mercoledì 20 maggio 2015

THE FIGHTERS - ADDESTRAMENTO DI VITA

“L’estate del giovane Arnaud si preannuncia tranquilla fino al momento in cui incontra Madeleine, bella, fragile e appassionata di allenamenti estremi e profezie catastrofiche. Arnaud non si aspetta nulla mentre Madeleine si prepara alla fine del mondo... Tra i due, nasce una storia d’amore e di sopravvivenza (o entrambe), fuori da ogni canone prestabilito” (dal pressbook). 











Prologo, tre atti, epilogo: questa la struttura drammaturgica di Les Combattants, discutibilmente tradotto in anglo-italiano con The Fighters - Addestramento di vita, pellicola d’esordio di Thomas Cailley. Classe 1980, il regista e sceneggiatore nato a Clermont-Ferrand arriva al lungometraggio dopo il pluripremiato corto Paris Shanghai (2010), road movie che racconta le peripezie di un viaggio meticolosamente programmato dalla Francia alla Cina in bicicletta (19210 km su due ruote, come si legge sul retro della maglietta di Manu, il protagonista). Scombussolata dall’apparizione traumatica di un altro personaggio, Victor, che travolge la bicicletta di Manu su una strada di campagna, la traiettoria narrativa di Paris Shanghai si flette verso un buddy movie che sposta le coordinate dell'itinerario dalla semplice dislocazione geografica all’occasione di un autentico incontro con l’altro. Analogamente a Les Combattants, infine, Paris Shanghai combina l’immersione ambientale e l’interazione di due personaggi conflittuali con la scoperta di una verità che nasce dalla rottura di un percorso rigidamente prestabilito.

Questo è stato il mio punto di partenza: l’idea di una campagna tranquilla con un lago calmo improvvisamente colpito da un tifone. Questo tipo di collisione, lo scontrarsi di due elementi contrapposti, è la visione che ho del rapporto tra Arnaud e Madeleine. Da quello ho immaginato il percorso di crescita di questi due personaggi così diversi e dalle personalità opposte, che alla fine si uniscono.

Girato in ordine cronologico per facilitare l’immedesimazione durante le sette settimane di riprese, Les Combattants propone nuovamente l’idea del contrasto tra i due personaggi principali come opportunità di apertura verso l’altro e la concezione del racconto come un viaggio avventuroso - all’inizio la placida stazione balneare, poi la precipitosa partenza per il corso militare e, infine, la fuga ribelle nella foresta. Un viaggio articolato in tre tappe in cui lo spostamento spaziale si accompagna a un progressivo allontanamento dalla quotidianità e dal realismo in favore di una dimensione sempre più connotata in chiave finzionale e utopica: se inizialmente la routine di Arnaud (Kévin Azaïs) viene scompaginata dalla tumultuosa irruzione di Madeleine (Adèle Haenel) che, come Victor in Paris Shanghai, travolge e sconvolge le sue sicurezze e i suoi programmi, lo stage di sopravvivenza dell’Armée de terre si rivela inadeguato alle radicali aspettative di Madeleine, rendendo l’esperienza dell’addestramento una delusione tanto cocente quanto insopportabile. Ai due personaggi, ormai legati dal comune disorientamento, non resta che abbandonare questo microcosmo già sensibilmente anomalo rispetto alla realtà di partenza e, scavalcata la rete di recinzione, spingersi in un territorio nel quale le strategie di adattamento non saranno imposte dall’alto ma verranno decise soltanto da loro. È in quest’ultimo spazio che Arnaud e Madeleine potranno finalmente agire e interagire senza ostacoli normativi (gli obblighi professionali e familiari per lui, le dogmatiche e inammissibili regole del campus per lei), stabilendo un autentico contatto - anche fisico - e creare un nuovo mondo, autonomo, isolato e fabbricato congiuntamente. 

Quando io e Claude Le Pape abbiamo scritto la sceneggiatura, volevamo evitare a ogni costo di presentare dei personaggi «malati» che il film avrebbe tentato di guarire. Il movimento del film non ha niente di psicologico. Arnaud e Madeleine non smettono mai di agire, avanzare, inventare. Sono sempre in movimento. Da qui il titolo “Les Combattants”.

