domenica 29 giugno 2014

ALLELUIA

Gloria, infermiera alla camera mortuaria con una figlia avuta da un matrimonio fallito, incontra Michel tramite un annuncio per cuori solitari on line. Per lei è subito passione cieca, mentre per lui, almeno inizialmente, una delle tante possibilità per guadagnare denaro abbindolando una donna sola. Scoperta la truffa, Gloria decide comunque di unirsi a lui in un legame pericoloso e, lasciata sbrigativamente la figlia a un’amica, si finge sorella di Michel per continuare la vita di espedienti e raggiri a scapito di donne in cerca di compagnia. I due iniziano così una vita di viaggi e incontri, scandita però dagli omicidi perpetrati da Gloria, consumata dalla gelosia e incapace di tollerare che il compagno si conceda sessualmente alle donne scelte di volta in volta.


 
Secondo capitolo di un’annunciata trilogia delle Ardenne (inaugurata dieci anni fa con Calvaire), Alleluia è esplicitamente ispirato alla vicenda di Martha Beck e Raymond Fernandez, coppia di assassini seriali della seconda metà degli anni ’40 meglio noti come “The Lonely Heart Killers”. Le sanguinose peripezie di Raymond e Martha - entrambi condannati alla sedia elettrica e giustiziati nello stesso giorno, l’8 marzo 1951 - hanno già originato due film: il primo è The Honeymoon Killers (1969), sceneggiato e diretto da Leonard Kastle che rimpiazzò Martin Scorsese dopo una sola settimana di riprese (nonché un altro regista, Donald Volkman) poiché considerato eccessivamente lento e meticoloso. Unico film girato dal compositore Kastle, I killers della luna di miele si distingue per l’impronta ruvidamente grottesca e per lo sferzante radicamento nel contesto americano del periodo. L’altro è Profundo Carmesí (1996) di Arturo Ripstein, trasposizione in terra messicana della folie à deux di Martha e Raymond che esalta le componenti erotiche e spiccatamente melodrammatiche latenti nel film di Kastle.

Al suo quarto lungometraggio (tra Vinyan e Alleluia Du Welz ha realizzato Colt 45, polar con Gérard Lanvin e JoeyStarr di prossima uscita nelle sale francesi), il quarantaduenne cineasta belga si discosta dal prototipo statunitense prendendo letteralmente le mosse dal film di Ripstein. È stata proprio la visione di Profundo Carmesí ad aver spinto Du Welz al riadattamento delle gesta dei due assassini dei cuori solitari in territorio belga: inizialmente scritta per Yolande Moreau, costretta a rinunciare a causa di riserve personali, la sceneggiatura di Alleluia procede difatti nella stessa direzione di Profundo Carmesí, trasportando il fatto di cronaca dalla realtà statunitense nel paese natale del regista - in questo caso allo spostamento geografico si accompagna quello cronologico, il film di Du Welz traslando la vicenda nella contemporaneità, anche se i riferimenti temporali altalenano tra annunci in rete, lettere cartacee, telefoni fissi e automobili anni ’80-’90. Ciononostante Alleluia non ricalca pedissequamente il canovaccio narrativo della pellicola di Ripstein, eliminando quasi del tutto ciò che precede e segue l’incontro di Gloria (Lola Dueñas) e Michel (Laurent Lucas, già protagonista di Calvaire), concentrandosi esclusivamente sulle dinamiche di squilibrio sentimentale che si sviluppano nella loro relazione.

Ciò che preme a Du Welz è l’ossessione amorosa, matrice generativa della sua poetica (si pensi alla distorsione coercitiva del rapporto coniugale in Calvaire o alla delirante ostinazione materna di Vinyan), come grimaldello per esplorare le dinamiche di prevaricazione che funestano, ammorbandolo, il rapporto di coppia: “Ciò che mi ha profondamente interessato, al di là del fatto di cronaca e degli omicidi di donne, è la storia d’amore, è questo dérèglement amoroso, è il nido del fascismo, la coppia; sempre uno che tenta di dominare l’altro, uno che cerca di imporre la propria visione all’altro; questo cambia, ma è proprio questo che mi ha interessato profondamente” (il regista al termine della proiezione del film alla Quinzaine des Réalisateurs). Dominio, alienazione, possesso, avidità, squilibrio: sono queste le tensioni che, miscelate in dosi cangianti, attraversano Alleluia dandogli un’andatura irrequieta e vacillante esaltata dalla grana della pellicola 16mm (fortemente voluta da Du Welz per conferire all’immagine una qualità appiccicaticcia e formicolante), dall’illuminazione pressoché naturale di Manu Dacosse (già direttore della fotografia di Hélène Cattet e Bruno Forzani in Amer e L'étrange couleur des larmes de ton corps) e dall’allestimento scenografico dell’inseparabile Manu de Meulemeester (particolarmente ragguardevole il lavoro di configurazione degli interni domestici, ispirato al libro Intérieurs di François Hers e Sophie Ristelhueber, ricognizione fotografica incentrata sull’edilizia sociale in Vallonia alla fine degli anni ’70).

