mercoledì 21 ottobre 2015

SUBURRA

“Nell’antica Roma, la Suburra era il quartiere dove il potere e la criminalità segretamente si incontravano. Dopo oltre duemila anni, quel luogo esiste ancora. Perché oggi, forse più di allora, Roma è la città del potere: quello dei grandi palazzi della politica, delle stanze affrescate e cariche di spiritualità del Vaticano e quello, infine, della strada, dove la criminalità continua da sempre a cercare la via più diretta per imporre a tutti la propria legge. Il film è la storia di una grande speculazione edilizia, il Water-front, che trasformerà il litorale romano in una nuova Las Vegas. Per realizzarla servirà l’appoggio di Filippo Malgradi (Pierfrancesco Favino), politico corrotto e invischiato fino al collo con la malavita, di Numero 8 (Alessandro Borghi), capo di una potentissima famiglia che gestisce il territorio e, soprattutto, di Samurai (Claudio Amendola), il più temuto rappresentante della criminalità romana e ultimo componente della Banda della Magliana. Ma a generare un inarrestabile effetto domino capace di inceppare definitivamente questo meccanismo saranno, in realtà, dei personaggi che vivono ai margini dei giochi di potere come Sebastiano (Elio Germano), un PR viscido e senza scrupoli, Sabrina un’avvenente escort (Giulia Elettra Gorietti), Viola (Greta Scarano) la fidanzata tossicodipendente di Numero 8 e Manfredi (Adamo Dionisi) il capoclan di una pericolosa famiglia di zingari.” (dal presskit). 

Esistono almeno due modi di considerare Suburra: il primo - che rispecchia in maniera ragionevolmente fedele l’atteggiamento di chi scrive - consiste nel rimanere sostanzialmente indifferenti al cinema squadernato dal film: cinema bullo e romanocentrico, roboante e pieno zeppo di facce note, sempre uguale a se stesso perché sempre un po’ diverso. Un cinema che mette in scena lo spettacolo della morte ma perfettamente al riparo dalla morte dello spettacolo. Un cinema che racconta il racconto della corruzione pretendendo di raccontare la corruzione stessa. Cinema della mistificazione sistematica, della simulazione invulnerabile: anziché rielaborare la tragedia in narrazione, la spettacolarizza compiacendosi del proprio segno da farsa grottesca. Un cinema in cui ogni elemento è assoggettato e docilmente obbediente al primato della convenzione e della resa effettistica: celebrazione impeccabile di una credibilità esclusivamente stereotipata e caricaturale. Cinema dell’overacting anche quando - soprattutto quando - la recitazione assume pose trattenute e interiorizzate (vedasi Amendola). Cinema del dialetto capitolino come indice di veracità, cinema che scimmiotta modelli americani (Scorsese, Mann, Il cattivo tenente di Abel Ferrara) assimilando stilemi seriali e scaraventandoli in un’impaginazione da graphic novel. Cinema di dialoghi fieramente folkloristici, musiche di rinforzo e montaggi alternati di inossidabile dualismo (carezza e bacio al figlio dormiente, incatenamento e lancio del cadavere zavorrato). Cinema totalmente innocuo, infine, perché lascia lo spettatore esattamente dove e come si trovava prima di essere sequestrato per 130’. Risultato? L'indifferenza più imperturbabile. Questo l’atteggiamento di chi non accetta le regole del gioco postulate dal film di Stefano Sollima.

