martedì 17 novembre 2015

LOVE

 


“Mattino del 1º gennaio, il telefono squilla. Murphy si sveglia accanto alla giovane moglie e al figlio di due anni. Ascolta un messaggio lasciato alla segreteria telefonica: tremendamente angosciata, la madre di Electra vuole sapere se Murphy ha notizie di sua figlia scomparsa da tempo, poiché teme che le sia capitato qualcosa di grave. Nel corso di una lunga giornata piovosa, Murphy si ritrova solo nel suo appartamento a ricordare la sua più grande storia d’amore: due anni con Electra. Una passione ardente piena di promesse, giochi, eccessi ed errori…” (dal presskit).




Nel corso degli anni ho sognato di fare un film che riproducesse al meglio la passione amorosa di una giovane coppia in tutti i suoi eccessi fisici ed emotivi. Una sorta di amour fou simile alla quintessenza di ciò che i miei amici o io stesso abbiamo potuto vivere. Un melodramma contemporaneo in grado d’integrare molteplici scene d’amore e capace di superare la ridicola barriera che impedisce di mostrare sequenze apertamente erotiche in un film normale (…). Volevo filmare ciò che il cinema, per ragioni commerciali o legali, può permettersi raramente, vale a dire filmare la dimensione organica dello stato amoroso. Eppure, nella maggioranza dei casi, è qui che risiede l’essenza stessa dell’attrazione all’interno di una coppia. Il partito preso consisteva quindi nel mostrare una passione intensa sotto una luce naturale, dunque animale, ludica, orgasmica e lacrimale. Contrariamente ai miei progetti precedenti, per una volta non si tratta che di violenza sentimentale ed estasi amorosa.

Affaire Love

La prima questione da affrontare senza indugi nell’affaire Love riguarda l’assegnazione a scoppio ritardato del divieto ai minori di 18 anni (nelle prime due settimane di programmazione, il film è uscito in 33 sale francesi con un divieto ai minori di anni 16). Non tanto per capriccio morboso o per un’indignata difesa della libertà di espressione, quanto per mettere in evidenza un’anomalia che interessa attualmente il sistema francese di assegnazione dei visti di distribuzione cinematografica (Visa d’exploitation). Come funziona questo sistema? L’organo consultivo deputato all’assegnazione dei visti è, in prima istanza, la Commissione di classificazione delle opere cinematografiche (Commission de classification des œuvres cinématographiques): se non insorgono complicazioni, l’indicazione proposta dalla commissione viene pacificamente approvata dal Ministero della Cultura e della Comunicazione che, per mano del ministro, la conferma e la rende effettiva. Questa la prassi consolidata da decenni. Ora, dal momento che la commissione di classificazione è diretta emanazione del Centro Nazionale del Cinema e dell’Immagine Animata (CNC) ed è composta in maggioranza da professionisti che operano nel settore, le indicazioni che essa suggerisce, improntate al rispetto delle opere e alla protezione della creazione artistica, possono essere considerate eccessivamente permissive e indulgenti, se non addirittura lassiste, da chi reclama un’applicazione letterale e draconiana della legge in materia (l’articolo 227-24 del Codice penale francese proibisce formalmente la diffusione ai minori di un messaggio “a carattere violento, pornografico, incitante al terrorismo o di natura tale da offendere gravemente la dignità umana”, contemplando la punizione a tre anni di reclusione e la sanzione pecuniaria di 75000 euro).

