina al tipo iranico di speculazione gnostica), la consapevolezza del dato anagrafico (oggi Malick ha 72 anni) potrebbe averlo spinto a oggettivare cinematograficamente la prospettiva religiosa in questione. Certo, si tratta di un’ipotesi rozzamente psicologistica e puramente congetturale, ma difficilmente evitabile sul piano spicciolo e sulla base davvero sorprendente di una proliferazione produttiva così straordinaria.

Il pólemos eracliteo o il “panteismo senza Dio” di cui si è parlato per film come La sottile linea rossa e I giorni del cielo (1978) - a proposito di quest’ultimo Bruno Fornara scrisse nel luglio 2004: “Lo si potrebbe definire un film panteista, se mai si potesse pensare a un panteismo senza Dio” - non hanno più diritto di cittadinanza in Knight of Cups: qui si dice di trattare il mondo come merita, si afferma che nessuno è a casa, si dichiara che il mondo è una palude e occorre volarci sopra, in alto, dove tutto è solo un granello. Il conflitto, “padre e re di tutte le cose” (Fornara), e la rigogliosa innocenza della natura (si rammenti l’ultima inquadratura di The Thin Red Line, col grosso seme che germoglia nell’acqua) hanno ceduto il passo a un distacco dal mondo che rasenta il disprezzo esplicito e irrevocabile, pur passando attraverso la concupiscenza inebriante e la seduzione terrena. Anzi, gli otto pannelli che scandiscono il film, affinché questa vicenda di distacco dalla terra sia davvero esemplare, devono necessariamente passare attraverso l’attrattiva del mondo, le sue lusinghe e i suoi inganni narcotizzanti. Perché se la scansione in capitoli rimanda in prima istanza al significato dei tarocchi (dall’invito a cercare il senso reale delle cose della Luna alla trasformazione e al rinnovamento simboleggiati dalla Morte), in seconda battuta richiama le sfere cosmiche che, nella tradizione gnostica, circondano la terra e rappresentano il governo arcontico: “L’universo, il dominio degli Arconti, è come una vasta prigione la cui cavità più interna è la terra, lo scenario della vita dell’uomo. Intorno e al di sopra di esso le sfere cosmiche sono disposte in orbite concentriche che lo racchiudono. Più spesso vi sono le sette sfere dei pianeti circondati dall’ottava, quella delle stelle fisse” (pp.54-55). E come le sfere cosmiche racchiudono l’uomo nel carcere terrestre, così la carne e l’anima (il precipitato psichico delle potenze cosmiche) imprigionano la scintilla divina che risiede dormiente in lui: “L’uomo, l’oggetto principale di quest’ampia prospettiva, è composto di carne, anima e spirito. Ma ridotto ai princìpi ultimi, la sua origine è duplice: mondana ed extramondana. Non soltanto il corpo, ma anche l’«anima» è un prodotto delle potenze cosmiche che hanno formato il corpo ad immagine dell’Uomo Primigenio divino (o Archetipo) e lo hanno animato con le loro proprie forze psichiche: queste sono gli appetiti e le passioni dell'uomo naturale, ciascuna delle quali deriva e corrisponde ad una delle sfere cosmiche, e tutte insieme formano l’anima astrale dell’uomo, la sua «psiche». […] Racchiuso nell’anima c’è lo spirito, o «pneuma» (chiamato anche «scintilla»), una porzione della divina sostanza dell’aldilà che è caduta nel mondo; e gli Arconti crearono l’uomo con l’espresso proposito di trattenerlo prigioniero quaggiù. Perciò, come nel macrocosmo l’uomo è racchiuso dalle sette sfere, così nel microcosmo umano lo spirito è racchiuso dai sette rivestimenti dell’anima, originati da esse. Nel suo stato irredento il pneuma, così immerso nell’anima e nella carne, non ha coscienza di se stesso, è intorpidito, addormentato, o intossicato dal veleno del mondo: in breve, è «ignorante». Il suo risveglio e la sua liberazione vengono effettuate mediante la «conoscenza».” (pp.55-56).