Il secondo modo, legittimo quanto il primo e forte degli stessi titoli di nobiltà (la facoltà di incanaglirsi liberamente è garantita dalla carta dei diritti dello spettatore), risiede nell’accettare più o meno consapevolmente le regole del gioco - altri le chiamerebbero senza esitazioni regole di genere - e godersi lo spettacolo sontuosamente allestito da Sollima, Petraglia, Rulli, Bonini e De Cataldo, abilmente spalleggiati dalla poderosa fotografia di Paolo Carnera (illuminazione e cromatismi di indiscutibile virtuosismo), dalle certosine scenografie di Paki Meduri (dall’emiciclo parlamentare alle stanze vaticane, passando per ville al neon o arredi sfarzosamente eclettici) e dal montaggio incalzante di Patrizio Marone (l’orchestrazione visiva della sparatoria nel supermercato, l’implacabilità della carneficina nelle baracche dei pescatori). Un atteggiamento, questo, che vedrà plausibilmente inverarsi in Suburra un affresco nero di sconcertante attualità in grado di reinventare la cinecriminalità italiana, trasportando sul grande schermo l’irruenza ritmica della migliore fiction e trascinando lo spettatore, con tecnica di rara maestria ma sempre al servizio dell’emozione e dell’intensità drammatica, nel melmoso abisso di un’Apocalisse che non salva niente e nessuno. Un universo marcio e dai giorni contati nel quale Favino, Germano e Amendola si superano letteralmente in prove attoriali da applausi a scena aperta, peraltro affiancati da impressionanti interpreti della nuova generazione quali Alessandro Borghi, Giacomo Ferrara, Giulia Elettra Gorietti e, soprattutto, Greta Scarano, che con la sua Viola dà vita a un personaggio indomito e tormentato capace di riparare i torti subiti con una vendicatività tanto furente quanto inesorabile. Una guerra senza quartiere e senza esclusione di colpi, infine, irrobustita dalle sonorità dream pop e shoegaze degli M83. Se si sta al gioco, insomma, ci si gode lo spettacolo di questa accattivante “Settimana dell’Apocalisse” con voluttuosa e più che soddisfacente adesione.

Un terzo atteggiamento, puramente ipotetico ma verosimilmente più interessante dei due sopra sbozzati, si lascia infine sollecitare (e solleticare) dalla massiccia presenza di segnali necrotici che, in maniera più o meno deliberata, costellano il corpo e i corpi di Suburra. Una fitta serie di ferite mortali inferte sul tessuto filmico che, colpendo senza pietà i corpi depositari di tradizioni cinematografiche e pratiche consolidate dell’audiovisivo, fanno piazza pulita delle concezioni incarnate da questi ectoplasmi in carne e celluloide. Si tratta di una lettura sintomatica che, praticando una sorta di necroscopia sulla salma Suburra, rileva una lunga lista di cadaveri eccellenti. Innanzitutto il cinema italiano dagli anni ’80 in poi, sacrificato nella doppia eliminazione di Antonello Fassari e Claudio Amendola: il primo suicida poiché incapace di comunicare col figlio Sebastiano/Germano (il dialogo tra i due è un campionario di incomprensioni più che un passaggio di testimone: “È stato uno sbaglio farti venire qui”, sussurra rassegnato Fassari), il secondo giustiziato con determinazione punitiva da Viola/Scarano, che liquida il tentativo di patteggiare in extremis del Samurai, palese residuo di una cinecriminalità ormai normalizzata, con un sarcastico “La prossima volta!”. Altro cadavere: le serie televisive, freddate con l’esecuzione di Numero 8/Borghi da parte di quello stesso cinema, il Samurai/Amendola, che soccomberà davanti all’unica sopravvissuta di questa ecatombe cinematografica. Il regolamento di conti non risparmia il cinema italiano contemporaneo, esemplarmente rappresentato dal binomio Favino/Germano: un cinema lasciato in vita soltanto formalmente ma severamente offeso sia sotto il profilo fisico (nell’impietosa e brutale animalità di Filippo Malgradi e nella repellente viscidità di Sebastiano) che sotto quello morale (Favino puttaniere strafatto e politico senza scrupoli, il giovane favoloso Germano convertito alle delizie del lenocinio e della delazione). Un bodycount cinematografico che, avvolto nel sudario di una recitazione smaccatamente necrofila e marionettistica, fa di Suburra uno slasher sotto mentite spoglie: Viola, finalmente trasfigurata in eroina da graphic novel, esce dall’inquadratura lasciando dietro di sé il vuoto, irrorato di pioggia e sangue.

