martedì 9 giugno 2015

IL RACCONTO DEI RACCONTI - TALE OF TALES

"C’era una volta un regno… anzi tre regni vicini e senza tempo, dove vivevano, nei loro castelli, re e regine, principi e principesse. Un re libertino e dissoluto. Una principessa data in sposa a un orribile orco. Una regina ossessionata dal desiderio di un figlio. Accanto a loro maghi, streghe e terribili mostri, saltimbanchi, cortigiani e vecchie lavandaie sono gli eroi di questa libera interpretazione delle celebri fiabe di Giambattista Basile.

La Regina di Selvascura è disperata perché non riesce ad avere un figlio, e a nulla valgono i tentativi del Re di distrarla, invitando a corte artisti di strada e circensi. Una notte, un negromante suggerisce loro una soluzione assai rischiosa: mangiando il cuore di un drago marino, cucinato da una vergine, finalmente la Regina resterà incinta. Il Re riesce nell’impresa di uccidere il drago, ma a costo della vita: la Regina, però, può mettere in pratica quanto consigliato dal mago, e dà così alla luce il figlio tanto desiderato, Elias. Negli stessi istanti, anche un altro bambino viene al mondo: è Jonah, il figlio della sguattera che ha cucinato per la regina il cuore del drago, rimasta incinta aspirando i vapori dalla pentola… Elias e Jonah crescono, identici come gemelli, uniti da un affetto profondissimo: un legame che la regina cerca in ogni modo di spezzare, gelosa dell’amicizia che il proprio figlio nutre per quel “bastardo”…

Sempre alla ricerca di nuovi piaceri, il Re di Roccaforte ode una voce deliziosa provenire da una misera casetta sotto le mura del castello e, immaginando non possa appartenere che a una bellissima giovane, subito si invaghisce: invoca la fanciulla, le chiede invano di mostrarsi, le invia un regalo prezioso, convinto di ottenere presto i suoi favori. Non sa, il Re, che in quella casa non vive una giovane donna, ma due vecchie sorelle, due lavandaie: Imma, ingenua e dalla voce virginale, e la scaltra Dora, che vorrebbe approfittare dell’infatuazione del sovrano. Ma in che modo?

Un giorno il Re di Altomonte cattura una pulce e ne fa in segreto il proprio animale domestico: ci gioca, le parla, la vede crescere a dismisura, nutrita a sangue e bistecche fino a raggiungere le dimensioni di un maiale. Alla morte dell’enorme insetto, il Re, addolorato, lo fa scuoiare. Ha un’idea: concederà la mano di sua figlia Viola, che scalpita per lasciare il castello, a chi saprà riconoscere a quale animale appartenga quella pelle. Pensa, il sovrano, che nessuno riuscirà nell’impresa, e che in questo modo la figlia resterà per sempre al suo fianco: i pretendenti, infatti, falliscono tutti, uno dopo l’altro. Finché non si fa avanti un Orco che, con il suo fiuto infallibile, indovina che si tratta di una pelle di pulce. Terrorizzata, la giovane chiede al padre di salvarla, ma l’editto del Re non ammette deroghe: Viola sarà costretta a partire con il mostro…" (dal pressbook). 


Con Il racconto dei racconti, libera trasposizione di tre fiabe basiliane (La cerva fatata, La pulce e La vecchia scorticata), Matteo Garrone riesce nella difficile impresa di coniugare l’impronta spettacolare e sfarzosa del genere fantasy con la poetica che ha da sempre contraddistinto il suo cinema. Non si tratta soltanto di giustapposizione e coesistenza, ma di vera e propria compenetrazione estetica: sull’impianto figurativamente lussureggiante del fantasy, Garrone, spalleggiato da un gruppo di collaboratori di fulgido talento come Dimitri Capuani alle scenografie, Massimo Cantini Parrini ai costumi e Leonardo Cruciano al coordinamento degli effetti speciali, innesta in profondità il proprio repertorio di fantasmi e ossessioni, generando un peculiare ibrido che da una parte non tradisce alcuna soggezione nei confronti della materia letteraria di partenza e, dall’altra, non si lascia irretire dalla fascinazione per l’armamentario del genere. Detto altrimenti, dalle fiabe di Basile il film di Garrone trae il gusto per la descrizione immaginifica ma sempre ancorata al dato concreto e al dettaglio icastico; e dall’apparato visivo del fantasy ricava la vocazione creativa e ricreativa ma senza soccombere al decorativismo fine a se stesso.

