martedì 28 gennaio 2014

THE COUNSELOR - IL PROCURATORE

Un traffico milionario di droga tra il Messico e gli Stati Uniti. Parti in causa: un avvocato che si lancia per la prima volta in un’operazione del genere, il più esperto e appariscente Reiner, che coinvolge il procuratore nell’affare, e Westray, intermediario che si occupa del trasferimento di denaro e dei contatti col cartello messicano. A fianco dell’avvocato la fidanzata Laura, promessa sposa di religione cattolica; accanto a Reiner la seducente Malkina, ex ballerina proveniente dalle Barbados priva di scrupoli. Avvenuto il passaggio del carico di droga occultato in un trasporto di liquame, la situazione si complica a causa delle macchinazioni di Malkina, che, con l’aiuto di complici, si appropria del camion, provocando la rappresaglia della malavita messicana. 





Lascio a spettatori/esegeti più perspicaci e volenterosi del sottoscritto il compito di rispondere alle numerose questioni che l’intrigo di The Counselor solleva senza fornire appigli sicuri. Chi regola davvero i meccanismi di questo universo malavitoso? Per quali motivi alcuni individui la fanno franca o sopravvivono e altri vengono uccisi più o meno accidentalmente? È veramente una coincidenza che il figlio di Ruth (Rosie Perez), detenuta del penitenziario di stato del Texas e difesa dal procuratore, sia anche il Green Hornet del cartello messicano? A interrogativi simili chi scrive non è affatto in grado di rispondere. Ma spuntare tutte le caselle del questionario è così indispensabile o non è forse più ragionevole ipotizzare che la complicazione della vicenda suggerisca l’inessenzialità delle spiegazioni e delle motivazioni (variabilmente riconducibili all’avidità)? Quello configurato da The Counselor somiglia insomma a un universo nel quale caso e libero arbitrio si alleano capricciosamente per precipitare la realtà nel caos più irreparabile: il caso pone le condizioni di possibilità della catastrofe, ma è il libero arbitrio ad attualizzarla concretamente. Cristallizzata spesso in affermazioni lapidarie, la sensazione diffusa che si ricava dalla pellicola è quella di un nichilismo permeato di rassegnazione, come se l’errore fatale consistesse nel tentare la sorte, nell’aspettarsi troppo dagli esseri umani e dalle circostanze apparentemente favorevoli. 

Stante il binomio McCarthy/Scott, la tentazione sarebbe quella di leggere la pellicola in chiave ironico-sarcastica, aggregando la tonalità nichilistica di cui sopra alla fattura stessa del film: The Counselor si tramuterebbe così in un gigantesco e beffardo gioco al massacro nei confronti della narrazione, degli interpreti e persino di se stesso. Assecondata questa supposizione, il prologo raffigurerebbe macabramente il procuratore (Michael Fassbender) e Laura (Penélope Cruz) coperti non da un lenzuolo ma da un sudario, le grottesche caratterizzazioni di Reiner (Javier Bardem) e Malkina (Cameron Diaz) rappresenterebbero una derisione del loro statuto iconico e il funereo ciondolare della vicenda costituirebbe una riproposizione trasfigurata e digitalizzata (si pensi al dvd HOLA! recapitato all’avvocato nel finale) del letale itinerario peckinpahiano di Voglio la testa di Garcia (1974), pellicola con la quale The Counselor intrattiene un continuo e intimo dialogo (oltre alla ricorrenza delle decapitazioni, alcuni scambi tra il procuratore e Laura riecheggiano le conversazioni tra Bennie ed Elita nella prima parte di Bring Me the Head of Alfredo Garcia). Osservato necroscopicamente, l’intero film si identificherebbe infine col cadavere colombiano ficcato nel quarto barile nascosto nel camion: uno scherzo di macabra gratuità che sfocia nell’assurdità e nell’insensatezza (“In this business you gotta have a sense of humor”, sibila divertito John Leguizamo a un esterrefatto Dean Norris durante la consegna del carico). Tuttavia, prima di avventurarsi in una sovrainterpretazione simile, occorre fare i conti con la superficie cinematografica di The Counselor: un film così scombiccherato e platealmente raté da possedere sì un suo fascino perverso, ma palesemente fallace nel magnificare la propria inconcludenza/sconclusionatezza in elemento di gloria.

Già pubblicata su www.spietati.it.

4 commenti:

  1. Squisita recensione che si mantiene sul vago, nel giudizio. ;) Io sono un convinto assertore della totale incapacità del neo sceneggiatore a costruire delle storie in narrazione, figurarsi in uno script....

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  2. Buongiorno Alessandro,
    sono d'accordo con te ed allo stesso tempo affascinato dai meccanismi che portano uno scrittore con quella biografia a scrivere una sceneggiatura cosi malriuscita...in mente ho un film come Barton Fink ed un romanzo come Gli ultimi fuochi che però propongono una dialettica tra scrittore ed industria cinematografica che credevo non potesse appartenere al grande scrittore americano..

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  3. Brutto, brutto... ma stavolta la colpa non è di Ridley Scott (che il mestiere ce lo mette sempre), ma della sceneggiatura di McCarthy.

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