È proprio questa discrezionalità della commissione, una discrezionalità rispettosa delle opere e ragionevolmente duttile nell’applicazione della normativa in materia, a prestare il fianco alle controversie. Eppure l’anomalia non risiede nella presunta elasticità della commissione di classificazione - che per le frange più reazionarie equivale al lassismo - o in un ipotetico richiamo all’inflessibile applicazione della legge da parte del ministero, poiché il più delle volte quest'ultimo si limita ad avallare le indicazioni suggerite dalla prima. L’anomalia consiste invece nell’eventualità che una terza parte, reclamando maggior rigore applicativo, contesti la correttezza del visto erogato dagli organi competenti e interpelli altri organi istituzionali (il tribunale amministrativo e, in ultima istanza, il Consiglio di Stato) per procedere a un riesame del film e all’attribuzione di una classificazione più severa. Perché parlo di anomalia e non di semplice risorsa democratica? Perché negli ultimi anni Promouvoir, un’associazione cattolica fondata nel 1996 la cui finalità consiste nella “promozione dei valori giudaico-cristiani in tutti i domini della vita sociale”, ha più volte contestato le decisioni di commissione e ministero, ottenendo più volte dal Consiglio di Stato la revoca dei visti ministeriali e l’assegnazione di classificazioni più rigorose (dal divieto ai minori di 16 anni al visto “X” o all’interdizione ai minori di 18) per pellicole quali Baise-moi (1999), Ken Park (2003), Saw 3D (2010), Nymphomaniac (2013) e, appunto, Love.

In sostanza, la situazione attuale è questa: l’associazione di estrema destra Promouvoir, capitanata dall’avvocato omofobo e ultratradizionalista André Bonnet, tiene sotto scacco il Ministero della Cultura e la Commissione di classificazione del CNC, attaccando le loro deliberazioni ogni qual volta le giudichi troppo permissive o condiscendenti. Questa situazione, definita da Vincent Maraval, patron di Wild Bunch, vero e proprio “terrorismo morale” ha accompagnato la vicenda di Love fin dall’inizio, giacché il ministro (o la ministra che dir si voglia) della cultura in carica Fleur Pellerin, prevedendo la reazione di Promouvoir, non ha avallato la prima raccomandazione della commissione di vietare il film ai minori di 16 anni, ma, caso rarissimo, ha chiesto alla commissione stessa di riesaminare il film con l’auspicio di ottenere una classificazione più severa. Oltre all’evidente cerchiobottismo del ministro (perché non ha semplicemente scelto di non seguire l’indicazione, anziché chiedere alla commissione di cambiare parere?), si spalanca una questione letteralmente surreale: che senso ha mantenere in vita un’apposita commissione composta in maggioranza da professionisti del settore, se a stabilire la classificazione delle pellicole è in ultima analisi un’associazione reazionaria?

Cionondimeno, per la seconda volta e con regolare votazione, la commissione ha confermato il divieto ai minori di 16 anni senza lasciarsi influenzare dalla richiesta di revisione del ministro o farsi intimidire dalle prevedibili reazioni di Promouvoir. Reazioni che, naturalmente, non si sono fatte attendere: Love è uscito nelle sale francesi mercoledì 15 luglio col divieto ai minori di 16 anni e il giorno successivo l’associazione di André Bonnet ha richiesto un provvedimento d’urgenza al Tribunale Amministrativo di Parigi per contestare il visto di distribuzione del film. Il nuovo esame (e siamo a quota tre) del tribunale amministrativo ha sospeso, in data giovedì 30 luglio, il visto ministeriale e, in ragione della presenza nel film di “scene di sesso non simulate”, ha ufficialmente innalzato il divieto ai minori di 18 anni, non senza qualche complicazione per le 33 sale che stavano programmando Love da due settimane con la classificazione improvvisamente annullata. La parola finale è comunque spettata alla più alta corte amministrativa francese: il Consiglio di Stato, interpellato con un ricorso in cassazione presentato nel mese di agosto dalle società di produzione e distribuzione del film, nonché dal gabinetto del ministro Fleur Pellerin, che nel frattempo ha assunto posizioni meno cerchiobottiste, difendendo con prudenza ma sempre più apertamente - a 20:48 si parla del film di Noé e della temibile associazione di Bonnet - la libertà di creazione artistica e l’operato della commissione di classificazione. L’affaire Love si chiude definitivamente mercoledì 30 settembre quando, esaminato nuovamente il film lunedì 14 settembre (quarto vaglio istituzionale in poco meno di tre mesi: un autentico record), il Consiglio di Stato respinge il ricorso e conferma il divieto ai minori di 18 anni con la seguente motivazione: “il giudice dei provvedimenti d’urgenza del tribunale amministrativo non ha commesso errore sospendendo parzialmente il visto di distribuzione in base al fatto che Love avrebbe dovuto essere vietato ai minori di 18 anni (senza classificazione “X”) in ragione delle numerose scene di sesso non simulate che esso comporta”.