A rigore, tuttavia, non ha molto senso parlare di trapianto integrale del fantasy in territorio italiano, poiché la raccolta di fiabe Lo cunto de li cunti, scritta in dialetto napoletano da Giambattista Basile e pubblicata postuma tra il 1634 e il 1636, si presta perfettamente e naturalmente al dialogo con la grammatica visuale del genere e, soprattutto, perché il lavoro di riduzione compiuto da Garrone e dagli altri tre sceneggiatori (Edoardo Albinati, Ugo Chiti e Massimo Gaudioso) non smarrisce affatto i legami con la vena materica e sensoriale dell’affabulazione basiliana, esaltandone al contrario gli aspetti fisici e sanguigni (basti pensare al pasto cardiaco di Salma Hayek, al nutrimento della pulce di Toby Jones o al cruento scorticamento di Shirley Henderson). Ad affermarsi progressivamente è insomma la dimensione fiabesca, una dimensione che, seppur depositandosi in forme di matrice fantasy (la trasformazione di Dora in creatura celestiale, la sorgente che sgorga dalla fenditura dell’albero, la vertiginosa caduta dell’orco nel burrone), non vanifica gli umori materiali e tangibili scaturiti dalla fonte letteraria a esclusivo vantaggio della fantasmagoria mirabolante. La meraviglia, fine per eccellenza della poetica barocca, mantiene in definitiva, nella pellicola di Garrone, un rapporto vitale e viscerale con una credibilità non smaterializzata dalla componente fantasy.

Sollecitato da motivi prevalentemente accidentali, chi scrive ravvisa una simile commistione di fantastico e realistico in alcune pagine di un libro totalmente estraneo alla tradizione italiana d’intrattenimento: L’uccello dipinto (The Painted Bird, 1965) di Jerzy Kosinski. Pur differendo enormemente dalle fiabe barocche di Basile tanto sotto il profilo cronologico quanto sotto quello narrativo, il calvario infantile vissuto dal protagonista del romanzo di Kosinski si sviluppa in pregevole equilibrio tra iperbole fantastica, magia popolare e verosimiglianza del cruore: una triangolazione espressiva chiaramente apprezzabile, ancorché declinata in modi nettamente distinti, nell’ottavo lungometraggio di Matteo Garrone (basti menzionare l’altezza spropositata del negromante, la subitanea gravidanza della vergine e della regina e, infine, lo sgozzamento dell’orco). Oltre a oggettivarsi nelle fattezze artigianali delle creature fantastiche - la plasticità del drago marino e della pulce rievocano il ventre gelatinoso del pescecane del Pinocchio (1972) di Comencini e le carcasse rambaldiane di Terrore nello spazio (1965) di Mario Bava -, la concretezza dell’imagerie che caratterizza Il racconto dei racconti si manifesta puntualmente nella grande quantità di dettagli dal sapore domestico come la giacca indossata da Jonah (Jonah Lees), gemello di Elias (Christian Lees), per recarsi nella camera della regina, i trastulli privati del re di Altomonte (Toby Jones) e il sistema di carrucole che permette alle due vecchie sorelle (Hayley Carmichael e Shirley Henderson) di ricevere il regalo del re di Roccaforte (Vincent Cassel) senza essere viste.

