mercoledì 29 ottobre 2014

ANIME NERE

Se nasci in Aspromonte il tuo destino è spesso segnato, ma molti giovani cercano di intraprendere un cammino alternativo e vanno a vivere altrove. Sono però costretti a tornare al luogo d’origine dove le dinamiche sono criminali e l’insegnamento tramandato dalla famiglia, che loro stessi hanno assorbito, è spesso crudele e duro da accettare. Ad una situazione già difficile si aggiungono una realtà familiare fatta di affetti e contraddizioni e un paesaggio straordinario. Una storia incentrata sul male che definisce i rapporto tra gli uomini (dal sito della Biennale).








Liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Gioacchino Criaco («La storia che racconto - lui dice - è solo frutto di fantasia», si legge sulla seconda aletta di copertina), Anime nere raccoglie solo alcuni spunti del libro per addentrarsi nei meandri dei rapporti tra Luigi (Marco Leonardi), Rocco (Peppino Mazzotta) e Luciano (Fabrizio Ferracane), fratelli di una famiglia segnata dal sangue (l’uccisione del padre su un sentiero di montagna da parte di un rivale), dalla criminalità (il traffico di stupefacenti messo in piedi da Luigi e l’attività edilizia di Rocco a Milano, sovvenzionata dai proventi del commercio di droga) e dalle tradizioni dell’Aspromonte (Luciano, il fratello maggiore, è rimasto ad Africo e, prendendo le distanze dagli affari di Luigi e Rocco, coltiva la terra e alleva le capre senza nutrire ambizioni espansionistiche). A differenza del padre, Leo (Giuseppe Fumo), il figlio ventenne di Luciano, intende seguire le orme degli zii e, presa a fucilate la vetrina di un bar il cui titolare aveva osato gettare fango sulla reputazione della famiglia, parte nottetempo per Milano raggiungendo Luigi e Rocco. La ragazzata di Leo, come viene definita dal boss locale Nino Barreca a Luciano in una convocazione dai risvolti intimidatori, accende tuttavia la miccia di una reazione a catena che, ricondotta l’intera famiglia ad Africo per rafforzare il prestigio territoriale a dispetto della supremazia del clan Barreca, porterà all’inevitabile spargimento di sangue (di cui Luigi sarà la prima vittima).

Si diceva dei legami piuttosto flebili tra il romanzo di Criaco e il film di Francesco Munzi, affiancato alla sceneggiatura da Fabrizio Ruggirello e Maurizio Braucci: se difatti il libro, benché scritto per lo più in prima persona, possiede un andamento rapsodico (frequenti i cambi di prospettiva e le divagazioni storico-antropologiche) e un respiro assai ampio sia cronologicamente che geograficamente (dalle leggende arcaico-tribali al loro riverbero nella contemporaneità e dalla Locride a Milano passando per la Sierra Nevada, Creta, Torino, Roma, Monaco di Baviera e Parigi), la pellicola riduce sensibilmente la pluralità di punti prospettici (pur mantenendo un impianto corale, l’alternanza delle focalizzazioni si tiene stretta alla saga familiare senza traiettorie eccentriche) e si concentra su un arco piuttosto limitato di tempo e spazio (difficile ipotizzare un tempo del racconto superiore a qualche settimana, la linearità della narrazione restringendo inoltre il teatro dell’azione al triangolo Amsterdam-Lombardia-Aspromonte). Serrando tempi e spazi in modo sempre più marcato attorno ai legami di sangue e all’onore da difendere a ogni costo, Anime nere delinea progressivamente il proprio centro d’interesse: non tanto l’incontenibile avanzata dei “figli dei boschi”, come vengono chiamati nel romanzo, alla conquista del mondo criminale (“Eravamo tutti simili, mossi irrefrenabilmente da una forza spropositata che ci portava a sostituire gli ormai spenti napoletani e siciliani che ci avevano preceduto”, p.102), quanto, più precisamente, l’indagine di una forma di pensiero e azione profondamente radicata in un territorio definito ma ancor più profondamente alimentata da logiche cristallizzate nella tradizione.