Tirando le somme, l’intera controversia sorta intorno all’ultimo film di Gaspar Noé ha finito per concentrarsi sulla presenza di “scene di sesso non simulate” (l’articolo R. 211-12 del Codice del cinema e dell’immagine animata prevede difatti il divieto ai minori di 18 anni nel caso in cui l’opera comporti scene di tale natura), sollevando un importante problema di carattere normativo. Dal momento che questo criterio grossolanamente quantitativo e automatico (presenza di scene di sesso non simulate = divieto ai minori di 18) risulta palesemente inadeguato alla realtà contemporanea, da una parte per la frequenza sempre maggiore di film comprendenti scene di sesso esplicito a finalità non masturbatoria (basti pensare a pellicole di Catherine Breillat, Bruno Dumont, Bertrand Bonello, Philippe Grandrieux, Jean-Claude Brisseau, Alain Guiraudie e Abdellatif Kechiche) e, dall’altra, per il ruolo sempre più marginale del cinema nella formazione sessuale degli adolescenti (ruolo rimpiazzato dal possesso di un dispositivo informatico e dall’accesso a un motore di ricerca qualsiasi), il solo modo di correggere l’anomalia del sistema di classificazione risiede nella revisione dei criteri che disciplinano la regolamentazione. A fare problema, insomma, è la necessità sempre più stringente di stabilire una distinzione tra scene di sesso non simulate e scene a vocazione dichiaratamente pornografica. È per questo motivo che, sulla scorta dell’affaire Love, il ministro della cultura Fleur Pellerin ha annunciato l’avvio di una riflessione per la riforma del sistema concertata con la commissione di classificazione, con rappresentanti del mondo del cinema, specialisti nella protezione della gioventù e neuropsichiatri infantili. Entro gennaio 2016 Jean-François Mary, presidente della commissione del CNC, dovrà presentare al ministro delle proposte pianificate per l’elaborazione di una regolamentazione più adatta alla realtà cinematografica attuale. In definitiva l’affaire Love, in maniera non troppo dissimile dall’affaire Baise-moi (in seguito al quale è stato reintrodotto il divieto ai minori di 18 anni, precedentemente sospeso dal ministro della cultura Jack Lang), avrà con ogni probabilità decisive ripercussioni sull’intero sistema francese di classificazione delle opere cinematografiche.

Malgrado il suo piccolo budget, questo film colorato dal formato cinemascope è stato girato in rilievo grazie a nuove videocamere. Spero che questa scelta renderà l’esperienza più immersiva per gli spettatori. Affascinato dalle immagini in rilievo, continuo da anni a scattare foto in 3D, analogiche o digitali. La posta in gioco è ancora più inquietante quando si filma una persona cara la cui vita sta svanendo. Rivedendo le immagini, si ha la sensazione di aver trattenuto una parte quasi vivente della persona dentro una piccola scatola. Il rilievo dà l’impressione illogica e infantile di aver afferrato un momento del passato molto meglio di quanto possa farlo un’immagine piatta. Siccome questo film racconta un amore perduto, ho pensato che il rilievo potesse aumentare l’identificazione dello spettatore col personaggio e la sua condizione nostalgica. Analogamente, la presenza di una voce over o la scelta delle musiche sono lì per riflettere meglio lo scacco emotivo del protagonista, tanto smarrito nei suoi atti quanto nei suoi pensieri.