Articolato in quattro atti introdotti dai nomi delle donne incontrate di volta in volta da Michel (Gloria, Marguerite, Gabriella, Solange), Alleluia gioca più sulle variazioni di registro che sull’esibizione di un’estetica improntata alla compattezza stilistica (in questo senso le differenze rispetto alla lussureggiante maestosità di Vinyan sono davvero enormi), dialogando sì con le atmosfere stranianti e surreali di Calvaire, ma soprattutto con le tonalità grottesche e sardoniche del cortometraggio del 1999 Quand on est amoureux, c'est merveilleux - il cui titolo viene citato alla lettera nel secondo atto da Marguerite, interpretata proprio da Édith Le Merdy, protagonista del corto che è valso a Du Welz il grand prix della categoria al Festival di Gérardmer e che ha segnato l’inizio della fortunata carriera del direttore della fotografia Benoît Debie (notato nell’occasione da Gaspar Noé). La coesione interna dei quattro movimenti narrativi è tuttavia assicurata da una strategia che stabilisce un posizionamento forte dello sguardo senza fissarlo in modo inalterabile: se nei primi tre segmenti la titolarità delle soggettive è assegnata quasi esclusivamente a Gloria (detto più chiaramente, il punto di vista che orienta il film è a tutti gli effetti quello della donna innamorata e gelosa), l’ultimo atto presenta invece un’alternanza tra lo sguardo di Gloria e quello di Michel, veicolando anche attraverso lo sguardo l’incrinatura della loro complicità.
 
Girato in ordine cronologico per potenziare l’immedesimazione degli interpreti nelle rispettive parti, Alleluia non nasconde i collegamenti intertestuali che lo situano nel corposo repertorio degli amanti criminali e dell’ossessione amorosa intrisa di gelosia: se le frequenti emicranie di Michel derivano direttamente dal più volte menzionato Profundo Carmesí, l’itinerario in coppia costellato di omicidi si riallaccia a una lunga tradizione cinematografica che va da La sanguinaria (1950, Joseph H. Lewis) a Killer in viaggio (2012, Ben Wheatley), passando per Gangster Story (1967, Arthur Penn) , La rabbia giovane (1973, Terrence Malick) e Natural Born Killers (1994, Oliver Stone); mentre l’amour fou permeato di gelosia ed esclusività riecheggia lontanamente Él (1953, Luis Buñuel) ed Ecco l'impero dei sensi (1976, Nagisa Oshima). Ma la cinefilia di Fabrice Du Welz (che peraltro, da settembre 2013, conduce Home Cinema, una trasmissione dedicata al cinema nazionale su BeTV) non soffoca la progressione drammatica della pellicola, dal momento che il cineasta belga si concentra prevalentemente sulla direzione degli attori, spingendo le interpretazioni a un’intensità mai raggiunta nei precedenti lungometraggi (impressionante, per nitidezza e fisicità, la prova di Lola Dueñas). E se è vero che talvolta Alleluia vive di sprazzi e pezzi di bravura sensibilmente dissociati dal resto della concatenazione filmica (la danza attorno al fuoco accompagnata da cavernose sonorità elettroniche; la canzone di accorata diffidenza che Gloria, prima di fare a pezzi un cadavere, intona sulla partitura composta da Vincent Cahay), è altrettanto vero che questa esalazione di disomogeneità segnala l’energia di un cinema in odore di trasformazione interna: “Lo percepisco come un film di transizione. Al contempo un ritorno al mio cinema ma anche un passaggio verso qualcos’altro” (FDW).