Non è fortuito, dunque, che il gesto estremo col quale Luciano tenta d’interrompere il meccanismo ciclico e autoperpetuantesi della vendetta sia anticipato dal rogo, questo sì davvero folle e incomprensibile nell’ottica tradizionale, delle fotografie di famiglia (tra le quali quella del padre ucciso). Per spezzare il cerchio punitivo non è sufficiente celebrare il culto della terra rinunciando all’avidità e accantonando le fantasie di grandezza (quando Luigi, nei panni del diavolo tentatore, gli propone il possesso di tutta la montagna, Luciano risponde che non saprebbe che cosa farsene e che gli basta ciò che ha), occorre anche e soprattutto distruggere quella parte di memoria in cui l’odio si è sedimentato e vistosamente coagulato, seguitando ad alimentare i propositi vendicativi. Odio tramandato e oblio agognato sembrano insomma riassumere le due tensioni fondamentali di una pellicola che, se da una parte sviluppa con ammirevole rigore l’esplorazione in profondità di un’abitudine mentale e sociale all’ostilità e alla violenza, dall’altra evidenzia più di una volta la difficoltà altrettanto palese nel saldare scavo antropologico e progressione narrativa: non un solo elemento risulta svincolato dall’esigenza di significare a chiare lettere il proprio ruolo all’interno della narrazione e dall’obbligo di trovare una collocazione nel quadro d’insieme. Restrizione categorica e sistematica che in più occasioni finisce per svilire l’azione a semplice funzione determinativa (basti pensare alla sequenza dell’esecuzione di Luigi, preceduta da una passeggiata notturna che è già cronaca di una morte annunciata), la recitazione a ostensione dimostrativa (la sequenza della cerimonia funebre col conseguente colloquio di sguardi tra Rocco e Luciano) e la rappresentazione a esposizione illustrativa (persino una capra che guarda in macchina diviene emblema del caos incipiente). E se la fotografia desaturata di Vladan Radovic dialoga efficacemente con le sonorità rarefatte e vibranti di Max Richter (“Summer 2” e “Winter 3”) o con l’ampiezza malinconica dei Set Fire to Flames (“Steal Compass/Drive North/Disappear”), il compasso estetico del film fatica spesso ad aprirsi a un’interazione con l’ambiente non strettamente e rigidamente funzionale al disegno narrativo. È infine opinabile parere di chi scrive che sia ancora Il resto della notte ad attestarsi come l’esito più equilibrato e incisivo raggiunto finora del quarantacinquenne cineasta romano.

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sabato 18 ottobre 2014

PASOLINI

La notte del 2 novembre 1975 a Roma viene ucciso Pier Paolo Pasolini. Ha 53 anni. Pasolini è il simbolo di un’arte che combatte contro il potere. Ciò che scrive scandalizza, e i suoi film sono perseguitati dai censori; in molti lo amano e in molti lo odiano. Il giorno della sua morte, Pasolini ha passato le sue ultime ore con l’adorata madre e più tardi con i suoi amici più cari, fino a quando non esce nella notte in cerca di avventure con la sua Alfa Romeo. All’alba viene trovato morto su una spiaggia di Ostia, nella periferia della città.









La prima domanda che viene da porsi guardando Pasolini è anche quella più banale e insidiosa: che cosa ha spinto Abel Ferrara a girare un film su uno degli intellettuali italiani più controversi e celebrati del XX secolo? Ovviamente, per evitare le secche dello psicologismo, occorre subito riformulare l’interrogativo, spostando risolutamente l’accento sul film stesso (a domande del genere sono sempre e soltanto i testi a rispondere, inutile lanciarsi in audaci congetture sulle cosiddette intenzioni dell’autore). Quindi: che cosa, in questo film e al di là degli aspetti biografico-cronachistici, si salda alla poetica ferrariana? Detto più chiaramente: qual è l’ossessione fondamentale che abita il Pasolini di Ferrara? Formulata in questi termini, la domanda non è così ovvia: se consideriamo la replica alla domanda rivoltagli nell’ultima intervista televisiva (rilasciata il 31 ottobre 1975 a Parigi), l’attività letteraria sembrerebbe incarnare integralmente questa marca ossessiva, riassumendo in sé gli altri tratti espressivi:
- Qual è la qualifica professionale che preferisce: poeta, romanziere, dialoghista, sceneggiatore, attore, critico, regista?
- Nel passaporto scrivo semplicemente scrittore.