Un ringraziamento a Elisa Schiavi per il suggerimento della terza chiave di lettura.

Pubblicata su www.spietati.it.

giovedì 8 ottobre 2015

SICARIO

 

“In una zona di confine tra Stati Uniti e Messico, dove la legge non conta, Kate (Emily Blunt) è un’agente dell’FBI giovane e idealista, arruolata dal funzionario di una task force governativa per la lotta alla droga (Josh Brolin) per compiere una missione speciale. Sotto la guida di un ambiguo e impenetrabile consulente (Benicio Del Toro) la squadra parte per un viaggio clandestino, costringendo Kate a mettere in discussione tutto ciò in cui crede per riuscire a sopravvivere.” (dal presskit). 






 
Se per il mind game movie Enemy si è resa necessaria una lettura dettagliata e approfondita, per Sicario, altro film di marcata impronta hollywoodiana alla stregua di Prisoners , non mette conto, secondo chi scrive, lanciarsi in elucubrazioni analitiche particolarmente sofisticate. Col settimo lungometraggio del cineasta canadese Denis Villeneuve ci troviamo precisamente in quella zona grigia che, per usare una formula convenzionale e risaputa quanto il film, suolsi definire “blockbuster d’autore” (una di quelle espressioni che non significano assolutamente nulla se non suggerire una paradossale e contraddittoria coesistenza nobilitante di concezione commerciale e tocco autoriale). Non che Villeneuve si impegni poco o che la vicenda di Kate (Emily Blunt), Matt (Josh Brolin) e Alejandro (Benicio Del Toro) non presenti elementi che chiamino in causa la sua principale ossessione (ancora una volta è il caso, inteso come coincidenza e destino, a decidere la sorte degli individui che si affannano inutilmente), ma la scrittura prefabbricata di Taylor Sheridan e l’inviolabile armatura spettacolare del film pregiudicano irrimediabilmente qualsiasi scarto sostanziale dalla norma a cui i thriller statunitensi ci hanno abituati (e assuefatti) ormai da decenni. Quando i dialoghi nelle stanze del potere somigliano a scambi da giardino d’infanzia e la questione di fondo che attraversa la pellicola si riduce alla trita domanda “Il fine giustifica i mezzi?”, c’è poco da fare: non rimane che affidarsi al fenomeno della persistenza retinica e disattivare le sinapsi.
Occorre tuttavia osservare che Denis Villeneuve possiede un indiscutibile talento visivo e, soprattutto, ha il dono di saper creare relazioni conflittuali tra spazio e personaggi che non sviliscono l’ambiente a semplice contenitore dell’azione: basti pensare alla lunga e determinante sequenza iniziale in cui avviene il ritrovamento fortuito della “casa della morte” (la casualità non è mai innocente nei film di Villeneuve, è sempre dominata da un principio superiore) o all’altrettanto corposa sequenza della trasferta a Juárez, nella quale l’ostilità latente che permea l’intero viaggio sfocia in uno scontro a fuoco egregiamente orchestrato. Ma questi pezzi di bravura, ai quali si stenta ad associare la parte notturna girata con le termocamere (di sapore smaccatamente videoludico, scaffale first-person shooter), s’incastonano nel film come sparute gemme su una montatura dozzinale, restando allo stadio di mero ornamento formale. Detto altrimenti, queste esibizioni di destrezza registica non coinvolgono lo stile inteso come trattamento complessivo della materia cinematografica (dalla scrittura alla postproduzione), ma si limitano ad abbellire la parte più esteriore e visibile della pellicola (non sorprende quindi che siano proprio queste due sequenze a essere sfoggiate orgogliosamente nel trailer ufficiale). Lo stesso dicasi per il soundtrack potente e tellurico, quasi industrial/noise in alcuni passaggi, di Jóhann Johansson e per la virtuosistica fotografia di Roger Deakins (alla seconda collaborazione con Villeneuve dopo Prisoners): anziché modellare in profondità la sostanza del film, vi si appiccicano esternamente come gradevoli motivi decorativi. Ciononostante, di fronte a una sceneggiatura che ammannisce a getto continuo situazioni di adamantina convenzionalità (il rapporto tra Kate e il partner Reggie, l’abbordaggio formidabilmente sospetto nel pub dell’irresistibile Ted, le continue e sempre più brutali strigliate di Matt, il regolamento di conti nella casa del boss messicano e, apoteosi finale, la minaccia a mano armata del dannato Alejandro), ogni tentativo di traghettare la pellicola verso destinazioni meno note e frequentate finisce per colare a picco insieme allo spettacolare blocco che trasporta. Presentato in concorso al 68º Festival di Cannes.