La stessa anima - o psiche - costituisce in definitiva il volto interiore del potere cosmico e l’io dell’uomo si trova soggiogato alla tirannia di potenze maligne che controllano e condizionano la sua volontà, assoggettandola all’heimarméne (l’oppressivo destino cosmico): “L’asservimento dell’anima ai poteri cosmici deriva dalla sua stessa origine da questi poteri. È una loro emanazione; ed essere afflitto dalla psiche, o abitare in essa, fa parte per lo spirito della situazione cosmica. Il cosmo è per se stesso un sistema demoniaco: «non c’è parte del cosmo vuota di demoni» (…); e se l’anima rappresenta il cosmo nell’interiorità dell’uomo, ovvero per mezzo dell’anima «il mondo» è nell’uomo, allora l’interiorità dell'uomo diventa la scena naturale per l’attività demoniaca e il suo io è esposto al gioco di forze che non può controllare” (pp.259-260). Il messaggio di salvezza della gnosi non si rivolge dunque all’anima dell’uomo, ennesima invenzione diabolica degli arconti, ma allo spirito o pneuma doppiamente imprigionato nella carne e nella psiche: “È pertanto condizione naturale dell’uomo di essere preda di forze estranee che tuttavia sono tanta parte di lui stesso, ed occorre l’intervento miracoloso della gnosi dal di fuori per dare la capacità al pneuma imprigionato di ritornare a ciò che gli è proprio. «Coloro che sono illuminati nella parte spirituale da un raggio della luce divina - e non sono che pochi - sono lasciati in pace dai demoni... tutti gli altri sono trascinati e mantenuti nelle loro anime e corpi dai demoni, amando e apprezzando le loro opere... Questo governo terreno è esercitato dai demoni attraverso gli organi del corpo, e tale governo è chiamato da Hermes ‘heimarméne’» (…). […] Perciò l’esistenza nel mondo è essenzialmente uno stato di essere posseduto dal mondo, nel senso letterale, ossia demonologico del termine” (p.261). Ecco il motivo del dissidio e del tormento interiore, motivo che risponde alla necessità di esprimere lo sgomento di fronte a forze che controllano la psiche e spingono incessantemente la volontà ad assecondare appetiti e passioni: “(…) lo sguardo atterrito degli Gnostici vedeva la vita intima come un abisso dal quale sorgono potenze tenebrose per governare il nostro essere, non controllato dalla nostra volontà, tale volontà essendo strumento ed esecutrice di quelle potenze. Questa è la condizione fondamentale dell’umana insufficienza. «Che cosa è Dio? bene immutabile; che cosa è l’uomo? male immutabile» (…). Abbandonata al turbine demoniaco delle proprie passioni, l’anima empia grida: «Brucio, ardo... sono consumata, misera me, dai demoni che mi possiedono» (…)” (pp.261-262).

Questa frastornante dualità tra universo materiale e dimensione spirituale si presenta in tutta la sua intensità nel sesto capitolo di Knight of Cups, intitolato La Papessa (The High Priestess): precedentemente vittima di un furto in casa propria e abbandonata la stesura della sceneggiatura alla quale stava lavorando, in questo capitolo Rick incontra Karen (Teresa Palmer), una spogliarellista che lo seduce, ammaliandolo con formule fumose (“Siamo come le nuvole, no?” “Andiamo e veniamo”. “Non esiste il concetto di eternità”) e incoraggiandolo a provare ogni tipo di esperienza (“La tua mente è un teatro. Devi provare tutto. Perché no?”). Incantato dalle fantasie di Karen, Rick cade di nuovo nel sonno (“Allora mi riaddormento”), chiedendole di cantare e sognare ancora per lui (“Canta per me. E sogna un altro sogno”). La nuova fantasia di Karen li porta a Las Vegas, dove incontrano un uomo, molto probabilmente un pimp con le sue prostitute, che illustra esattamente la condizione attuale di Rick. Alla domanda “Sei religioso? Hai una croce al collo”, l’uomo replica: “Certo, assolutamente sì. Oh, anche se sono nell’oscurità, credo nella luce. Mi sono state date istruzioni di non essere parte del mondo né delle cose che lo formano. Ma i miei occhi ora sono semplici e divento carnale quando vedo belle donne, macchine grandi, molti soldi, e voglio essere parte di tutto questo” (torna in mente la tripartizione già menzionata tra uomini pneumatici, psichici e carnali). È qui, a Las Vegas, che Rick sperimenta ancora una volta le illusorie tentazioni del mondo: “E il mondo tirò su uno specchio. Qui. Prendi le cose che vuoi. Possono essere tue”. In questo specchio, Rick vede riflesso il condensato fittizio e frastornante delle meraviglie del mondo, fino a stordirsi del tutto durante una serata in discoteca a base di stupefacenti, nani e ballerine. Ma, anche in questo vortice allucinato, la voce interiore del padre lo sprona a continuare la ricerca e trovare la perla (“Vai. Trovala”), ridestandone la coscienza e facendolo uscire dallo stato di alterazione in cui si trova.