Conformemente a questo percorso tripartito verso la finzione, il film rappresenta lo spazio come un vero e proprio prolungamento dei personaggi: nel primo atto a dominare è il paesaggio associato alla figura di Arnaud, un paesaggio stagnante e caratterizzato da una sostanziale piattezza (il lago costituisce a tutti gli effetti lo specchio naturale del personaggio), nel secondo è invece il dinamismo di Madeleine a riverberarsi nell’ambiente del campus militare, riflettendosi in un territorio più movimentato e accidentato (la regione del Béarn, nel sud della Francia a ridosso dei Pirenei, con la sua alternanza di zone pianeggianti, boschi e rilievi), mentre nel terzo, infine, è l’universo inventato dai due a imporsi, una dimensione quasi fiabesca che si traduce concretamente in una foresta delle Landes, regione in cui Cailley è cresciuto, caratterizzata da un terreno sabbioso in cui gli alberi non sono stabili e tendono a chiudersi sopra il fiume, creando uno scudo protettivo che isola Arnaud e Madeleine dal resto del mondo. Questa foresta-galleria diventa una sorta di spazio edenico: la fine del mondo ipotizzata e attesa da Madeleine si tramuta inaspettatamente in qualcosa di simile all’inizio del mondo, a una condizione primordiale e originaria. Persino la tavolozza cromatica della pellicola varia di atto in atto: curata da David Calley, fratello del regista, la fotografia asseconda l’idea del viaggio finzionale, passando dalle tonalità fredde e bluastre dell’inizio ai verdi punteggiati di nero e marrone della seconda parte per accendersi, nell’ultimo atto, con verdi brillanti, gialli dorati e chiarori diffusi.

Ho lavorato molto nelle fasi di preparazione col direttore della fotografia, mio fratello David Cailley. Il film raccontava il tragitto di due personaggi e anche la luce doveva raccontare questo tragitto. Non volevamo fare un film monocromo. La pellicola inizia con tonalità blu piuttosto fredde (il cielo estivo, la piscina, l’interno della discoteca). Nella seconda parte tocchi di giallo si mischiano al blu per dare il verde dell’esercito, al quale si mescolano toni neri e marroni. Dolcemente la luce si riscalda. Poi, nella terza parte, la dominante gialla si accentua nella foresta. I verdi si rischiarano, il fiume assume un colore dorato, esattamente come i corpi, e le notti sono illuminate da falò arancioni. Parallelamente, il quadro si fa sempre più mobile intorno ai personaggi e si apre su orizzonti più larghi, prospettive più ampie.

Ma il dato più significativo di Les Combattants, vincitore di svariati premi alla Quinzaine des réalisateurs di Cannes 2014 e ai César del 2015 (tra i quali migliore opera prima, migliore attrice per Adèle Haenel e migliore promessa maschile per Kévin Azaïs), risiede nella sua personalità stilistica. Nonostante sia un film accuratamente pensato (le dichiarazioni di Cailley ricavate dal dossier de presse lo testimoniano a sufficienza) e scrupolosamente pesato in ogni sua componente (basti pensare alla sequenza del soccorso finale, vera e propria deriva in territori fantascientifici, o all’uso delle sonorità elettroniche degli Hit’n’Run per dare una spinta supplementare alle immagini), Les Combattants non indulge in citazionismi o ammiccamenti cinefili, superando agilmente il complesso d’inferiorità che affligge spesso i film d’esordio e schivando con altrettanta disinvoltura il pericolo opposto, ovvero l’esibizione di stucchevoli e funambolici virtuosismi estetizzanti. Una singolarità cinematografica, quella messa in scena dal primo lungometraggio di Cailley, che, proprio in virtù della sua irriducibilità a modelli facilmente riconoscibili, può dialogare alla pari col cinema francese più maturo e celebrato senza essere schiacciato da paragoni altisonanti o raffronti umilianti. Al contrario e secondo chi scrive, l’equilibrio del registro stralunato, bizzarro e surreale che Les Combattants mantiene con immutata scioltezza per i suoi 98’ entra in risonanza involontaria - ma per questo ancora più avvertibile - con le pellicole del cinema greco contemporaneo (dalle pellicole di Yorgos Lanthimos, soprattutto Kynodontas, ad Attenberg di Athina Rachel Tsangari). E non solo per la capacità di generare un universo filmico tanto irrealistico quanto credibile in bilico tra grottesco e sentimento di catastrofe, ma anche per la propensione a trasformare gradualmente i personaggi da oggetti di puro consumo visivo in soggetti a pieno e agguerrito titolo.

Pubblicata su www.spietati.it.