Pubblicata su www.spietati.it.

ENEMY



“Adam, un professore discreto, conduce una vita tranquilla con la fidanzata Mary. Il giorno in cui scopre il suo sosia perfetto nella persona di Anthony, un attore stravagante, sente una profonda inquietudine. Inizia allora a osservare a distanza la vita di questo uomo e della sua misteriosa moglie incinta. Poi Adam si mette a immaginare i più fantastici scenari per sé e la propria coppia.” (dal presskit).











Quella che segue non è una recensione, ma un'indagine interpretativa del film in questione. Si suggerisce caldamente la lettura soltanto a visione avvenuta, dal momento che l'indagine stessa, come ogni inchiesta degna di questo nome, non sarebbe stata possibile omettendo snodi centrali e passaggi salienti della trama. Detto altrimenti e più chiaramente, ciò che segue si rivolge esclusivamente a chi abbia visto il film e sia disposto ad avventurarsi - non dico a condividerla, non mi spingerei a tanto - nella mia proposta interpretativa.

Quinto lungometraggio del cineasta canadese Denis Villeneuve, Enemy conferma quanto ipotizzato nella recensione di Prisoners: mentre quest’ultimo era un film spettacolare e pressoché anonimo al servizio della macchina hollywoodiana, Enemy è una produzione canadese indipendente e, soprattutto, una pellicola inequivocabilmente personale (“il mio film più personale”, secondo le dichiarazioni di Villeneuve). Presentato l’8 settembre al Toronto International Film festival del 2013 a due soli giorni dalla proiezione di Prisoners e non distribuito in Italia, Enemy è la libera trasposizione cinematografica del romanzo L’uomo duplicato (2002) di José Saramago (pubblicato in Italia prima da Einaudi e poi da Feltrinelli con la traduzione di Rita Desti). Una trasposizione che lo sceneggiatore Javier Gullón, naturalmente in sintonia con Villeneuve, ha concepito all’insegna del tradimento letterale e della fedeltà sostanziale. Al di là di alcune variazioni più o meno rilevanti (spostamento geografico e cronologico, riduzione di alcune dinamiche relazionali, finale diverso e aggiunta del motivo simbolico del ragno), film e romanzo si specchiano difatti l’uno nell’altro pur mantenendo la loro singolarità e la loro autonomia (cosa che del resto avviene anche nella duplice vicenda raccontata).

