martedì 5 gennaio 2016

LA ISLA MINIMA

“Profondo sud della Spagna, 1980. In un piccolo villaggio in cui il tempo sembra essersi fermato – nei pressi di un labirinto di paludi e risaie – si è installato un serial killer responsabile della scomparsa di molte adolescenti delle quali nessuno sembra interessarsi. Ma quando due giovani sorelle spariscono durante le festività annuali, la madre spinge per un’indagine e due detective della omicidi arrivano da Madrid per cercare di risolvere il mistero. Sia Juan che Pedro hanno una vasta esperienza nei casi di omicidio, ma differiscono nei metodi e nello stile. Dovranno ben presto fronteggiare ostacoli per i quali non sono preparati. Uno sciopero dei lavoratori locali mette a rischio il raccolto del riso e distrae i detective, messi sotto pressione affinché il caso si risolva rapidamente. Con loro grande sorpresa, le indagini in corso portano alla luce un’altra fonte di ricchezza per il villaggio: il traffico di droga. Gli investigatori vengono intrappolati da una rete di intrighi alimentata dall’apatia e dalla natura introversa della gente del posto. Niente è ciò che sembra in questa isolata e opaca regione e l’indagine incontra difficoltà inaspettate. Entrambi gli uomini capiscono di dover mettere da parte le rispettive divergenze professionali se vogliono fermare la persona responsabile della scomparsa delle sorelle prima che altre ragazze facciano la stessa fine.” (dal pressbook).

Alberto Rodríguez: “A conti fatti, La isla mínima è un film che rivela un tocco classico, per quanto riguarda le indagini e lo sviluppo dei personaggi, ma con uno sfondo che è torbido, fangoso, denso e impenetrabile... come le vere paludi nelle quali è ambientato. La isla mínima è la pellicola con cui mi sono avvicinato di più al fare cinema di genere, ma allo stesso tempo possiede una sua identità che lo rende differente, speciale”. Leggendo dichiarazioni simili, la tentazione di collocare La isla minima nel macroscopico scaffale dei prodotti-costruiti-a-tavolino è particolarmente forte, eppure il sesto lungometraggio cinematografico del quarantaquattrenne cineasta sivigliano non si lascia archiviare così pacificamente e sbrigativamente. Nonostante la tronfia e convenzionale affermazione testé riportata, La isla minima possiede alcuni tratti che, pur non riscattandolo interamente dalla confezione derivativa, lo rendono un film dotato di una sua singolarità. Se le risonanze con la prima stagione di True Detective risultano francamente assordanti, l’ambientazione andalusa, negli acquitrini intorno al piccolo centro abitato di Villafranco del Guadalquivir, sprigiona un’atmosfera palustre e stagnante che ben si attaglia all'andatura tortuosa e vischiosa delle indagini di Pedro (Raúl Arévalo) e Juan (Javier Gutiérrez), due detective inviati in missione nella sperduta regione per motivi antiteticamente punitivi (eccessivo dissenso nei confronti della gerarchia militare per il primo, eccessivo coinvolgimento col regime franchista per il secondo).

Siamo nel settembre del 1980 e i postumi dell’era franchista si fanno ancora sentire, non soltanto per l’influenza più che palpabile della gerarchia militare (Pedro è stato allontanato da Madrid, nonché da una promettente carriera, a causa di una lettera inviata a un giornale in cui provocava un generale), ma soprattutto per il clima di omertà e sudditanza nei confronti di un sistema signorile che regna incontrastato nel territorio del Basso Guadalquivir (l’intera regione è dominata dal signore del luogo, che esercita un potere pressoché assoluto sui lavoratori e sulla popolazione). In questa sacca di tradizionalismo e superstizione, contraddistinta dal lavoro stagionale per il raccolto e dal contrabbando di sigarette e stupefacenti, i due detective s’imbattono sì nelle immancabili resistenze dei locali (reticenza, negligenza e connivenza), ma trovano anche l’aiuto inaspettato di alcuni individui ai margini del consorzio sociale (l’indisciplinato bracconiere Jesús e il giornalista antimilitarista, memore dei metodi usati dalla Brigata Politico-Sociale durante il regime). E così, in rigorosa focalizzazione interna (lo spettatore conosce solo i particolari della vicenda scoperti gradualmente dai due detective), il racconto poliziesco si snoda progressivamente in virtù di una gestione misurata dei tempi narrativi e di una controllata distribuzione delle informazioni strettamente necessarie allo sviluppo dell’intrigo.

L'improvvisa e simultanea apparizione delle due piste che condurranno alla soluzione del caso (una per ciascun detective, naturalmente) accresce la sensazione di trovarsi di fronte a un ingranaggio tanto padroneggiato quanto programmato, confermando l’impressione di uno schema compositivo che sfrutta il genere per dimostrare l’abilità cinematografica di Rodríguez e collaboratori (non sorprende affatto il banco regio di riconoscimenti - ben dieci - ai Premi Goya 2015). Ne è ulteriore riprova l’uso smaccatamente scolastico delle soggettive lungo l’intero film: anziché immergerci nel morboso mistero dell’universo esplorato (cosa che, giusto per citare un paio di titoli sottostimati, riusciva assai bene In the Cut e Le paludi della morte), servono soltanto a far procedere l’indagine secondo una logica rigidamente funzionale e meccanicistica (lo spettatore ne deve sapere quanto i detective, quindi scoprirà tutti gli indizi attraverso i loro occhi). Inevitabile dunque che, in questa supremazia del cognitivo sul visivo, i rari squarci allucinatori suonino come stridenti e artificiosi inserti introspettivi: nessun timore, non si rischia di smarrire la strada maestra del racconto d’inchiesta, il timone segue la rotta prestabilita. Analogamente, le sparute astrazioni grafiche del territorio andaluso (ottenute per lo più con inquadrature aeree a piombo) non possiedono la forza sufficiente a spalancare un’altra dimensione espressiva nel film (si pensa di nuovo e per contrasto alla prima stagione di True Detective, in cui i campi lunghissimi trasfiguravano le paludi della Louisiana in acquitrino mentale), ma si fermano allo stadio della belluria, del calligrafismo ornamentale.

L’aspetto più interessante della pellicola risiede invece nel fatto che il grande marionettista, colui che tiene i fili e manipola i personaggi, non solo si riduce a una macchia illeggibile su una fotografia a causa del flash che ne occulta il riflesso su uno specchio, ma è anche lo stesso autore degli scatti: è l’artefice delle immagini attorno alle quali si snodano le indagini e che, alla fine della vicenda, resterà impunito. Se la sua identità si costruisce gradualmente per via indiziaria, la sua responsabilità sfugge emblematicamente alla sanzione della giustizia. Di più: è proprio producendo queste immagini che egli ricatta le vittime e manovra i personaggi conniventi. Detto più chiaramente, la produzione di immagini coincide col ricatto, la manipolazione e l’impunità: siamo insomma in presenza di un demiurgo tirannico che sfrutta le immagini per signoreggiare impunemente e dominare arbitrariamente un microcosmo saturo di credenze e superstizioni (difficile concepire una figura più sinistra e autoritaria di auctor in fabula). È questo, secondo chi scrive, il risvolto più fruttuosamente inquietante e perversamente incisivo di La isla minima: l’immagine del potere è un'immagine accecante, colpevolmente innocente.

Pubblicata su www.spietati.it.