Invece il mio dovere di scrittore è quello di fondare ex novo la mia scrittura: e ciò non per partito preso, anzi, per una vera e propria coazione a cui non posso in alcun modo oppormi.
(“Petrolio”, p.48)

In realtà il Pasolini di Ferrara - e in questo senso la giustezza del ritratto filmico ha dell’impressionante, indiscutibile apporto di una sceneggiatura libera e avvertita - non ha i connotati dello scrittore canonico concentrato esclusivamente sulla sua opera, ma spazia in più ambiti espressivi: letteratura, certo, ma anche critica sociale, impegno politico-culturale e, soprattutto, cinema. Di fatto è proprio il cinema a occupare uno spazio sempre più rilevante nella sua produzione, come si evince del resto dalle dichiarazioni contenute in una pellicola che dialoga intimamente col film di Ferrara: Pasolini prossimo nostro (Giuseppe Bertolucci, 2006). Qui, nella lunga intervista rilasciata a Gideon Bachman sul set di Salò durante le riprese finali del film, Pasolini pronuncia parole di tenore sensibilmente diverso rispetto alla supposta supremazia letteraria, ma a ben vedere non incompatibili con la pratica significante della scrittura, sebbene esercitata su lingue - ma sarebbe più pertinente parlare di materie dell’espressione - diverse. Quello che conta, insomma, è salvaguardare l’esigenza espressiva, la necessità, sempre più minacciata e circoscritta, di operare a un livello non sovrastrutturale con la realtà, aggirando il più possibile il discorso del potere, entrando in relazione profonda con la sostanza del mondo: “Non scrivo più come prima, il che equivale a dire che non scrivo più. In principio, quando ho cominciato a fare cinema, ho pensato che fosse solo l’adozione di una tecnica diversa, direi quasi di una tecnica letteraria diversa. Poi, invece, mi sono reso conto, pian piano, che si tratta dell’adozione di una lingua diversa. Quindi ho abbandonato la lingua italiana, con cui mi esprimevo come letterato, per adottare la lingua cinematografica. Ho detto varie volte, per protesta, contestazione totale, che avrei voluto rinunciare alla nazionalità italiana. Facendo del cinema ho rinunciato alla lingua italiana, cioè alla mia nazionalità. Ma la verità è un’altra, forse più complicata e profonda: la lingua esprime la realtà attraverso un sistema di segni. Invece, il regista esprime la realtà attraverso la realtà. Questa è forse la ragione per cui mi piace il cinema e lo preferisco, perché esprimendo la realtà come realtà opero e vivo continuamente a livello della realtà.”

Vorrei mimare l’ecolalia, essere fàtico, fàtico,
e così esprimere, al grado più basso, il tutto.

(“Propositi di leggerezza”, in “Trasumanar e organizzar”, p.60)