Ascetismo e libertinismo, avvicinamento alla perla

Nel penultimo capitolo del film, Morte, Rick incontra Elizabeth (Natalie Portman), una donna sposata con la quale ha una relazione, e insieme a lei si reca nella sontuosa dimora di Christopher (Peter Matthiessen, lo scrittore, naturalista e monaco Zen scomparso nel 2014). Il passaggio di forte sapore buddhista offre l’occasione di evidenziare una curiosa coincidenza tra l’ascetismo monastico e il ciclo di rinascite in questa religione e alcune concezioni gnostiche (l’etica manichea nella fattispecie), che prevedono tanto il rigoroso ascetismo per gli “Eletti” quanto un destino di reincarnazione per la gran massa dei credenti. Jonas ipotizza addirittura l’influenza della tradizione buddista nella definizione di queste concezioni: “Tuttavia il rigorismo così completo dell’etica manichea è riservato ad un gruppo speciale, gli «Eletti» o «Veri», che devono aver condotto una vita monastica di straordinario ascetismo, forse plasmata sul monasticismo buddista e che certamente ebbe una grande influenza sulla formazione del monacheismo cristiano. La gran massa dei credenti, chiamati «Auditori» o «Soldati», viveva nel mondo sotto regole meno rigide e tra le azioni meritorie c’era il mantenimento degli Eletti, che rendeva possibile la loro vita di santificazione. Vi erano dunque tre categorie di persone: gli Eletti, i Soldati e i peccatori, un evidente parallelo della triade dello gnosticismo cristiano formata di pneumatici, psichici e sarkici («uomini carnali»). Di conseguenza ci sono tre «vie» per le anime dopo la morte: gli Eletti vanno al «Paradiso della Luce»; i Soldati, i «guardiani della religione e sostenitori degli Eletti», devono ritornare «nel mondo e nei suoi terrori» così spesso e così a lungo «fintantoché la loro Luce e il loro spirito siano stati liberati e dopo molto vagabondare raggiungono l’adunanza degli Eletti»; i peccatori cadono in potere del Demonio e finiscono nell'Inferno.” (p.216). Più avanti, trattando dell’atteggiamento opposto, ovvero del libertinismo gnostico (anch’esso contemplato non soltanto come comportamento lecito, ma talvolta addirittura obbligatorio per trasgredire e danneggiare il disegno arcontico), Jonas arriva persino a ipotizzare un vero e proprio adattamento gnostico della legge del karma: “D’altra parte, la combinazione in Carpocrate di questa dottrina [il libertinismo gnostico] col tema della trasmigrazione rappresenta un curioso adattamento dell’insegnamento pitagorico e forse anche della dottrina del “karma” indiano, dove la liberazione dalla «ruota delle nascite» è l’interesse dominante, sebbene in uno spirito molto diverso” (p.255).

