giovedì 19 marzo 2015

P’TIT QUINQUIN






Un’indagine poliziesca stravagante, improbabile e burlesca condotta su strani crimini avvenuti nei pressi di un villaggio costiero del Boulonnais e su una banda di monelli guidata da P’tit Quinquin e dalla fidanzatina Ève (traduzione dal dossier de presse). 








Breve premessa non del tutto irrilevante: chi scrive ricorda troppo chiaramente le risate di scherno, gli applausi sarcastici e gli ululati fragorosi che accompagnarono la proiezione pubblica di Twentynine Palms a Venezia 60 per non nutrire una divertita perplessità nei confronti dell’entusiasmo suscitato dall’ultimo lavoro di Bruno Dumont. Corroborato da triviali messaggi affissi sul cosiddetto “muro delle stroncature” e ufficializzato da recensioni che definivano i protagonisti del film "due deficienti", il linciaggio riservato nel 2003 a Twentynine Palms fu letteralmente indimenticabile: i pochi spettatori che, alla fine di una proiezione piuttosto turbolenta, ebbero la malaugurata idea di applaudire il film vennero guardati con maliziosa supponenza e pietosa commiserazione o, addirittura, apertamente apostrofati come stupidi. Ebbene, nell’arco di dieci anni - e senza che una sola pellicola di Dumont successiva a Twentynine Palms sia stata distribuita in Italia - siamo passati dal pubblico ludibrio alla consacrazione cinefila ufficiale.

Anziché filmare qualcos’altro, mi sono rivolto verso me stesso e, finalmente, mi sono fatto la parodia (“P'tit Quinquin”: rencontre avec Bruno Dumont - Olivier Père - ARTE).

Eppure la perplessità non è del tutto giustificata, poiché, nonostante la momentanea adozione di toni più scanzonati rispetto al passato (con la maggiore fruibilità che ne deriva), P’tit Quinquin potrebbe essere tranquillamente considerato il primo lungometraggio di Bruno Dumont: il fatto che sia una miniserie conta soltanto per l’ampiezza della scrittura, l’impronta estetica complessiva restando palesemente inalterata (cinemascope, freddezza dell’impianto visivo, colori vivi e totale assenza di giallo nell’immagine). Detto altrimenti, P’tit Quinquin non si discosta troppo dalla prassi riepilogativa di Hors Satan: se il film-summa del 2011 radunava gli elementi disseminati nei film precedenti portandoli alle estreme conseguenze, la miniserie televisiva girata per Arte trascrive su uno spartito più lungo e in una chiave musicale alterata le note tipiche della composizione dumontiana. La chiave di questo pentagramma espanso è precisamente quella della parodia - o meglio dell’autoparodia grottesca. E dal momento che la parodia riposa sul procedimento della caricatura, ovvero l’esasperazione dei tratti caratteristici del modello, in P’tit Quinquin i connotati del cinema di Dumont si danno a vedere con inaudita chiarezza. Ecco perché si potrebbe considerare il suo primo lungometraggio: le forme visive, le configurazioni narrative e le ossessioni fondanti del suo cinema sono mostrate per la prima volta in modo ingigantito, inconfondibile e perfettamente leggibile.

A proposito di La vie de Jésus: Penso che la mancanza sia interessante, perché di fatto è una porta d’ingresso, una faglia, permette di entrare. […] Occorre, nella rappresentazione, trovare una faglia (Rencontre avec Bruno Dumont, “Mauvais genres”, 01/11/2014, France Culture).

Quinquin costituisce di fatto il personaggio maschile primordiale del cinema di Dumont: come non pensare a una versione infantile del Freddy di La vie de Jésus? Entrambi capibanda razzisti e attaccabrighe ed entrambi affetti da patologie (epilessia Freddy, ipoacusia Quinquin) che non intaccano minimamente la loro supremazia nel gruppo; entrambi scorrazzanti per le campagne del Nord-Pas-de-Calais su due ruote (Quinquin lascia cadere al suolo la sua bicicletta come Freddy la sua mobylette) ed entrambi legati sentimentalmente a figure femminili dai nomi primigeni (Quinquin-Ève, Freddy-Marie). Il commissario della “Gendarmerie nationale” di P’tit Quinquin rappresenta inoltre una versione infantilizzata e ancora più improbabile del tenente di polizia di L’Humanité (si noti, di passata, che ambedue portano i nomi di due pittori fiamminghi: Rogier van der Weyden e Pharaon de Winter) e, come Pharaon, ha un debole per le donne dei sospettati. Solo che, essendo un personaggio infantilizzato, non possiede ancora una sessualità completamente sviluppata e il suo desiderio non fa ancora differenza tra motociclette, corpi femminili e corpi equini (basti pensare alla voluttà con la quale, nell’ultimo episodio, accarezza il cavallo “boulonnais” del padre di Quinquin).