Se il registro estetico del film, sostenuto dalla fotografia cangiante di Peter Suschitzky e dal montaggio intrecciato di Marco Spoletini, si tiene in equilibrio tra dimensione fantastica e realismo, le alterazioni del Pentamerone rispondono a una doppia esigenza: potenziare la drammaticità delle narrazioni basiliane e, al contempo, accentuare le ossessioni squisitamente garroniane (il desiderio di possesso, il connubio tra amore e violenza, la ricerca esasperata della bellezza, la metamorfosi e la caducità dei corpi). Un esempio per ciascuna fiaba. Nel racconto La cerva fatata, divenuto La regina nel film, è il sovrano a desiderare ardentemente la gravidanza della moglie e, soprattutto, non è lui a uccidere il drago marino, ma sono cento pescatori mandati in mare a procacciarsi l’ambito cuore e portarglielo. La pellicola sposta invece il baricentro drammatico sulla sola regina (l’immersione del re e la successiva agonia sulla riva del fiume servono soltanto a mostrare la sua devozione nei confronti della sposa e, di contro, la sostanziale indifferenza per la morte del coniuge da parte della donna, interessata esclusivamente a impadronirsi del pulsante talismano), facendo di Salma Hayek una figura interamente dominata dal desiderio di maternità esclusiva.

Nella fiaba basiliana La pulce, a ferire a morte e decapitare l’orco non è Porziella, la figlia del re di Altomonte, (Viola/Bebe Cave nel film), ma uno dei sette figli della vecchia che si è offerta di soccorrerla (la circense Alba Rohrwacher nella pellicola di Garrone). A emergere dal diverso finale configurato dal film non sono soltanto l’intraprendenza e la determinazione di Viola, ma anche la necessità di un atto violento per liberarsi dal giogo amoroso: impossibile non ravvisare nella figura dell’orco un gigantesco e altrettanto possessivo doppio paterno. In altri termini, l’orco (Guillame Delaunay) tratta Viola con la stessa asfissiante sollecitudine con la quale il re di Altomonte trattava la pulce: un legame ossessivo, premurosamente autoritario e di soffocante cattività che, se non spezzato dalla violenza, non può che condurre alla morte dell’oggetto amato (è in questo senso che la decapitazione dell’orco coincide con l’affrancamento dall’autorità paterna e, soprattutto, con la conquista della sovranità soggettiva).

Nel cunto basiliano La vecchia scorticata, diventato Le due vecchie nell’adattamento cinematografico, il re di Roccaforte è sedotto non soltanto dalla misteriosa voce proveniente dal giardino sottostante, ma anche dalle continue lamentele espresse dalla voce stessa per qualsiasi inezia, lamentele così insistenti e leziose da indurre il sovrano a ipotizzare che sotto la sua reggia abiti “la quintessenza delle morbidezze”. Questa sfumatura psicologica, evidentemente tesa a suggerire la facilità all’infatuazione e la suggestionabilità del re, scompare del tutto nella sceneggiatura del film, venendo rimpiazzata dalla spiccata inclinazione alla voluttà, se non da una vera e propria erotomania, posseduta dal personaggio interpretato da Vincent Cassel. Meglio: nella pellicola non è tanto il personaggio del sovrano a possedere l’erotomania, quanto, al contrario, è l’erotomania a possedere - e scrivere - il personaggio. Se l’ipererotismo costituisce l’ossessione che attanaglia e guida il re, il desiderio chimerico della bellezza rappresenta invece l’aspirazione irrealistica che, fomentata dall’avidità, contagia e dirige le azioni delle due vecchie sorelle, conducendo Dora alla defenestrazione (e, nell’epilogo, all’irreversibile deterioramento) e Imma allo scorticamento volontario (eloquente allusione alla pratica dissennata della chirurgia estetica).