Tuttavia, al di là del sincretismo non soltanto compatibile col pensiero gnostico ma essenzialmente caratteristico della sua espressione, il settimo capitolo di Knight of Cups suggerisce l’avvicinamento alla perla (“il nucleo spirituale indefinibile dell’esistenza”, p.306). Durante una giocosa sequenza in riva al mare e sul molo insieme a Elizabeth, la voce interiore di Rick pronuncia queste parole: “Quindi siamo questo. Un fuoco”. Pur non accompagnato da formule cinematografiche trionfali e consumatosi quasi in sordina, questo avvicinamento prepara di fatto la definitiva liberazione dal mondo che, dopo l’immancabile separazione da Elizabeth, culminerà nel capitolo conclusivo, emblematicamente intitolato Libertà (si tratta dell’unico capitolo, mette conto ripeterlo, che non mutua il titolo dagli arcani maggiori). Pur non essendo, quello rappresentato dal film, un evento assimilabile all’esperienza superlativa dell’illuminazione estatica, non è ozioso riportare l’ennesimo brano tratto dallo studio di Hans Jonas che chiarisce il tipo assolutamente peculiare di conoscenza veicolata dalla gnosi: “La mistica “gnosis theoû” - visione diretta della divina realtà - è già un pegno della consumazione futura. È la trascendenza divenuta immanente; e sebbene sia preparata dagli atti umani di trasformazione dell’io che attuano la giusta disposizione, il fatto stesso è da attribuirsi all’attività divina e alla grazia. Perciò è altrettanto un «essere conosciuti» da dio quanto un «conoscerlo», e in questa reciprocità finale la gnosi va molto oltre la «conoscenza» propriamente detta. Come visione di un oggetto supremo può essere detta teoretica - di qui «conoscenza» o «cognizione»; come assorbimento, trasfigurazione, la presenza dell’oggetto può essere considerata pratica - di qui «apoteosi» o «rinascita»: ma né la qualità mediatrice della conoscenza.... né quella strumentale della prassi... valgono quando l’essere del conoscente è assorbito in quello dell’oggetto - il quale «oggetto» significa la cancellazione di tutto il regno degli oggetti” (p.263). Di nuovo solo e spaesato, in una situazione simile a quella del prologo, Rick riprende il cammino mentre, in un montaggio che mescola liberamente tempi e spazi diversi, raccoglie i frammenti della sua esistenza, saluta per l’ultima volta, confortandoli, il padre e il fratello e getta un ultimo sguardo al mondo che si appresta ad abbandonare.

Sophia, orientamento, libertà

Fortemente segnato dalla presenza di un’enigmatica ed eterea figura femminile (Isabel Lucas), l’ottavo capitolo vede infine Rick intraprendere il viaggio di ritorno verso la dimora celeste: la casa del Padre nell’Oriente. La voce narrante lo esorta a dirigere il cammino verso est confidando nel suo ricordo infantile e nella segnaletica astrale: “Trova la luce che conosci a est. Come un bambino. La luna. Le stelle. Ti sono d’aiuto. Ti guidano nel tuo cammino”. Il riferimento alla luna (ricordiamo che Luna è anche il titolo del primo capitolo del film) reclama un ultimo ricorso allo studio di Jonas, che ricorda come, nel simbolismo gnostico, essa sia semplicemente il nome di un’emanazione divina: “Nella spiritualizzazione gnostica, «Luna» è semplicemente il nome esoterico della figura: il suo vero nome è Epinoia, Ennoia, Sofia e Spirito Santo” (p.111). Sebbene la figura di Sophia, ossia “Sapienza”, sia causa di immani catastrofi nella mitologia gnostica (soprattutto nella gnosi valentiniana, nella quale rappresenta l’aspetto defettibile di Dio), qualcosa di sensibilmente divino permane in lei. Benché questa figura sia talvolta degradata a tal punto da essere definita “Sophia-Prunikos” (“Sapienza-Prostituta”) o semplicemente “Prunikos” (“la pruriente”), nel film di Malick il personaggio lunare (Della), così come le altre figure femminili che attraversano il film di capitolo in capitolo, possiede un’evidente funzione di orientamento (diversamente dalle figure maschili, per lo più fallaci e disperate). Bastino, a titolo di esempio, queste frasi pronunciate rispettivamente dalla stessa Della, da Nancy e da Helen (Freida Pinto): “Non stiamo vivendo le vite a cui siamo destinati. Siamo destinati a qualcos’altro”; “Non potevo aiutarti a stare sulla retta via. La tua testa era girata nella direzione sbagliata”; “C’è qualche altro posto in cui dobbiamo arrivare. Lo so”.