Grazie a Elisa Schiavi per il contributo.

Pubblicata su www.spietati.it

martedì 3 giugno 2014

WELCOME TO NEW YORK


Devereaux è un uomo molto potente. Un uomo che gestisce miliardi di dollari al giorno e che controlla il destino economico delle nazioni. Ma Deveraux è anche un uomo posseduto da un irrefrenabile e insaziabile appetito sessuale. Un uomo che sogna di salvare il mondo ma che non è in grado di salvare se stesso, un uomo terrorizzato, un uomo perso. Deveraux è un uomo al comando del mondo, che vedrete precipitare nel vuoto... (dal sito ufficiale)  








Questo film è ispirato a un caso giudiziario le cui fasi pubbliche sono state filmate, trasmesse e commentate dai media del mondo intero.

Ma i personaggi del film e le sequenze che li rappresentano nella loro vita privata rientrano nel dominio della finzione, dal momento che nessuno può pretendere di ricostituire la complessità e la verità della vita degli attori e testimoni di questo caso, sulla quale ciascuno conserva il proprio sguardo.

Nel caso giudiziario che ha ispirato questo film, le indagini sono state abbandonate dopo che il procuratore ha concluso che la mancanza di credibilità della querelante rendeva impossibile di sapere, al di là del ragionevole dubbio e quale che sia la verità, ciò che è avvenuto durante l'incontro nella suite dell'hotel.

Presentato al Marché del 67º Festival di cannes e distribuito in streaming su varie piattaforme internazionali (si parla di e-cinema, vale a dire una modalità di distribuzione che scavalca l’uscita in sala in favore del web), Welcome to New York ha suscitato le attese e immancabili diatribe/polemiche/querele connesse agli ovvi riferimenti all’affaire Dominique Strauss-Kahn (per informazioni rivolgersi alla rete). Indubbiamente l’ultimo film di Abel Ferrara non può non evocare le gesta dell’ex direttore generale del Fondo Monetario Internazionale per motivi fin troppo palesi (a partire dalle didascalie iniziali), eppure fermarsi alle somiglianze col caso giudiziario senza scorgere quanto le affinità tra DSK e Devereaux (Gérard Depardieu) siano soltanto un pretesto per realizzare una congiunzione tra singolare e universale (sfruttare la notorietà del personaggio per mettere in luce aspetti potenzialmente presenti in ogni essere umano) e, soprattutto, senza rilevare quanto la vicenda messa in scena si adatti alla poetica del cineasta newyorkese sarebbe imperdonabilmente miope. Da qualsiasi angolazione lo si voglia considerare (maniaco, depravato, irreferenabile o semplicemente folle), Devereaux appartiene alla galleria di personaggi dipendenti che attraversano la filmografia di Ferrara (basti pensare al Lieutenant di Il cattivo tenente o alla Kathleen di The Addiction), scongiurando risolutamente l’effetto cronaca (non sfugga la cancellazione pressoché totale dell’attività finanziaria del protagonista dall’intera durata della pellicola).

Abel e io abbiamo deciso che questo film interessa tutti i francesi. Non solo quelli che vivono vicino a un cinema. Non solo quelli che sono disposti ad aspettare parecchi mesi, mentre in altri paesi ognuno può avervi accesso. Vogliamo questo film disponibile per tutti e a casa, sul tuo televisore o computer. E soprattutto… contemporaneamente alla sua proiezione a Cannes. Non è mai stato fatto prima e questo è il motivo per cui ci piace! (Gérard Depardieu)