Siamo insomma in presenza di personaggi che, indipendentemente dal sesso, dall’età o dai titoli di nobiltà, risultano totalmente determinati da desideri ossessivi che causano conflitti e violenza (non sfugga, infine, che persino Viola, in apparenza vittima innocente della possessività paterna e della forza fisica dell’orco, è pesantemente influenzata e intimamente solleticata dalla letteratura romantico-avventurosa di tradizione cavalleresca). Personaggi eterodiretti, in una parola. E siamo, in definitiva, in pieno territorio garroniano, L’imbalsamatore attestandosi come termine di paragone più stringente e incisivo (desiderio che degenera in ossessione, gusto per il deforme, tendenza alla reificazione dell’oggetto amato, inscindibilità di amore e violenza, doppiezza dei personaggi). Garrone: “Definirei Il Racconto dei Racconti come un fantasy con incursioni nell’horror. In modo obliquo ma palpabile, questi due generi - il fantasy e l’horror - si intravedono, si respirano già nel mio percorso artistico precedente: ne L’imbalsamatore e in Primo amore gli accenti horror sono molto evidenti, in Reality il piglio fiabesco ispira sia la storia che lo stile; e persino in Gomorra, oltre il realismo delle situazioni, lo spirito di alcuni episodi è quello di vere e proprie favole nere. Se ci pensate, L’imbalsamatore - anche con i suoi accenti grotteschi e patetici - sembra proprio una favola di Basile: «C’era una volta un nano che imbalsamava dei grandi animali e si innamorò di un bellissimo giovane…»”.

Il racconto dei racconti pullula di doppi (i gemelli albini partoriti da due madri differenti, il re geloso e l’orco possessivo, le due vecchie sorelle) ed è proprio questa insistenza sullo sdoppiamento e sulla doppiezza, ovviamente già presente nelle fiabe basiliane, a neutralizzare la rassicurante convenzionalità di una lettura moraleggiante o normalizzante dell’adattamento cinematografico, rendendo l’ottavo lungometraggio di Matteo Garrone l’ennesima incursione nell’immaginario grottesco di personaggi che, riflettendosi e proiettandosi gli uni negli altri, vedono concretarsi ciò che vorrebbero essere e quello che sono - Jonah che indossa la giacca di Elias, trasformandosi provvisoriamente in principe; il re di Altomonte che, vedendosi “medusizzato” dalla testa insanguinata dell’orco, implora il perdono della figlia; Imma che, rispecchiandosi in Dora rigenerata, in un’inquadratura che le riprende di profilo a sottolinearne la beffarda specularità, non sta più nella pelle, alla lettera. L’intero discorso porterebbe alla questione dell’assimilazione inconsapevole di modelli estetici strettamente legati al potere (bellezza e sovranità, autoritarismo dello sguardo estetizzante), ma, per evitare sbrigative semplificazioni, conviene porre l’accento sull’elemento stilistico più tangibile della pellicola di Garrone: la durata delle inquadrature. Se, come ha più volte ripetuto il cineasta, questo film segue un percorso inverso rispetto alle pellicole precedenti (non più la trasfigurazione fantastica della realtà, ma l’opposto), la risorsa cinematografica che esemplifica con maggiore evidenza l’ancoraggio realista delle immagini risiede principalmente nella lunghezza delle inquadrature. Fin dalla prima sequenza, l’arrivo al castello di Selvascura (il castello di Donnafugata in Sicilia), Il racconto dei racconti mostra una spiccata predilezione per le inquadrature di lunga durata, cinematograficamente consistenti e temporalmente pesanti (donde la sensazione di una maggiore staticità rispetto alla frammentazione visiva convenzionalmente associata al genere). Una propensione al long take che, sebbene non rigida e totalizzante, ostacola la smaterializzazione digitale delle immagini (il lavoro sugli effetti speciali va nella stessa direzione) e promuove progressivamente il consolidarsi di una visione concreta, sanguigna e terragna. Presentato in Concorso al 68º Festival di Cannes.

Pubblicata su Gli Spietati.