Ebbene, nel pannello conclusivo Libertà questa funzione di orientamento (alla lettera volgersi verso l’oriente e stabilire la giusta direzione) diviene preponderante, la figura femminile interpretata da Isabel Lucas perdendo qualsiasi altra proprietà narrativa (non sappiamo da dove provenga, non conosciamo la natura della sua relazione con Rick, ignoriamo che cosa la spinga a sollecitarlo). La vediamo soltanto stare al suo fianco e pronunciare impercettibili formule attorno alla fiamma di una candela o al di sopra di un fuoco che arde tra le rocce. Alcune immagini interpolate dell’ex moglie Nancy suggeriscono un’associazione tra le due donne, ma questa figura appena sbozzata rimane troppo enigmatica per poterle attribuire qualcosa di diverso dal semplice ruolo di guida. Le uniche parole che proferisce sono quattro imperativi: “Sveglia. Voltati. Guarda. Esci fuori”. Tornano in mente le frasi pronunciate in precedenza proprio da Nancy (“Il mondo ti ha assorbito sempre di più. Non potevo aiutarti a stare sulla retta via. La tua testa era girata nella direzione sbagliata”), di cui questo quartetto di imperativi sembra costituire un sintetico e ineludibile contrappunto. Poi, leggiadra, si bagna nell’acqua lucente e di notte, totalmente scevra di ogni connotazione erotica o sensuale, s’immerge nuda nella piscina: figura eterea quant’altre mai, è lei ad accompagnare Rick alle soglie del mondo dopo l’ennesima esortazione della voce paterna (“Figlio mio, ricorda”).

Rick si trova di nuovo solo nel deserto, sostanzialmente nelle stessa situazione del prologo, soltanto che stavolta il suo cammino segue la direzione opposta: anziché scendere, continua a salire verso la sommità della formazione rocciosa sulla quale si trova. Velato dalle nuvole, il sole risplende maestoso in lontananza: la camera procede con un lento movimento in avanti e l’inquadratura successiva, speculare all’immersione iniziale, ci mostra l’uscita di Rick dalle acque torbide del mare (come osservato in precedenza “simbolo gnostico fisso per il mondo della materia o delle tenebre nel quale è immerso il divino”). Una volta emerso, egli è virtualmente fuori da questo mondo: lo vediamo un’ultima volta inquadrato fugacemente, la camera andando rapidamente a seguire il volo di alcuni gabbiani e tornando su di lui dal basso verso l’alto. La sua abitazione terrena è ormai vuota: non è più un «figlio della casa» ed egli, ormai trasfigurato e ridotto a pura visione, può finalmente iniziare l’ultima, ineffabile ascesa: “Inizia”.

Ringrazio Elisa Schiavi, Jean Claude Ciamporcero, Leo Benedetti Pagni e, infine, il professor Amleto Spicciani per le preziose occasioni di confronto, i suggerimenti bibliografici e gli insegnamenti ricevuti.

venerdì 5 febbraio 2016

REVENANT - REDIVIVO

 

“Durante una spedizione in un territorio incontaminato e sconosciuto, il leggendario esploratore Hugh Glass (Leonardo DiCaprio) viene aggredito da un orso, quindi abbandonato dagli altri compagni di caccia. Ma, nonostante le feriti mortali e la solitudine, Glass riesce a non soccombere. Grazie alla sua forte determinazione e all’amore che nutre per sua moglie, una indiana d’America, percorrerà oltre 300 chilometri in un viaggio simile a un’odissea, attraverso il grande e selvaggio West, per scovare l’uomo che lo ha tradito, John Fitzgerald (Tom Hardy). Il suo inseguimento implacabile diventa un’epopea che sfida il tempo e le avversità, alimentata dal desiderio di tornare a casa e ottenere la meritata giustizia” (dal pressbook).