Love Affair

Il lungo preambolo sulla controversia legale non costituisce una semplice curiosità, poiché, oltre a mettere in luce le peculiarità del sistema francese di assegnazione dei visti, evidenzia uno dei tratti distintivi di Love, anzi forse il suo tratto più saliente, ovvero l’inscindibilità della componente erotica da quella narrativa e sentimentale (Love is Noé’s attempt to marry sex and story). In maniera ancor più marcata e indissociabile di quanto avveniva in alcune pellicole di Catherine Breillat, Bruno Dumont, Philippe Grandrieux o Jacques Nolot, nell’ultimo film di Gaspar Noé configurazione narrativa, modulazione sentimentale e rappresentazione erotica sono visceralmente, geneticamente inseparabili: è letteralmente impossibile alterare uno solo di questi aspetti del film senza snaturarlo completamente o intaccarne in profondità la fisionomia complessiva. Ed è proprio questa omogeneità di fondo, simile a un'osmosi molecolare, ad aver posto il problema della classificazione in termini cogenti e ineludibili. In questo senso uno dei punti di riferimento di Love è The Defiance of Good (1975) di Armand Weston (la locandina del quale campeggia su una parete della camera di Murphy), uno dei rari porno-horror degli anni ’70 in cui progressione drammatica, sessualità esplicita e tensione emotiva non seguono percorsi divergenti e discordanti, ma si integrano congiuntamente ed efficacemente nel disegno narrativo.

L’origine di Love risale a più di quindici anni fa, precisamente al periodo successivo a Seul contre tous (1998), quando Gaspar Noé, impossibilitato a realizzare in tempi brevi Enter the Void per motivi tecnici, economici e logistici, decide di posporre provvisoriamente il progetto e ripiegare su un piccolo film intimista, una storia d’amore con copiosa rappresentazione del sesso sullo schermo. Un giorno del giugno 2001 Noé incrocia Vincent Cassel in un locale e gli parla del nuovo progetto, salutato da quest’ultimo con entusiasmo e intraprendenza (sia Cassel che la moglie Monica Bellucci apprezzavano i lavori precedenti di Noé), fissando nel mese di agosto il periodo adatto alle riprese. Noé e Cassel interpellano dunque i due produttori Richard Grandpierre e Christophe Rossignon (L’odio, Il patto dei lupi), che si dicono realmente interessati alla proposta, e la produzione del film inizia a ingranare con Studio Canal come compagnia di sostegno. Ma quando Vincent e Monica leggono il trattamento di sette pagine prive dei dialoghi (da improvvisare totalmente durante le riprese) vengono spaventati dall’eccessiva intimità della vicenda, revocando la loro partecipazione al film. Per non perdere la favorevole congiuntura produttiva, Noé propone allora di realizzare un altro film, un rape and revenge raccontato al contrario: è così che dalle ceneri di Danger (il titolo originale del trattamento rifiutato) nasce Irréversible (2002). Grazie al successo commerciale di Irréversible, Noé può finalmente girare Enter the Void, pellicola molto più costosa e molto meno fortunata dal punto di vista degli incassi. A sedici anni di distanza, infine, Noé ritorna al trattamento di Danger, che diventa Love.

Film dal budget decisamente meno impegnativo di Enter the Void (costato più di 10 milioni di euro), Love (costato tra i 2 e i 3 milioni di euro) è stato realizzato grazie a una coproduzione con investimenti privati che ha visto tra i principali artefici Vincent Maraval di Wild Bunch: a questa rischiosa sinergia si sono aggiunti in extremis gli aiuti del CNC per l’utilizzo del 3D (aide aux nouvelles technologies en production). Preparato e portato a termine in soli 9 mesi (da settembre 2014 a maggio 2015) e proiettato in anteprima in un’affollatissima Séance de minuit al 68º Festival di Cannes, Love è stato girato in 3D per più motivi: in primo luogo perché Noé aveva già dimestichezza con questa tecnica (da anni scatta fotografie stereoscopiche con un piccolo apparecchio e registra immagini in rilievo con una videocamera Panasonic 3D a basso costo, videocamera che peraltro viene utilizzata in una sequenza iperstereoscopica del film); in secondo luogo, importante quanto il primo se non di più, poiché Benoît Debie, direttore della fotografia di fiducia di Noé a partire da Irréversible, aveva appena finito di girare Every Thing Will Be Fine e, forte dell’esperienza acquisita sul set di Wim Wenders, ha convinto l’amico Gaspar che realizzare Love in 3D sarebbe stato meno complicato del previsto (grazie a un sistema ottico stereoscopico più leggero di quello utilizzato per il film di Wenders).