Non mette conto sottolineare in questa circostanza l'ingenuità della concezione teorica pasoliniana, pacificamente ascrivibile alla stortura semiologica convenzionalmente definita “fallacia del referente” (vale a dire la confusione tra significato e referente nella funzione segnica). Ciò che importa, invece, è rilevare quanto la pulsione espressiva tenda ad abbattere le barriere tra una sfera creativa e l’altra o, in termini pasoliniani, tra una lingua e l’altra. È questa stessa tensione, per inciso e secondo chi scrive, a sostanziare il plurilinguismo del film: il passaggio tra i vari idiomi non allude semplicemente alla dimensione internazionale dell’intellettuale, ma suggerisce una vera e propria vocazione panlinguistica, una propensione alla libera frequentazione di domini linguistici di natura diversa. Non inganni, quindi, l’opposizione tra letteratura e cinema. Del resto questo momento della vicenda biografica pasoliniana vede sfumare i confini tra una sfera espressiva e l’altra (la lettera a Moravia parzialmente riprodotta nel film testimonia la riformulazione dello stesso progetto letterario, facendo del rapporto tra autore e opera il cuore stesso dell’elaborazione romanzesca: “Ho reso il romanzo oggetto non solo per il lettore ma anche per me: l’ho messo tra il lettore e me, e ne ho discusso insieme”), non esclusa quella squisitamente esistenziale e affettiva (basti pensare all’ultima intervista domestica o alla sequenza in cui gli spunti figurativi di Porno-Teo-Kolossal sono sbozzati al tavolo della trattoria). Ripetiamolo: ciò che importa davvero è l’espressione, non l’ambito materiale in cui essa si manifesta.

(…) tutto ciò che io vi riferirò, non è apparso nel teatro del mondo ma nel teatro della mia testa, non si è svolto nello spazio della realtà ma nello spazio della mia immaginazione, non si è, infine, concluso secondo le regole contraddittorie del gioco dell’esistenza, ma si è concluso secondo le regole contraddittorie del gioco della mia ragione.
(“Petrolio”, p.413)

È in questo senso che la scrittura, svincolata dalla semplice fissazione dei segni verbali sulla pagina, può compiutamente configurarsi come pratica significante autonoma e pervasiva, come espressione suscettibile di trasferirsi dalla pagina allo schermo, dal verso al corpo. La stessa morte di Pasolini diviene, nella rappresentazione filmica ferrariana, fatto di scrittura, fatto espressivo: anziché tentare la fuga o assumere un atteggiamento remissivo, egli si oppone agli aggressori con la stessa disperata e rovinosa fermezza con la quale si opponeva, nelle sue opere, alla ferocia del pensiero dominante. Davvero qualcuno potrebbe supporre che queste figure sbraitanti sbucate dalla notte ostiense non siano emanazioni di quello stesso pensiero, anzi, per usare un termine tanto raccapricciante quanto calzante, di quella stessa mentalità? Chiamiamola pure come vogliamo (fascismo, oscurantismo, perbenismo, bullismo e altri -ismi altrettanto parziali e inessenziali): resta il fatto che Dafoe/Pasolini vi si oppone e opponendosi soccombe. Ma è anche soccombendo a queste forze dell’uniforme che lascia su di noi una macchia indelebile: non diversamente dal Deveraux di Welcome to New York, per quanto l’accostamento possa suonare blasfemo e irriverente, sulla spiaggia dell’Idroscalo di Ostia (così come sulla carta o sulla celluloide), il Pasolini di Ferrara “non cede sul proprio desiderio”. E, spingendo oltre l’interpretazione, in questa letale opposizione s’indovina addirittura la condensazione del dramma pasoliniano messo in scena da Ferrara: prendere posizione contro il criptofascismo dominante significa sì esprimersi (e quindi inverare uno slancio vitale), ma al tempo stesso significa piazzare la propria esistenza sotto l’ipoteca della morte. Nell’antagonismo dell'espressione, insomma, si condensano impulsi vitali e pulsione di morte, azione e coazione.