È la magia del cinema: poter oscillare dal visibile all’invisibile ed entrare nel cuore delle cose, nei misteri della nostra natura, nei luoghi più oscuri della contraddizione. Ci si riesce, di fatto, ma per equivalenze: non ci si arriva mai di fronte, impossibile. Ci si arriva sempre per la metafora e per le corrispondenze, unicamente attraverso le corrispondenze. In effetti il visibile corrisponde all’invisibile, è per questo che siamo toccati dal paesaggio. […] I miei personaggi passano il loro tempo a guardare o a mettersi sotto un bunker a osservare il mare, ma questo paesaggio significa qualcos’altro: non filmo la Manica, non è più la Manica” (Laure Adler s’entretient avec le cinéaste Bruno Dumont, “Hors-champs”, 26/11/2014, France Culture).

L’insistenza sul carattere infantile del comandante Van der Weyden non è affatto fortuita: l’intera miniserie riposa difatti sullo sguardo di Quinquin. Anzi, volendo andare più lontano, si può sostenere non troppo irragionevolmente che le vicende raccontate e rappresentate nei quattro episodi non siano altro che la messa in scena dell’immaginazione del piccolo Quinquin. Tornano in mente le dichiarazioni di Dumont a proposito di Flandres: “Penso che tutto il film non sia altro che la rappresentazione del fuoco del desiderio di Demester per Barbe e che il passaggio alla guerra sia innescato dalla rivalità con l’altro: la guerra non che è la messa in moto della rivalità nel desiderio. È per questo motivo che la guerra non si svolge da nessuna parte, perché è la volontà di distruggere il rivale. Demester desidera perdutamente Barbe, ma Barbe non è una donna per lui. […] La violenza, lo scatenamento omicida è la volontà assoluta di sopprimere il suo rivale e ottenere Barbe. […] È un film totalmente astratto, interiore” (Rencontre avec Bruno Dumont, “Mauvais genres”, 01/11/2014, France Culture). Come Flandres, dunque, P’tit Quinquin scaturisce dall’interiorità di un soggetto interno al film stesso, un personaggio che acquisisce lo statuto di protagonista non tanto per le azioni che compie, quanto in virtù dello sguardo che getta sulla realtà, riconfigurandola a suo uso e consumo. In un'intervista rilasciata il 2 gennaio a Philippe Vandel durante la trasmissione “Tout et son contraire” di France Info, alla domanda del conduttore radiofonico, sorpreso dal titolo dedicato a un personaggio tutto sommato marginale, Dumont risponde in questo modo: “Perché è l’eroe, è il ragazzino che è l’eroe e guarda svolgersi questa storia coi suoi grandi occhi stupiti. Dunque si tratta al tempo stesso della mescolanza di bambini e adulti, tutto ciò si mescola”. Incalzato dalla reazione meravigliata dell’intervistatore (“Per me è un personaggio ma non è l’eroe, non fa niente!”, esclama Vandel), il cineasta di Bailleul replica con sorridente serenità: “Ecco, è per questo che è l’eroe, perché non fa niente […] Guarda, dice sempre che ama la sua fidanzatina ed è tutto”.

Il processo cinematografico è un processo mistico di apparizione, è questa la messa in scena. (Laure Adler s’entretient avec le cinéaste Bruno Dumont, “Hors-champs”, 26/11/2014, France Culture).

I primi minuti di P’tit Quinquin sono ovviamente determinanti per individuare il procedimento di astrazione. Stante la caricaturale esemplarità della miniserie, l’inquadratura inaugurale ci mostra in tutta la sua grandezza il primum movens del cinema di Dumont: un piano di fondazione su un agglomerato rurale inquadrato in campo lunghissimo. In principio è lo spazio. Ma ogni film di Dumont nasce dall’incontro generativo tra uno spazio e un personaggio che lo abita e vivifica: gli incipit di L’Humanité, Twentynine Palms, Flandres e Hadewijch non lo testimoniano forse a sufficienza? La sequenza introduttiva ci mostra dunque il piccolo Quinquin che guarda, prima in semisoggettiva e poi in soggettiva, Ève e la sorella Aurélie oltre la cancellata che separa la loro fattoria dalla strada. Il colloquio di sguardi tra Ève e Quinquin ci dice già tutta la loro complicità e la corrente affettiva che li lega, ma per il momento siamo ancora in un reale non trasfigurato. La trasfigurazione si produrrà poco dopo, quando, chiamato dalla madre, Quinquin entra in casa, esce con la scodella di caffellatte - bevanda che nella simbolica dumontiana concretizza la mescolanza dei contrari - e, attraversata la stalla, appoggia la schiena alla parete per fare colazione in pieno sole, guardando dritto davanti a sé. La preparazione della soggettiva immediatamente successiva è inequivocabile e richiama con forza una situazione tipica nei film di Dumont (basti menzionare le sequenze iniziali di Flandres): inquadrato in mezza figura e con gli occhi socchiusi per via della luce particolarmente pungente del Nord, Quinquin fissa per alcuni secondi qualcosa davanti a sé. Un mucchio di letame in primo piano e, sullo sfondo, prati da pascolo e campi coltivati: è questo lo spazio soggettivo - uno spazio fertilmente vuoto - che il piccolo Quinquin riempirà con la propria immaginazione. Non più e non solo un paesaggio reale, ma un paesaggio eminentemente mentale: una faglia, una porta d’ingresso all’interiorità del personaggio.