Senza dilungarsi eccessivamente sul lavoro di adattamento, corre tuttavia l’obbligo di osservare che il romanzo di Saramago possiede una scrittura palesemente anticinematografica: non tanto per la carenza di elementi visivi o di una linea narrativa ben definita, quanto piuttosto per la sinuosità dello stile letterario. Abolendo la distinzione tra discorso diretto e indiretto e moltiplicando le contorsioni introspettive, lo stile di Saramago poggia il suo baricentro proprio in questa fluidità discorsiva che da una parte permette l’adozione di prospettive variabili (si entra ed esce dalla testa dei personaggi con la stessa disinvoltura con la quale, all’occorrenza, si sorvola l’universo descritto con uno sguardo disincarnato) e, dall’altra, impregna l’intero dettato narrativo della sensibilità tendente al farneticamento immaginativo del protagonista. Non si tratta, a rigore, di un vero e proprio flusso di coscienza, ma di un tappeto discorsivo apparentemente omogeneo che, se osservato da vicino, si rivela composto da fili che lo attraversano a diverse altezze e profondità. Malgrado la lunghezza del brano e a esemplificazione di quanto appena detto, mette conto riportare integralmente il passo del romanzo nel quale Maria da Paz (Mary/Mélanie Laurent nel film), la fidanzata di Tertuliano Máximo Afonso (Adam/Jake Gyllenhaal nel film), pronuncia la frase “Il caos è un ordine da decifrare”, frase posta in esergo al romanzo e attribuita a un immaginario Libro dei contrari da Saramago e collocata subito dopo il prologo con la telefonata materna nel film di Villeneuve.
[Per non appesantire ulteriormente la lettura, il corposo passaggio si trova nel seguente paragrafo.]

“Si sono separati lentamente, lei ha accennato un sorriso, lui ha accennato un sorriso, ma noi sappiamo che Tertuliano Máximo Afonso ha un'altra idea in testa, e cioè sottrarre alla vista di Maria da Paz, il prima possibile, i fogli rivelatori, per cui non c'è da stupirsi che l'abbia quasi spinta in cucina, Vai, vai a fare il caffè mentre io metto un po' di ordine in questo caos, e allora è accaduto l'inaudito, come se non desse importanza alle parole che le uscivano di bocca o come se non le capisse completamente, lei ha mormorato, Il caos è un ordine da decifrare, Cosa, cos'hai detto, domandò Tertuliano Máximo Afonso, che aveva già la lista dei nomi in salvo, Che il caos è un ordine da decifrare, Dove l'hai letto, da chi l'hai sentito, Mi è venuto in questo momento, non credo di averlo mai letto, e, quanto ad averlo udito, sono sicura di no, Ma come mai ti è venuta una frase del genere, Cos'ha di speciale questa frase, Moltissimo, Non so, forse perché il mio lavoro in banca si fa con cifre, e le cifre, quando si presentano mescolate, confuse, possono apparire come elementi caotici a chi non le conosca, eppure in loro c'è, latente, un ordine, in realtà credo che le cifre non abbiano senso al di fuori di un qualsiasi ordine si dia loro, il problema sta nel saperlo trovare, Qui non ci sono cifre, Ma c'è caos, sei stato tu a dirlo, Un po' di video fuori posto, nient'altro, E anche le immagini che vi sono dentro, le une accostate alle altre in modo da raccontare una storia, cioè, un ordine, e i successivi caos che formerebbero se le disperdessimo prima di riaccostarle per organizzare storie diverse, e i successivi ordini che così otterremmo, sempre lasciando dietro un caos ordinato, sempre avanzando in un caos da ordinare, I segnali ideologici, ha detto Tertuliano Máximo Afonso, poco sicuro che il riferimento venisse a proposito, Sì, i segnali ideologici, se vuoi, Dai l'impressione di non credermi, Non importa se ti credo o non ti credo, lo saprai tu cosa stai cercando, Ciò che stento a capire è come tu abbia fatto questa scoperta, l'idea di un ordine contenuto nel caos e che al suo interno può essere decifrato, Vuoi dire che in tutti questi mesi, da quando è iniziata la nostra relazione, non mi hai mai considerato abbastanza intelligente da avere delle idee, Macché, non si tratta di questo, tu sei una persona molto intelligente, eppure, Eppure, non hai bisogno di terminare, meno intelligente di te, e, chiaramente, mi manca la buona preparazione di base, sono una povera impiegata di banca, Smettila di ironizzare, non ho mai pensato che fossi meno intelligente di me, voglio solo dire che questa tua idea è assolutamente sorprendente, In me inaspettata, In un certo qual modo, sì, Lo storico sei tu, ma credo di sapere che i nostri antenati hanno cominciato a essere abbastanza intelligenti per avere delle idee solo dopo aver avuto quelle idee che li resero intelligenti, Ora te ne vieni fuori anche con i paradossi, passo da uno stupore all'altro, disse Tertuliano Máximo Afonso, Prima che tu finisca per trasformarti in una statua di sale, vado a fare il caffè, sorrise Maria da Paz, e mentre camminava nel corridoio che la conduceva in cucina stava dicendo, Metti in ordine il caos, Máximo, metti in ordine il caos.”, (pp. 88-89).