Torniamo però al dialogo tra Pasolini e Pasolini prossimo nostro. A molti - e a ragione - non è affatto sfuggita la clamorosa analogia tra l’intellettuale italiano e il cineasta newyorkese generata dall’affermazione “farei film anche se fossi l’ultimo uomo sulla terra. O faccio film o mi suicido”, affermazione incastonata nell’intervista rilasciata a Furio Colombo da Pier Paolo Pasolini poche ore prima di essere assassinato (incastonata poiché nell’intervista originale non vi è traccia di un’affermazione del genere). L’analogia con la prassi cinematografica ferrariana è così forte che potremmo pensare a un’aggiunta vera e propria, qualcosa come una licenza (di) poetica. In realtà, si tratta ancora una volta di farina pasoliniana, semplicemente travasata da un’intervista all’altra. La suddetta dichiarazione si trova, con lievi differenze, nella pellicola di Bertolucci: “Continuerei a fare lo stesso, prometto, il cinema, anche se la libertà fosse solo da parte mia e si esaurisse con l’espressione. Forse lo continuerei a fare lo stesso perché ho bisogno di farlo, mi piace farlo e lo farei. O mi suicido o lo faccio”. La conclusione del passaggio in questione è altrettanto cruciale: “Cioè, a un certo punto, io facendo un film mi esprimo. Se poi questa mia espressione viene completamente alienata e meccanizzata, vabbè pazienza, io intanto mi sono espresso il più possibile liberamente”. Difficile equivocare: a essere irrinunciabile non è tanto il cinema in sé, quanto, più profondamente, l’opportunità che esso offre di esprimersi. Ed esprimersi “il più possibile liberamente” per giunta: libertà irrimediabilmente parziale e inevitabilmente condizionata (dalle materie manipolate in primo luogo), certo, ma cionondimeno non circoscrivibile a un solo campo linguistico né a un codice specifico.

Qualsiasi opera avviene nel mistero.

In quest’ottica performativa della scrittura che, non è superfluo ricordare, è anche scrittura filmica, tornano in mente le parole di Linguaggio e cinema di Christian Metz, un libro che, nonostante i suoi quarantatré anni, continua a fornire spunti critico-teorici tutt’altro che irranciditi: “la scrittura non è né un codice né un insieme di codici, ma un lavoro sui codici, a partire da essi, contro di essi, lavoro il cui risultato provvisoriamente “fermato” è il testo, ossia il film: perciò la chiamiamo filmica” (pp.291-292). Se questa concezione estensiva, dinamica e antagonista della scrittura si presta perfettamente a delineare il tumultuoso percorso espressivo di Pier Paolo Pasolini, essa si adatta altrettanto agevolmente al magma audiovisivo messo in scena da Ferrara, un delirio organizzato che s’irradia scompostamente seguendo le linee di fuga che l’universo pasoliniano proiettava sull’avvenire. Dal montaggio di Salò (ancora una volta il film nel suo processo di composizione) all’iconografia ipotetica e trasandata di Porno-Teo-Kolossal (pellicola che nasce sulle ceneri di un progetto incompiuto e che si rifiuta letteralmente di finire), passando per le visioni dei frammenti di Petrolio (Il pratone della Casilina; L’Epochè: Storia di un uomo e del suo corpo), Pasolini non fa che ripetere incessantemente questa verità paradossale: esprimersi significa al tempo stesso vivere e morire. Ed è proprio in questo senso che il Pasolini di Pasolini è ferrariano e il Ferrara di Pasolini pasoliniano: nella condivisione di un’affine pulsione espressiva che è al tempo stesso slancio vitale e ipoteca di (auto)distruzione, indipendentemente dal livello e dalla sfera in cui l’espressione stessa - la scrittura dei sensi - si materializzi.

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martedì 14 ottobre 2014

THE LOOK OF SILENCE

The Look of Silence, seguito del documentario drammatico The Act of Killing, analizza ancora il tema del genocidio in Indonesia, le purghe anticomuniste del 1965, affrontandolo da un'altra prospettiva. The Look of Silence offre una visione della tragedia da parte delle vittime, in particolare segue la storia di un uomo sopravvissuto, il cui fratello è stato torturato fino alla morte durante la rivoluzione da un gruppo di ribelli; storia già raccontata dal punto di vista degli assassini nel documentario del regista The Act of Killing. In The Look of Silence si osserva la famiglia dell’uomo ucciso, in particolare il fratello minore, che decide di incontrare gli uomini che hanno massacrato uno di loro (dal sito della Biennale). 