L’enorme scoglio contro il quale è destinato a scontrarsi qualsiasi spettatore di Revenant - Redivivo, a prescindere dalla propensione più o meno spiccata ad assecondare la famigerata sospensione dell’incredulità, è quello dell’inverosimiglianza. La questione, pur cenciosa e indegna di figurare in sede di recensione, risiede nella plateale invulnerabilità di Hugh Glass (Leonardo DiCaprio): le sue doti di sopravvivenza, automedicamento, infrangibilità e resistenza alle intemperie sono così sovrumane e incredibili da sfondare irreparabilmente il muro della credibilità. Per quanto si sia disposti a concedere a un robusto quarantenne - quale quello interpretato da un DiCaprio non particolarmente scheletrico - un patrimonio genetico straordinariamente fortunato, le aggressioni e le disgrazie dalle quali Glass viene bersagliato lungo tutto il film (lacerazioni di grizzly, contusioni da sballottamento nelle rapide gelate, incolumità ad attentati plurimi, cadute vertiginose da altezze incalcolabili e ferite da arma da taglio) risultano francamente inammissibili per un solo corpo. Detto più semplicemente, Glass più che un redivivo pare un immortale o, in alternativa, un essere umano che muore e resuscita più volte: dopo l’attacco del grizzly, dopo la frettolosa sepoltura di Fitzgerald (Tom Hardy) e Bridger (Will Poulter), dopo la sauna terapeutica allestita dal Pawnee che lo soccorre e, infine, dopo la permanenza nella carcassa equina. Non è dunque fortuito che, nel prefinale, egli convinca il recalcitrante Capitano Henry (Domhnall Gleeson) a portarlo con sé nella caccia a Fitzgerald dicendogli: “Ormai non ho più paura di morire. L’ho già fatto” (“I ain’t afraid to die anymore. I’ve done that already”).

Ora, sappiamo bene che il mito della verosimiglianza nasconde troppe insidie e acceca troppi occhi, sicché occorre chiedersi se questa plateale implausibilità non suggerisca altre chiavi di lettura (del resto se lo scrupolo della verosimiglianza fosse stato davvero irrilevante, la sequenza dell’aggressione del grizzly non sarebbe stata così scrupolosamente particolareggiata e, per così dire, incredibilmente credibile). Ebbene, dal momento che Revenant - Redivivo si apre e chiude sul respiro profondo di Glass e il prologo visualizza letteralmente un suo sogno in compagnia del figlio e della moglie, l’ipotesi meno stravagante e campata in aria consisterebbe nel piazzare l’intero film sotto l’ipoteca onirica. Eppure, per quanto suggestiva, anche questa supposizione non sembra in grado di sorreggere l’intero film, poiché l’onirismo di Revenant - Redivivo si manifesta in maniera palesemente sporadica e disorganica, possedendo esclusivamente la funzione di mostrare alcuni squarci dell’interiorità di Glass (Iñárritu: “Durante il viaggio, quando Glass è solo e fisicamente distrutto, l’unico modo per restare in contatto con la propria umanità è attraverso sogni e visioni, che ci forniscono informazioni sul suo stato mentale e sul suo passato”). In altri termini, il tenore onirico del sesto lungometraggio cinematografico di Alejandro González Iñárritu non determina l’impianto narrativo complessivo, ma lo punteggia episodicamente in chiave introspettiva. A questa componente, che cozza violentemente contro il registro iperrealistico di gran parte del film, si aggiunge infine una vena spirituale-animistica che mette in comunicazione le vicende di Glass e Fitzgerald con eventi naturali ad alto coefficiente numinoso e premonitorio quali cadute di meteore e gigantesche valanghe. Eventi che, entrando in risonanza l’apparato visionario e onirico partorito da Glass (la caduta della meteora si configura inizialmente come fenomeno naturale apparso a Fitzgerald, salvo poi venire riassorbita nel tumultuoso sogno di Glass) dialogano dall’alto con gli insegnamenti impartiti dalla moglie (“Quando c’è una tormenta e sei in piedi di fronte a un albero e guardi i suoi rami, giuri che cadrà, ma se guardi il tronco, vedrai la sua stabilità”) e da Hikuc (Arthur RedCloud), il misericordioso Pawnee che pronuncia la frase decisiva “La vendetta è nelle mani del Creatore”.