Ebbene, il difficile lavoro di riduzione (non a caso porta questo nome) compiuto da Gullón e Villeneuve è consistito essenzialmente nel ridurre all’osso la tendenza verbigerante che di fatto costituisce la forza espressiva del romanzo, oggettivando visivamente la duplice ossessione del protagonista senza l’ausilio di voci interiori o delucidazioni introspettive (e adesso sappiamo quanto siano importanti nell’economia stilistica del libro), sopprimendo totalmente il dialogo intimo e ininterrotto tra Tertuliano e il buon senso (autentico interlocutore non interpellato e rumoroso disturbatore dei soliloqui dell'uomo duplicato) e, infine, mantenendo in vita soltanto gli scambi verbali strettamente necessari allo sviluppo e alla comprensione del disegno narrativo. Il tutto senza frantumare o snaturare irrimediabilmente la struttura profonda del testo di partenza, una struttura saldamente imperniata sulla nozione di destino come forza inarrestabile che travolge le imbelli esistenze umane, presentandosi sotto forma di pura e semplice necessità: proprio quella necessità che, osserva Saramago, “è uno dei nomi che prende il destino quando gli conviene camuffarsi.” (p. 242) . È dunque solo a questo grado di profondità che la sovrapposizione tra necessità e destino si lascia vedere distintamente e afferrare con sicurezza. Ed è esattamente su questa riduzione all’osso - o meglio proprio in virtù di essa - che Villeneuve ha innestato le due grandi variazioni personali: l’ossessione del controllo collettivo (rappresentato dalla ripetizione dello schema repressivo adottato dalle dittature) e quella del controllo individuale esercitato dal subconscio, incarnato precisamente e reiteratamente dalla madre-tarantola (non sfugga la fonte d’ispirazione, riconosciuta dallo stesso Villeneuve, per la rappresentazione dell’enorme ragno che incombe sulla metropoli avvolta nello smog: la gigantesca scultura Maman di Louise Bourgeois).

Se è vero che entrambe le ossessioni, ancorché in maniera larvale o disseminata, si trovano già nel libro, è altrettanto vero che, nel film, queste si concretizzano figurativamente con impressionante incisività (dai fili aerei del tram che, intersecandosi, disegnano una tela sospesa ai graffiti seriali che, in stile Banksy, raffigurano silhouette di impiegati-cloni, passando per gli schemi tentacolari disegnati sulla lavagna dal professore di storia) e, soprattutto, assumono inflessioni squisitamente personali. L’ossessione repressiva acquisisce inquietanti tratti stereotipici, intrinsecamente legati al timore della ripetizione sterile e dell’involuzione creativa del cineasta stesso, e l’inquietudine per l’esigente autoritarismo materno si converte nella minacciosa e pervasiva presenza di ragni e ragnatele, caricandosi così di forti e allarmanti risonanze psichiche (peraltro totalmente assenti nella scultura di Louise Bourgeois, nella quale la madre-ragno rappresenta esclusivamente qualità positive come intelligenza, pazienza, utilità, protezione e via seguitando). Villeneuve non mente quando sostiene che il modo migliore per definire Enemy è quello di considerarlo come un “documentario sul subconscio di Jake Gyllenhaal”, ovviamente riferendosi al doppio personaggio da lui interpretato, e quando aggiunge che il film non è altro che “l’esplorazione dell’intimità maschile”, calcando ulteriormente la mano sulle dinamiche intrapsichiche messe in scena dalla pellicola.