Considerare la satiriasi di Devereaux - se così è dato chiamarla - come una semplice allegoria del potere o come una perversione prodotta dal potere stesso sulla libido del soggetto sarebbe tanto comodo quanto fuorviante, ma è proprio da un’associazione simile che il film di Ferrara prende nettamente le distanze (in questo senso ogni accusa di diffamazione manca clamorosamente il bersaglio, ovvero il film stesso). In Welcome to New York - e ignorare questo dato significa travisare completamente la pellicola - la dipendenza di Devereaux non agisce in combutta ma contro il potere: è a causa dell’ossessione erotica che egli neutralizza il mandato simbolico della moglie Simone (Jacqueline Bisset), vale a dire la corsa alla carica presidenziale. Se è vero che il ruolo ufficiale di Devereaux ne facilita enormemente la dipendenza (esattamente come il ruolo di ufficiale di polizia favoriva le trasgressioni del Bad Lieutenant), è altrettanto vero che la sua ossessione, perseguita con tenacia suicidaria, aggredisce il potere stesso alle fondamenta, impedendo non soltanto l’ipotesi dell’imminente candidatura presidenziale, ma addirittura distruggendolo in quanto figura pubblica, in quanto personaggio prestigioso e rispettabile. Abbiamo qui a che fare con la rappresentazione di una dipendenza/ossessione (nel regolamento di conti con Simone, Devereaux si pronuncia prima “sex addicted”, quindi definisce “sickness” la propria erotomania) che va al di là dei principi di realtà e piacere, un’esigenza incontrollabile che lo guida all’atto senza curarsi delle conseguenze, una spinta irrefrenabile in cui egli si identifica apertamente (“You know who I am, you know everything”, dichiara candidamente alla moglie).

L’uomo come tale è una «natura malata», deragliata, fatta uscire dai binari dall’attrazione per una Cosa letale (Slavoj Žižek, L’oggetto sublime dell’ideologia).

Situato oltre il mero piacere, il godimento di Devereaux si manifesta come coazione a ripetere intimamente connessa alla dissipazione, alla soddisfazione autodistruttiva, alla pulsione di morte (morte simbolica in questo caso: la distruzione del legame sociale assicurato dalla reputazione e dall’affidabilità). Jouissance, in una parola. Incontrollato e indifferenziato (l’appetito sessuale di Devereaux non va tanto per il sottile, indirizzandosi verso qualsiasi corpo femminile più o meno disponibile), questo godimento si presenta come il tratto unario che condensa e individua la verità del personaggio: succintamente coperto da un asciugamano avvolto attorno all’enorme ventre, egli domanda alla cameriera intimidita, poco prima di afferrarle violentemente le braccia, “Do you know who I am?”. Una domanda che, al di là del risvolto implicito pressoché immediato (“io sono un personaggio potente e influente, non ti è concesso negarti”), significa forse qualcosa di meno subdolo e ricattatorio: “io sono questo essere nudo, deforme e famelico, non posso fare a meno del mio godimento qui e ora”. Nell’essere tutt’uno con la propria jouissance, Devereaux si colloca insomma in una dimensione distante tanto dalla sanzione giudicante quanto dalla correzione ortopedica: immune all’esperienza della detenzione e refrattario alle sedute di psicoterapia, egli, per dirla in termini spericolatamente lacaniani, “non cede sul proprio desiderio”. In ultima analisi, quello di Devereaux è un personaggio intimamente patetico: soffre nel/per mantenere intatto e inalterato il proprio godimento, rifiutando ogni ipotesi di adattamento alla realtà (“No one can save anyone. And you know why, doctor? Because no one wants to be saved”, sentenzia con disarmante sicurezza allo psicoterapeuta interpretato da Christ “Chris” Zois, peraltro autore dello script insieme a Ferrara).

The appetite is insatiable (Kathleen Conklin/Lili Taylor in The Addiction).

La raffigurazione della dipendenza come condizione inarginabile e indisciplinabile non è certo una novità per Abel Ferrara, anzi probabilmente costituisce l’ossessione più riconoscibile del suo cinema: se in The Bad Lieutenant essa s’intrecciava con l’ansia della redenzione e del sacrificio tossico, in The Addiction si rifletteva nell’origine della malvagità sospendendo ogni soluzione in un epilogo misteriosamente tombale, mentre in R-Xmas si polverizzava in assuefazione alla quotidianità narcotica dello spaccio. Superfluo sottolineare quanto Ferrara abbia trasferito (e seguiti a trasferire) in queste vicende di addiction la propria esperienza di dipendenza da sostanze stupefacenti e alcol. Alla domanda diretta di un intervistatore che gli chiede, riferendosi a Dominique Strauss-Kahn, “Can you relate to this guy?”, la risposta è altrettanto diretta: “Yeah, thousand percent, on every level, man”. Ancora l'intervistatore: “His story, can you relate to that?”. AF: “His story? Absolutely, one thousand percent. You know, guy out of control. You know, his addiction is sexual. You know, an addiction is an addiction. Especially now, you know, I’m going through sobriety and really understanding what that is and how you confront that. You know, it’s a virus that you do with it, you don’t cure it”.