Sulle pagine del quotidiano elvetico Le Temps, Marie-Claude Martin scrive: “Come Irréversible che raccontava una storia di stupro al contrario, Love è una macchina per risalire il tempo. Come sempre, Gaspar Noé cerca l’origine, questo tempo originario in cui niente è stato ancora alterato, nel quale tutto è puro, semplice, infantile. Solo il ritorno all’indietro e su di sé permette di raggiungere - sapendolo definitivamente perduto - questo stato precedente alla corruzione”. L’osservazione di Marie-Claude Martin coglie perfettamente nel segno: se per Noé “il tempo distrugge tutto” (Le Temps Détruit Tout), la sola risorsa a disposizione per contrastare o sospendere questa opera devastatrice risiede nello sfaldamento, nello smantellamento della linearità cronologica e nella regressione verso il luogo immaginario e primordiale dell’origine, là dove ogni cosa è colta in statu nascendi, nel momento aurorale del suo manifestarsi. L’inversione diviene una figura della regressione allo stato anteriore alla degradazione e al disfacimento: i finali di Irréversible, Enter the Void e Love, tre pellicole concepite più o meno nello stesso periodo e indissolubilmente legate tra loro, rispondono a questa logica regressiva, amniotica e lustrale. L’epilogo nella vasca da bagno di Love, benché suscettibile di una lettura simbolica d’impronta mortuaria (le tonalità purpuree che impregnano l’inquadratura, il freeze frame cadaverico che paralizza i corpi avvinghiati e la didascalia-epitaffio THE END a caratteri cubitali), conclude quella che potrebbe essere plausibilmente definita “trilogia della regressione”. Una trilogia che, per quanto contraddistinta dallo stesso movimento retrogrado, porrebbe di volta in volta l’accento su elementi diversi della dinamica regressiva: la violenza in Irréversible, la morte in Enter the Void e, infine, il sentimento amoroso in Love. Non è affatto fortuito che Noé, interpellato sull’influenza esercitata da 2001: Odissea nello spazio e da Kubrick in generale sul suo cinema, abbia risposto in questi termini: “2001: Odissea nello spazio è un film sensoriale, ma è soprattutto un film molto cerebrale, meccanico, che sviluppa un discorso sull’umanità, sull’intelligenza artificiale e altre cose ancora. I miei film sono molto mammiferi, i suoi sono più costruiti con la neocorteccia, dunque la parte del cervello che serve al linguaggio e alla previsione del futuro, i miei film parlano più delle pulsioni mammifere - o rettili - dell’uomo e della donna”.