"Let the past be past" is a dishonest sentence if there is no acknowledgement of what the past is and what it means (Joshua Oppenheimer).

Verso i tre quarti della versione lunga (159’) di The Act of Killing, inquadrato in primo piano dalle telecamere di una rete televisiva indonesiana, uno dei leader del gruppo paramilitare Pancasila Youth dice a chiare note: “Non ci sarà nessuna riconciliazione, poiché quello che è accaduto è storia. La storia è dovuta andare in questo modo, sicché non c’è alcuna riconciliazione”. Ciò che il comandante in questione pronuncia con sbruffonesca magniloquenza è esattamente quella stortura che Raymond Aron, nell’Introduzione alla filosofia della storia, ha definito “illusione retrospettiva di fatalità”, ovvero la concezione secondo la quale gli eventi procedono in una direzione rigorosamente predeterminata e ineludibile. E in The Look of Silence una proposizione simile (“il passato è passato”) torna come un mantra sia nelle arroganti dichiarazioni degli aguzzini che nelle intimidite testimonianze dei sopravvissuti. Ebbene, il punto cruciale del dittico indonesiano di Joshua Oppenheimer sta precisamente qui, nella confutazione di questa tautologia mistificatoria che cristallizza il passato in un luogo totalmente separato dal presente ed ermeticamente chiuso. Si tratta di una posizione che confina con l’amnesia vera e propria, con l’oblio coatto e rinunciatario che sottrae il passato alla rivisitazione critica e al giudizio morale.

La tautologia semplificatoria e deterministica è profondamente radicata nell’opinione comune: il passato è passato e non può più essere modificato, non abbiamo più potere su ciò che è stato. A sgretolare irrimediabilmente questa posizione deresponsabilizzante e in fondo acquiescente è Paul Ricoeur in Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato (Il mulino, Bologna, 2004). La considerazione del passato come un deposito di fatti immutabili e intoccabili coglie solo una parte di verità (quella legata al carattere indelebile di ciò che è stato), ma al tempo stesso blocca ogni tentativo di reinterpretazione del senso degli eventi, del loro peso morale alla luce del presente e, soprattutto, del futuro: “Se, infatti, i fatti sono incancellabili. se non si può più disfare ciò che è stato fatto, né fare in modo che ciò che è accaduto non lo sia, in compenso il senso di ciò che è accaduto non è fissato una volta per tutte; oltre al fatto che gli avvenimenti del passato possono essere interpretati altrimenti, il carico morale legato al rapporto di colpa rispetto al passato può essere appesantito oppure alleggerito, a seconda che l’accusa imprigioni il colpevole nel sentimento doloroso dell’irreversibile, oppure che il perdono apra la prospettiva di una liberazione dal debito, che equivale a una conversione del senso stesso del passato” (pp.92-93).

E il progetto del perdono come retroazione del presente (e del futuro) sul passato è ciò che sta alla base del dittico di Joshua Oppenheimer: se The Act of Killing ha scoperchiato l’enormità del massacro avvenuto in Indonesia tra il 1965 e il 1966 assumendo un’ottica prevalentemente retrospettiva (lo spettacolare reenactement degli interrogatori, delle torture e delle esecuzioni ai danni dei comunisti o presunti tali), The Look of Silence adotta invece un punto di vista saldamente ancorato nel presente. Perché solo un’ottica fissata nell’oggi dei figli (il protagonista del documentario è Adi, nato nel 1968 e fratello minore di una delle vittime più raccontate e ricordate del massacro dello Snake River) può rivisitare l’eccidio mettendolo in relazione a un domani di riconciliazione, soltanto uno sguardo non accecato dalla paura del passato è in grado di concepire un futuro di riavvicinamento tra individui che il presente vuole animosamente separati. Anzi, proprio in virtù di questo ancoraggio nel presente, il timore si converte in risorsa esplorativa, concentrazione investigativa, esattezza delle domande. Girato nel 2012 dopo la fine di The Act of Killing ma prima della sua proiezione pubblica (ciò che vediamo nel secondo documentario non si sarebbe potuto filmare una volta scoperchiato il vaso di Pandora, lo scalpore destato lo avrebbe reso impossibile), The Look of Silence è stato realizzato in condizioni di pericolo costante: la troupe dei faccia a faccia con gli assassini ancora al potere comprendeva esclusivamente individui danesi dai cui cellulari erano stati rimossi i numeri memorizzati per salvaguardare incolumità e anonimato dei collaboratori indonesiani, Adi circolava senza documenti, gli spostamenti erano effettuati con due automobili per facilitare la fuga in caso di inseguimento e, infine, la famiglia di Adi è stata trasferita a migliaia di chilometri per metterla al riparo da sicure rappresaglie.