Del resto è lo stesso Villeneuve, in un'intervista rilasciata a una testata canadese, a fornire una chiave di lettura psichicamente orientata: "È una storia molto semplice: è un uomo che decide di lasciare l'amante e tornare dalla moglie incinta. E noi vediamo la storia dal punto di vista del suo subconscio". Il che equivale a dire che si tratta non tanto della "storia di un uomo che…", quanto, più precisamente, della "storia del subconscio di un uomo che…". L'intero film, difatti, è costruito come un enigma, un puzzle o, più precisamente, come un mind game movie secondo la definizione formulata da Thomas Elsaesser e Malte Hagener in Teoria del film (Einaudi, Torino, 2009): "Il principio strutturale dei mind game movies consiste nel trascinare gli spettatori nel mondo del protagonista, e ciò in un modo che sarebbe impossibile se la narrazione guadagnasse distanza (…)", pp. 171-172. Una pellicola, insomma, la cui proprietà principale consiste nel giocare con lo spettatore e la sua percezione della realtà, ovviamente quella offerta dal film stesso: non è fortuito che Villeneuve indichi tra i suoi titoli preferiti film-enigma come Mulholland Drive, 2001: Odissea nello Spazio o L'inquilino del terzo piano, film che propongono immagini potenti sul piano emotivo e che, al contempo, ingaggiano gli spettatori nella ricerca di un significato che, naturalmente, non sarà mai lo stesso per ciascuno di loro. Quella tessuta da Enemy, insomma, è una ragnatela di segni (chiedo venia per l’immagine scontata) che, al di là del suo potere d'irretimento fascinatorio, suggerisce una meticolosa elaborazione psichica e reclama la formulazione di un'ipotesi interpretativa eminentemente mentale.

Impossibile, difatti, non scorgere nel personaggio duplicato interpretato da Gyllenhaal con finissima sensibilità attoriale e nella figura materna incarnata da Isabella Rossellini la rappresentazione delle tre istanze psichiche di un solo individuo: Es, Io e Super-Io. Se l’identificazione tra Anthony (attore infedele e lussurioso) ed Es è fin troppo pacifica, quella tra il bonario e monotono insegnante di storia Adam e l’Io, nonché quella tra la severa madre e il Super-Io, non sembra presentare difficoltà sensibilmente maggiori (basti pensare all’eloquente e perentorio dialogo nella casa-atelier della genitrice). Tuttavia il Super-Io impregna di sé, per proprietà transitiva, la maternità in quanto tale. Nel prologo, subito dopo la telefonata della madre, la presenza apparentemente immotivata di Helen (Sarah Gadon) al sesto mese di gravidanza, seduta sul letto e con lo sguardo rivolto verso la camera, non lascia spazio a dubbi: le due donne condividono lo stesso luogo psichico e le medesime funzioni mentali, vale a dire la disposizione all’ordine e la propensione al controllo (Helen, diffidente, fruga nei pantaloni del marito mentre lui dorme e, senza dire niente al coniuge, non si fa scrupolo di andare sul posto di lavoro del fantomatico sosia). Un’identificazione, quella tra le due donne, che si rinsalda nel prefinale, quando Helen, esplicita portavoce della madre, ricorda al marito che lei ha telefonato e che lui dovrebbe richiamarla: preludio più che comprensibile alla sconcertante trasfigurazione terminale in cui è Helen stessa a tramutarsi in tarantola, chiudendo definitivamente il cerchio superegoico femminile.