Ancora Marie-Claude Martin: “E il 3D, direte voi? Contro ogni aspettativa, è la bella sorpresa di Love. Venduta come la promessa allettante di un’immersione totale, il 3D è meno un invito al voyeurismo che uno scrigno protettivo. […] Il 3D ha la stessa funzione: offrendo l’artificio di una profondità di campo, mettendo i corpi in rilievo, giocando sull’aspetto teatrale, mette a distanza più di quanto ci faccia penetrare nell’intimità dei corpi. I quali, bagnati da una luce alonata, sono come protetti dagli sguardi che potrebbero sporcarli”. Girato con un sistema a due videocamere 3D, Love deve praticamente tutta la concezione del suo impianto visivo all’arrangiamento tridimensionale: impossibile afferrare e comprendere completamente la strutturazione spaziale delle inquadrature, la collocazione dei punti macchina, la gestione delle distanze tra i personaggi e la resa volumetrica dei corpi con una visione 2D. Giusto a titolo di esempio: quella che potrebbe sembrare una scelta squisitamente stilistica come la predilezione per le inquadrature fisse e l’uso parsimonioso dei movimenti di macchina è invece il precipitato estetico della tecnica di ripresa (dal momento che in 3D i movimenti di camera risultano eccessivamente vertiginosi e nauseanti, Gaspar Noé e Benoît Debie, entrambi anche interpreti nei panni del gallerista Noé e dello sciamano Yuyo, hanno rinunciato ai virtuosismi cinetici di Enter the Void e hanno al contrario adottato una misura visiva adatta a esaltare la profondità di campo e l’iscrizione statuaria dei corpi nello spazio). Detto più chiaramente, la sola versione di Love in cui il film canta e incanta è quella in 3D: lo “scrigno protettivo” di cui parla Marie-Claude Martin, uno scrigno che mette al riparo la visione dal sentimentalismo e dal voyeurismo, viene schiacciato e frantumato dall’appiattimento della versione bidimensionale (altro esempio emblematico: nella versione 3D, la frequente collocazione di Murphy/Karl Glusman nella soglia tra due stanze possiede naturalezza e spontaneità, mentre in quella bidimensionale acquista un artificioso sapore di incorniciatura metacinematografica).

Strutturato sull’esperienza del ricordo di Murphy (l’espediente narrativo che permette a Noé lo zigzagante percorso a ritroso), Love abbraccia deliberatamente codici visivi che si discostano in modo eclatante dal canone pornografico: anziché concentrarsi esclusivamente sui genitali e sui particolari prestazionali, le inquadrature concedono ampio respiro all’integralità fisica (la scena di apertura sulle note della Gnossienne nº 3 di Satie, la sequenza del threesome su quelle di Maggot Brain dei Funkadelic), si assestano sulle parti superiori dei corpi (l’amplesso che segue al “Can you show me how tender you can be?” sussurrato da Electra/Aomi Muyock a Murphy sulle note dell’indimenticabile Lucifer Rising Take Two di Bobby Beausoleil) oppure si stringono addirittura sui soli volti ripresi in primo piano (Murphy e la sua ex Lucile/Xamira Zuloaga intenti a baciarsi sulle note di Always Returning di Brian Eno). Contrariamente a quanto ipotizzato nelle fasi di scrittura e preparazione (inizialmente Noé avrebbe voluto fare un film pressoché privo di dialoghi, con sole musiche di accompagnamento e voce over di Murphy), grande spazio è stato lasciato all’improvvisazione, sia nelle parti dialogate (si pensi al feroce litigio nel taxi tra Murphy ed Electra) che in quelle performative (la sequenza, già divenuta di culto, del full frontal cumshot girato alla fine del primo giorno di riprese, con tanto di richiesta esplicita di Karl Glusman a Noé di togliersi dal suo campo visivo per non inibire l'eiaculazione).

Attenzione però a non scambiare Murphy per l’alter ego di Gaspar Noé: la svista più imperdonabile che si potrebbe commettere (stortura che si è puntualmente verificata) nei confronti di Love consisterebbe proprio nel confondere il punto di vista di Murphy con quello del film nel suo complesso e di lì (il passo è breve) con quello di Noé stesso. Nonostante porti il cognome materno del regista, ne indossi le magliette e la giacca militare à la Travis Bickle e benché le pareti della sua camera siano tappezzate di poster e suppellettili di proprietà del cineasta (tra i quali spicca il modellino del LOVE HOTEL già utilizzato in Enter the Void), Murphy appartiene a pieno titolo alla stirpe dei protagonisti sgradevoli, inconcludenti e caricaturali ai quali Noé ci ha abituati fin dal suo esordio (GN: “My characters are never heroic. They are mostly lost and trying to find the right door to open and they end up opening the wrong doors”). Come il boucher interpretato da Philippe Nahon in Carne (1991) e Seul contre tous (1998), Murphy è il tipico antieroe di Noé in cui si accumulano velenosamente aspirazioni velleitarie (si dichiara un filmmaker ma le sue pompose ambizioni non trovano alcun riscontro effettivo), atteggiamenti stereotipati (propina indistintamente le stesse formule sentimentali all’ex fidanzata Lucile e a Electra, spingendosi addirittura a suggerire lo stesso nome per il figlio prima a Electra e, nell’inquadratura immediatamente successiva, a Omi/Klara Kristin) e maschilismo tracotante (l’aggressione al gallerista insolentemente interpretato dallo stesso Noé con parrucca petersellersiana, l’interrogatorio in centrale col poliziotto interpretato in modo formidabile daVincent Maraval al suo esordio nei panni di un flic lussurioso).