Negli spinosi confronti tra chi ha partecipato direttamente o indirettamente alla carneficina di cinquant’anni prima e Adi, ottico quarantaquattrenne che s’incarica di preparare occhiali per i suoi interlocutori, la sensazione di minaccia incombente è sovente palpabile e talvolta dichiarata (il leader del Commando Aksi, braccio armato delle milizie regolari incaricato di effettuare concretamente lo sterminio, lo incalza con domande mirate a scoprire da quale villaggio viene e che tipo di attività cospiratoria svolga), ma la compassata ed empatica fermezza dell’optometrista tiene a bada l’aggressività strisciante, impedendo che i colloqui degenerino in livorose requisitorie e reazioni violente. Le domande sulle reali responsabilità dell’ecatombe e le richieste di riconciliazione di Adi s’infrangono immancabilmente contro la resistenza degli anziani esecutori a riconoscere il significato morale delle loro azioni e contro l’omertà degli altrettanto anziani abitanti del luogo. Il paradosso è questo: gli esecutori non nascondono di aver partecipato alla carneficina, al contrario - come già accadeva in di The Act of Killing - si vantano dell’efficienza del loro modus operandi, illustrando nel dettaglio e con compiaciuta sbruffoneria le procedure del massacro dello Snake River. Il motivo di questa vanagloria è semplice: i mandanti sono saldamente al potere e loro beneficiano ancora dei privilegi ricevuti per l’obbedienza dimostrata (si noti di passata che in The Look of Silence si trova il nucleo generatore di entrambi i documentari: le riprese, effettuate nel febbraio del 2004, in cui due leader degli squadroni della morte portano Oppenheimer su una sponda dello Snake River, teatro di oltre 10000 esecuzioni tra cui quella di Rumli, rievocando vivacemente le modalità di sterminio e mettendosi infine in posa, sorridenti e vittoriosi, per scattare delle foto ricordo).

Tuttavia, quando si tratta di passare dall’aspetto procedurale a quello morale, le cose cambiano radicalmente: le responsabilità personali stanno sempre altrove, dislocate nelle ramificazioni del potere, diluite nell’egida dell’esercito regolare e giustificate dall’indiscutibilità degli ordini. Impossibile fare breccia in questa corazza legittimata dall’alto. Non è fortuito che la sola persona capace di mostrare segni di incrinatura sia la figlia di uno degli aguzzini: la struttura che sorregge e giustifica la costruzione autoassolutoria non è così infrangibile in chi non l’ha dovuta assimilare direttamente. Per quanto il programma di prevenzione anticomunista seguiti a generare spaventose semplificazioni (i truculenti racconti che vengono ammanniti dall’insegnante al figlio di Adi), la campagna persuasiva ufficiale può essere smascherata e definita per quello che è: propaganda. L’ottico itinerante lo dice apertamente e a più riprese ai leader degli squadroni della morte, ottenendo le puntuali reazioni irritate ed evasive; e lo dice anche al giovane figlio per contrastare l’indottrinamento scolastico al quale è sottoposto quotidianamente. Ma, pur percorribile, questa strada solitaria non è in grado di produrre un autentico cambiamento, poiché per formulare un’immagine collettiva del passato liberata dalle incrostazioni ideologiche è necessaria una trasformazione politica.