- Have you looked at your life, are you satisfied with what and where you are in your life? What do you want to be different? (lo psicoterapeuta a Matty/Matthew Modine in Blackout).

Ma il titolo ferrariano che intrattiene il dialogo più profondo con Welcome to New York è con ogni evidenza - un’evidenza che Ferrara smentirebbe senz’altro perentoriamente - l’altro film sulla connivenza tra celebrità e dipendenza che il cineasta newyorkese ha scritto insieme a Chris Zois: Blackout. Alla stregua di un Blackout vent’anni dopo, Welcome to New York mette ancora una volta in scena un personaggio la cui notorietà agevola e garantisce la floridezza della dipendenza, fornendogli continue e illimitate occasioni di soddisfacimento fino a renderlo incapace di distinguere il lecito dall’illecito (lo strangolamento in Blackout, l’abuso sessuale in WTNY). Questo dittico sulla celebrità intossicata (Matty un divo del cinema, Devereaux della finanza) presenta del resto un’identica scansione drammaturgica in tre atti (eccesso trasgressivo che sfocia in aggressività, intervento correttivo, epilogo solitario) e personaggi femminili praticamente equivalenti (le caratteristiche delle due compagne di Matty in Blackout, Anne/Béatrice Dalle e Susan/Claudia Schiffer, in WTNY si trovano sintetizzate nella figura di Simone). Quello che cambia sensibilmente, al contrario, è il trattamento della dipendenza, facendo di WTNY il controtipo negativo di Blackout: se in quest’ultimo l’atto favorito dall’eccesso produceva senso di colpa e conduceva a una riconciliazione finale (nella nuotata suicida Matty si ricongiungeva idealmente e in sovrimpressione alla ragazza strangolata), in WTNY l’abuso non solo non genera alcun senso di colpa (l’affermazione “je pense que c’est un peu de ma faute”, pronunciata in francese all’analista, suona decisamente come una concessione poco convinta, lettera morta), ma soprattutto non porta ad alcuna redenzione. Tra tutti i personaggi addicted raffigurati da Ferrara, Devereaux è senza ombra di dubbio il più irredento: “Qu’ils aillent tous se faire inculer!”, tuona rabbiosamente guardando dritto in macchina.

- Why did you accept to play this part?
- Because I don’t like him.

Superate le esitazioni formali tra cinema e video che tempestavano Blackout (precipitato visivo della rimozione omicida operata da Matty e del ritorno del rimosso come immagine video), Ferrara prosciuga la messa in scena da ogni vezzo confusionista e, spalleggiato dal direttore della fotografia Ken Kelsch (al suo fianco da The Driller Killer), leviga la superficie delle immagini fino a raggiungere una consistenza quasi marmorea (i corpi stessi, sagomati dalle luci artificiali dell’hotel o scolpiti dall’illuminazione fredda delle celle, assumono una durezza statuaria). Rigorose, insistenti e preziosamente inclementi, le inquadrature di WTNY non frammentano lo spazio in funzione drammatica, ma osservano una distanza impassibile che privilegia la descrizione fenomenologica e asseconda una recitazione sul filo dell’improvvisazione: si pensi a tutta la parte carceraria con tanto di schedatura/perquisizione integrale e alla lunga sequenza del faccia a faccia tra Devereaux e Simone nel costoso appartamento newyorkese da lei affittato (definito sarcasticamente “our little prison”). È in frangenti come questi che le impressionanti doti performative di Gérard Depardieu, esaltate per contrasto dalla rigidità degli agenti e dalla respingente severità di Jacqueline Bisset, si palesano con cristallina intensità, dispiegando un ventaglio espressivo che va da tonalità infantili ad altezze totemiche passando per grugniti ferini. Sono passati quasi trent’anni da Police (1985, Maurice Pialat), la cui ultima inquadratura risuona intimamente nell’epilogo frontale di Welcome to New York, ma lo sguardo di Depardieu, parafrasando Il mistero della camera gialla, non ha perduto nulla del suo fascino né del suo enigmatico splendore.

Grazie a Cecilia Ermini per il contributo.

Pubblicata su www.spietati.it