Il profondo legame tra il cialtronesco protagonista di Love, il macellaio xenofobo di Carne/Seul contre tous e il giovane Oscar di Enter the Void si oggettiva inoltre nel risentito vittimismo della voce over, permeata di un’acredine e di un’autocommiserazione che, pur ammantate di nostalgica rassegnazione, richiamano esplicitamente le rancorose recriminazioni del boucher nei confronti della ributtante compagna (boucher: “Un salame di merda. Un vino di merda e una famiglia di merda in un paese di merda”; Oscar: “Ne ho abbastanza di questa puttana (…) Vivere con una donna è come condividere il letto con la CIA”) e la tossica autoindulgenza dell’inconsapevole morituro di Enter the Void (Oscar, poco prima di accendersi una pipa di DMT, bisbiglia paradossalmente: “I know I’m not a junkie”; Murphy, sotto oppio, mormora tra sé e sé: “I feel like a junkie”). Quelli di Noé, insomma, sono sempre protagonisti che, nonostante l’impronta soggettiva impressa ai film, ingaggiano lo spettatore in una dinamica giocata sul filo dell’identificazione e della repulsione: se gli smacchi che vivono incoraggiano fortemente l’immedesimazione, le loro meschinità e i loro egoismi ostacolano altrettanto fortemente l’adesione incondizionata. Sollecitato e intralciato al tempo stesso, lo spettatore è dunque preso in un’impasse che neutralizza i convenzionali e rassicuranti meccanismi di partecipazione emotiva. Messo fuori causa l’apparato psicologico, il cinema di Noé è dunque libero di sferrare l’offensiva sul fronte sensoriale e pulsionale della rappresentazione cinematografica (“I miei film parlano delle pulsioni mammifere - o rettili - dell’uomo e della donna”). E benché Love non costituisca il capo d’opera del cineasta franco-argentino (alcuni stilemi come le didascalie a tutto schermo e gli stacchi in nero “effetto diaporama” sono qui adoperati in chiave vezzosamente ornamentale), l’ultimo film di Gaspar Noé rappresenta l’ennesima testimonianza di un talento espressivo capace di lasciare un segno indelebile nel panorama internazionale con proposizioni cinematografiche di profonda originalità e inesausta radicalità. Uno dei rari casi in cui la cinefilia non fagocita l’inventiva e la vitalità nelle soffocanti spire del miserabile metacinema.

Questo, tra tutti i miei film, è quello più vicino a ciò che ho potuto conoscere dell’esistenza e anche il più malinconico.

Un ringraziamento a Lorenzo Baldassari per la consulenza tecnica.

Già pubblicata su www.spietati.it.

martedì 3 novembre 2015

DHEEPAN - UNA NUOVA VITA

 
 
 
 
 
"In fuga dalla guerra civile in Sri Lanka, un ex guerriero Tamil, una giovane donna e una bambina si fingono una famiglia. Accolti come rifugiati in Francia, vanno ad abitare in una banlieue difficile dove, pur conoscendosi appena, cercano di vivere in armonia." (dal pressbook). 
 