Dunque, alla luce di queste considerazioni, che cosa racconta Enemy? Senza dubbio ciò che asserisce Villeneuve (la storia del subconscio di un uomo che lascia l’amante e decide di tornare dalla moglie incinta), ma con la decisiva precisazione che per portare a termine il suo proposito uccide il proprio Es e si dà completamente in pasto al Super-Io. Lo spaventoso epilogo, nel quale Helen assume improvvisamente le fattezze della tarantola-madre ci mostra le conseguenze di questa soppressione autolesionistica: la mutilazione psichica praticata dal senso di colpa (l’uomo si scusa apertamente con la moglie, abbandonandosi completamente a lei) lo priva letteralmente del suo Es (alla richiesta di restare formulata da Helen, Adam visualizza, o meglio genera mentalmente, l’incidente in cui periscono Anthony e Mary). Sicché, quando si trova nuovamente in mano la possibilità della trasgressione (la chiave del club erotico nel quale lo abbiamo visto entrare all'inizio del film), non dispone più della complicità del suo Es, non può più effettuare la metamorfosi in Anthony: ormai è solo col suo Super-Io. L'ipotesi trasgressiva, al contrario e conseguentemente alla mutilazione avvenuta, scatena inevitabilmente la metamorfosi inversa: trasfigura Helen in tarantola, oggettivando plasticamente la sola istanza mentale con la quale il suo Io è - e sarà - costretto a confrontarsi. Lo sguardo conclusivo di Adam, intriso di rassegnazione anziché di stupefatto terrore, sigilla ermeticamente il suo orizzonte mentale e decreta la sua resa incondizionata. D’ora in poi l’insorgenza del pensiero trasgressivo produrrà, per contraccolpo e in mancanza di un’istanza che lo prenda in carico, la visione intimidita della tarantola-madre-moglie (paradossalmente a essere spaventato è proprio il gigantesco aracnide, segno che è perfettamente al corrente delle intenzioni dell’uomo).
Ricapitolando: sovrapposizione di necessità e destino da una parte (vero e proprio nucleo creativo del cinema di Villeneuve) e declinazione marcatamente intrapsichica delle dinamiche narrative dall’altra (nel libro Helena non è incinta e il finale differisce radicalmente, spostando l'intera narrazione più sul versante surreale che su quello mentale). Sono questi gli aspetti che il cineasta canadese sviluppa e interpreta personalmente nella trasposizione filmica.

Ispirandosi alla scabra essenzialità dell'architettura brutalista, un'architettura che privilegia volumi con cemento a vista e pone l’accento sulle nervature strutturali (il college nel quale insegna Adam è in realtà l'University of Toronto Scarborough Campus, uno dei numerosi esempi di brutalismo presenti nella metropoli canadese), l'estetica di Enemy possiede un'impronta tecnicamente granitica che consolida la continuità visiva (fotografia ambrata, movimenti di macchina lenti e misurati, illuminazione giallastra) e che, grazie alle frequenti riprese aeree, ricava da Toronto una spazialità massiccia e stilizzata al tempo stesso. “Toronto è una città molto cerebrale, è come un'idea”, ha affermato Villeneuve chiamando in causa Crash di David Cronenberg e Last Night di Don McKellar, i due soli titoli che a suo avviso hanno reso giustizia alla città. In Enemy questa affermazione si fa vigorosamente cinema, traendo il massimo partito dalla singolarità architettonica e urbanistica della metropoli canadese (troppo spesso usata per simulare scenari statunitensi), qualificandola integralmente come luogo mentale (non un solo spazio è scevro da risonanze psichiche) e, infine, facendo dell'intera vicenda il confronto implacabile tra un uomo e una città di vetro e cemento (l’inquadratura iniziale è una panoramica orizzontale sullo skyline di Toronto e i bellissimi titoli di coda passano in rassegna le prospettive e i giochi volumetrici disegnati dai grattacieli che torreggiano nella metropoli). Insieme a Polytechnique, altra pellicola incentrata sul confronto tra uomo e spazio, il miglior film del cineasta canadese.

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