E, secondo chi scrive, è proprio questa giustapposizione dei tre registri a risultare stridente, condannando il film a carambolare tra clima iperrealistico, paesaggi onirici ed epifanie animiste (l’uccellino che esce dal petto della moglie, la spettrale montagna di teschi di bisonte, l’abbraccio col figlio-albero nella rovine della chiesa). Anziché compenetrarsi o conciliarsi tra loro, insomma, le tre modalità espressive si avvicendano bruscamente, impedendo al film di trovare una sua organicità narrativa. Inoltre, all’interno dello stesso registro iperrealistico si percepisce un forte attrito tra l’impronta poderosamente basica delle riprese quasi documentaristiche e i momenti performativi, nei quali i vari interpreti recitano le loro parti in ossequio alle norme didascaliche del canone hollywoodiano: si pensi al primo battibecco tra Fitzgerald e Glass, al minaccioso confronto tra Fitzgerald e Bridger una volta abbandonato Glass o al già menzionato dialogo tra Glass e il Capitano Henry nella baracca del forte. In questi frangenti dialogati persino lo stile cinematografico viene progressivamente appianato e normalizzato, passando dalle riprese in continuità della prima lite ai più convenzionali campi/controcampi del colloquio col comandante della spedizione. In definitiva, sotto il profilo narrativo e drammaturgico, Revenant - Redivivo sconta una disomogeneità di fondo che a lungo andare ne sfibra la tenuta: se i primi 40 minuti (fino alla decisione di lasciare Bridger, Fitzgerald e, naturalmente, Hawk ad assistere l’agonizzante Glass) possiedono una potenza di coinvolgimento pressoché priva d’incrinature, l’affacciarsi sempre più palpabile dei registri divergenti sfilaccia gradualmente la tenuta drammatica del film, allentandone la compattezza e, conseguentemente, la presa sullo spettatore.

Tre vicoli ciechi o solo parzialmente percorribili (nessuno dei tre provvede a fornire una chiave di lettura estensiva e ben necessitata del film) che vengono ampiamente riscattati sotto il profilo squisitamente visivo. Emmanuel Lubezki in testa, il comparto tecnico direttamente proveniente dalla troupe di Terrence Malick (non soltanto la direzione della fotografia di Lubezki, ma anche le scenografie di Jack Fisk e i costumi di Jacqueline West) compensa abbondantemente le rapsodiche divagazioni narrative, assicurando al film un’indiscutibile solidità sul piano figurativo. Traendo il massimo partito dalle riprese in ordine cronologico e dall’impiego pressoché esclusivo di luce naturale, la costola malickiana non si limita tuttavia a rivestire la pellicola di una corazza smagliante (campi lunghissimi di maestosa vastità, notturni dalle vibrazioni luministiche cangianti, apparati scenografici perfettamente integrati nell’ambiente), ma la dota a pieno titolo di una sua singolarità visiva: di una sua visione, in una parola. Ecco perché le accuse di eccessiva derivatività rivolte a Revenant - Redivivo non hanno molto senso: benché i riferimenti più stringenti siano facilmente intuibili (oltre a Terrence Malick, Andrej Tarkovskij e Werner Herzog), il film possiede un arrangiamento visivo di una fluidità cinetica (grazie all’uso combinato di gru, steadicam e camera a mano) e di una torsione ottica (in virtù dei grandangoli) tali da renderlo a tutti gli effetti un unicum capace di conquistare pienamente la propria autonomia cinematografica. Liberamente ispirato al romanzo del 2002 The Revenant: A Novel of Revenge di Michael Punke (tr. it. Revenant. La storia vera di Hugh Glass e della sua vendetta, Einaudi, 2014), libro a sua volta ispirato alle autentiche vicende del trapper Hugh Glass (1783-1833), Revenant - Redivivo, dunque, è sì un film iperrealisticamente inverosimile con ipoteca onirica a carico, ma solidamente provvisto di una sua autonomia estetica e di una sua impetuosa crudezza (non solo l’aggressione del grizzly, ma anche l’agguato iniziale degli Arikara e il corpo a corpo finale tra Glass e Fitzgerald). Per una versione dell’avventura di Hugh Glass sostanzialmente diversa e maggiormente incentrata sugli aspetti tragico-patriarcali, si suggerisce la visione di Uomo bianco va’ col tuo dio (Man in the Wilderness, 1971) di Richard C. Sarafian.

Pubblicata su www.spietati.it.