 
 
 
 
 
 
 
Settimo lungometraggio di Jacques Audiard, Dheepan si è aggiudicato la Palma d’oro al Festival di Cannes del 2015. Se la ricompensa suprema arriva solo oggi, il figlio d’arte del celebre dialoghista, sceneggiatore e romanziere Michel Audiard è già stato premiato a Cannes nel 1996 con Un héros très discret (migliore sceneggiatura) e nel 2009 con Un prophète (Grand Prix Speciale della Giuria). Entrambi i film precedentemente ricompensati condividono con quest’ultimo, a differenza di Un sapore di ruggine e ossa, la tipica ossessione audiardiana: quella di un talento sopito o nascosto che si risveglia nel protagonista a causa della pressione ambientale e delle regole di sopravvivenza dettate dal microcosmo in cui egli si trova accidentalmente gettato - si pensi anche al bellissimo noir d’esordio del 1994 Regarde les hommes tomber. Questa volta, tuttavia, l’accento è posto più sulla forza che spinge il protagonista a ridestare il talento dormiente che sull’eccezionalità del talento stesso: in Dheepan l’uomo che non amava più la guerra, come recitava il sottotitolo originale, diventa l’uomo che torna alla guerra per amore/amare. E stavolta, inoltre, l’impianto drammaturgico cambia sensibilmente rotta rispetto alle costruzioni controllatissime cui Audiard ci ha abituati (Un sapore di ruggine e ossa rappresenta il culmine di questa signoria autoriale): tutta la parte sentimentale della sceneggiatura è stata scritta lasciando dei vuoti da colmare durante le riprese, che hanno dunque avuto il compito di sviluppare i frammenti lasciati allo stato embrionale nello script.

Il risultato definitivo, insomma, è stato fortemente influenzato dalle dinamiche di immedesimazione degli interpreti sul set, motivo per cui si è reso necessario un metodo di tournage diverso dal solito: non più ciak centellinati ma numerose riprese per ogni scena, in modo da lasciare ai tre attori principali (Antony, la piccola Claudine e Kali, non professionisti a eccezione di quest’ultima, attrice teatrale di Madras) la libertà di raggiungere e aggiungere sfumature nuove e sorprendenti. Ma se il tentativo di variare registro rispetto alla scrittura ipersorvegliata di Un sapore di ruggine e ossa è indubbiamente apprezzabile, questa stessa plasticità progettuale confida eccessivamente nell’effetto di autenticità indotto dal metodo aperto, trascinando il film nelle secche di una convenzionalità semplificatoria che tiene l’intera vicenda malamente in bilico sul fondale del miserabilismo benevolente (Dheepan e Yalini convertono increduli in rupie i 500 euro offerti alla donna per fare la domestica) e del sentimentalismo pedagogico (la piccola Illayaal che avvicina i due falsi genitori e istruisce affettivamente la madre improvvisata). Non soccorre, infine, il candido escapismo dell’epilogo che, pur ammantato da un alone illusorio di sapore fantastico-favolistico che ne smorza vistosamente la portata realistica, propone l’idillio inglese come ottenimento di una felicità finalmente priva di ostacoli e complicazioni (un vero figlio, qualche amico, un barbecue). E se l’intento di Audiard, scaturito dal guizzo germinale di realizzare un remake di Cane di paglia in una banlieue francese e assunta come indicazione ideale le Lettere persiane di Montesquieu, consisteva nel “ricavare l’immagine eroica da una situazione derisoria” (JA), Dheepan oggettiva lacunosamente e solo a tratti questo proposito, il film barcamenandosi goffamente tra squarci surreali (l’apparizione di Dheepan dall’oscurità col cerchietto a luci intermittenti), siparietti didascalici (il dialogo in lingua tamil con l’interprete per la richiesta di asilo), proclami metacinematografici (Dheepan e Yalini alla finestra: “Guarda, sembra di stare al cinema!”) e patetismi d’accatto (Dheepan che dona a Yalini i fiori appena ricevuti da Illayaal). Titoli di testa una spanna sopra il resto della pellicola.
 
Pubblicata su www.spietati.it.