Occorre innanzitutto che il governo riconosca i crimini commessi (cosa che solo dopo The Act of Killing è avvenuta in parte e con molta riluttanza) e occorre che inizi un processo politico che, chiamando in causa gli stati conniventi (gli Stati Uniti in primo luogo: si veda il notiziario NBC del 1967 incluso nella pellicola), ristabilisca, per quanto possibile, la verità storica e la giustizia. Solo allora si aprirà uno spiraglio per una riconciliazione non occasionale e occasionalmente ritrattabile. Nel confronto finale tra Adi e la famiglia di uno dei principali artefici, attualmente deceduto, dell’uccisione di Rumli (omicidio più volte rievocato e persino rappresentato graficamente in un libro scritto e illustrato dall’uomo scomparso), i figli e la vedova negano ripetutamente di essere a conoscenza del coinvolgimento del padre nel massacro, simulando inconsapevolezza in perfetta malafede, dal momento che Oppenheimer ha trascorso alcuni mesi con loro ricostruendo scrupolosamente la sanguinosa vicenda in cui l’uomo aveva avuto un ruolo di primo piano: questa sconfessione, ovviamente indotta dalla vergogna e dal timore di essere considerati colpevoli e codardi, è esattamente ciò a cui va incontro l’iniziativa del singolo se non accompagnata da un processo di riformulazione collettiva e ufficiale del passato. Ed è per questo motivo che, sul finire della sequenza, Oppenheimer interviene in prima persona, dissociando la propria prospettiva da quella di Adi e mostrando alla reticente famiglia un altro video in cui il padre sbandiera orgogliosamente il libro scritto a futura memoria: non si tratta di un gesto calcolato e mosso da cinismo forcaiolo, ma di un atto impulsivo dettato dalla sorpresa e dall’incredulità di fronte a un rinnegamento così spudorato.

A fare da controcanto domestico e in qualche modo familiarmente lirico, Oppenheimer alterna gli incontri con gli anziani capi del Commando Aksi (e con un amico di Rumli avventurosamente scampato al massacro) a sequenze che ritraggono sia i vecchi genitori di Adi, la cui veneranda età resta un mistero imperscrutabile, sia i suoi giovani figli (meno visibile la moglie). In questi frangenti i registri si ampliano vistosamente, andando dal lamento della perdita all’intimità divertita, dalla quotidianità delle cure che la madre prodiga al centenario coniuge ormai quasi del tutto cieco, sordo e anchilosato alle scherzose tenerezze tra Adi e la piccola figlia. Se le parentesi domestiche introducono momenti che mitigano apparentemente la tensione dei confronti, non sfugga la violenza implicita nel disegno conciliatorio di Adi: chiedere a individui abituati a convivere con l’enormità dei delitti commessi di riconoscere una responsabilità ammantata di grandioso eroismo significa chiedere loro di rinunciare al supporto fantastico che sorregge concretamente la loro esistenza (non è ozioso ripetere che reputazione e benessere di molti ex aguzzini derivano proprio dai delitti commessi tra il ’65 e il ’66). La mozione del perdono implica che la colpa sia riconosciuta non solo da chi ne ha subito le conseguenze ma anche da chi ne ha tratto beneficio e, soprattutto in una situazione di impunità istituzionalizzata, comporta un vero e proprio disgregamento strutturale, una disintegrazione delle gloriose fantasie sanguinarie (è in questa cornice quasi tribale che va collocato il rituale apotropaico dell’assunzione del sangue versato per scongiurare la follia). La mozione del perdono equivale dunque a un’autentica distruzione. The Look of Silence s’impone prepotentemente, allo stesso titolo di The Act of Killing, come un film sul cinema: più precisamente sulla potenza d’impatto del cinema quale dispositivo per riconfigurare la realtà. Terremotandola.

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