Penso che il paesaggio filmato non sia più il paesaggio, è un paesaggio mentale (Laure Adler s’entretient avec le cinéaste Bruno Dumont, “Hors-champs”, 26/11/2014, France Culture).

A partire da questo istante, la rappresentazione sarà profondamente impregnata e permeata dell’interiorità di Quinquin, saturazione che peraltro rende perfettamente conto della tonalità infantile, della stravaganza dei crimini e della disarticolazione burlesca del racconto. Quinquin, insomma, è davvero il protagonista poiché si limita a osservare: la sua attività principale risiede effettivamente nel cucire insieme le varie sezioni narrative generate dalla sua attività visiva e immaginativa (non sfugga la puntuale apparizione del bambino all’inizio, nel bel mezzo o alla fine di ogni sequenza apparentemente autonoma o svincolata dal suo sguardo). Quinquin è fisicamente/finzionalmente onnipresente e questo lo rende a tutti gli effetti un auctor in fabula, perché di favola si tratta: l’intera vicenda poliziesca, giusto per fare un esempio macroscopico, prende avvio con l’apparizione magica di un elicottero sulla spiaggia, sorta di gigantesco insetto che invita i bambini a seguirlo. Ma possiamo andare ancora più lontano: l’indagine del commissario Van der Weyden e del suo strampalato aiutante Carpentier nasce da un desiderio preciso di Quinquin e da una situazione propizia all’ideazione narrativa. La situazione propizia è quella dell’inizio delle vacanze scolastiche (il padre di Quinquin, rimproverando al figlio il lancio nel vuoto della bicicletta, sbotta: “È il tuo primo giorno di vacanza ed è sempre così! […] Si direbbe che hai messo tutto sottosopra!”). Ozio, noia, tempo da perdere: “A cosa servono le vacanze se non si può non far niente?”, replica seccato Quinquin al padre che gli fa puntigliosamente notare che le vacanze non sono una giustificazione per bighellonare. E il desiderio, molto semplicemente, è quello di intrattenere e conquistare totalmente la fidanzatina Ève: Quinquin costruisce l’inchiesta poliziesca per lei, per avvincerla mentalmente e fisicamente (nell’ultima inquadratura della serie Quinquin la abbraccia con un’espressione visibilmente soddisfatta), provvedendo nel frattempo a sbarazzarsi della rivale Aurélie, la sorella di Ève che nella prima sequenza la teneva lontana da lui e che, agli occhi di Quinquin, rappresenta una minaccia, un fattore di disturbo, separazione e potenziale rottura del suo microcosmo ideale (un microcosmo a tenuta stagna in cui non c’è posto per stranieri, eccentriche ambizioni televisive o moleste invasioni mediatiche). Non diversamente dai film precedenti di Dumont, in definitiva, l’origine della tensione è l’amore ed è una rivalità a scatenare il conflitto che prende corpo nel racconto (ancora una volta Flandres s’impone come titolo di riferimento). Il discorso potrebbe continuare a lungo prendendo in considerazione la matrice fantastica del cinema di Dumont, una matrice che rifiuta l’intelligenza raziocinante in favore della “simbolica del caffellatte”, o insistendo sul carattere spurio dell’invenzione finzionale di Quinquin (la delucidazione dei procedimenti generativi della narrazione non si lascia ridurre alla retorica convenzionale del racconto: i personaggi di P’tit Quinquin sono al tempo stesso creature infantili e individui adulti che blaterano di Zola, Rubens e dell’immanenza del male). Ma questa recensione non ha la pretesa di illuminare complessivamente il cinema del regista di Bailleul, nutre soltanto la speranza di aver gettato una luce obliqua e singolare su una miniserie televisiva che, nonostante le apparenze, dialoga in profondità con tutto ciò che l’ha preceduta, derisione inclusa.

Pubblicata su www.spietati.it.