venerdì 20 dicembre 2013

MATERIA OSCURA

Materia oscura racconta un luogo di guerra in tempo di pace. Lo spazio del film è il Poligono Sperimentale del Salto di Quirra, regione della Sardegna compresa tra le province di Cagliari e Nuoro, dove per oltre cinquanta anni i governi di tutto il mondo hanno testato “armi nuove” e dove il governo italiano ha fatto brillare i vecchi arsenali militari compromettendo inesorabilmente il territorio. All’interno di questo spazio il film compone tre movimenti. Il primo movimento segue l’indagine di un geologo che tenta di rintracciare l’inquinamento causato dalle sperimentazioni militari. Tra terra e mare, tra residui bellici e civili, tra bersagli, condotti, proiettili, cariche, radar, carcasse di carri armati e missili, il film scopre i luoghi muti e ascolta i silenzi di due fratelli pastori che degli effetti della guerra hanno fatto la normalità, malgrado ancora oggi riecheggino tra le valli i rimbombi delle esplosioni. Il secondo movimento mostra una ricerca attraverso gli archivi cinematografici del poligono che hanno visto protagonisti le armi e gli esplosivi di tutto il mondo. Sono immagini incredibili che raccontano oltre cinquanta anni di sperimentazioni belliche. Missili, razzi, bombe, esplosioni, brillamenti: le prove generali della guerra si sono messe in mostra davanti alle cineprese del Poligono. Negativi e positivi, ralenti e accelerazioni: i formati e i colori si susseguono nel buio della sala di montaggio. La terza e ultima parte racconta il lavoro di due allevatori, un padre e un figlio e del loro rapporto con la terra, gli animali e con un passato profondamente segnato dall’attività bellica. Malgrado la cura, la dedizione e l’amore per il proprio lavoro troppo spesso i loro animali nascono malformati e con gli organi interni pieni di sostanze radioattive. L’orrore in una natura all’apparenza incontaminata. Materia oscura racconta questo luogo silenziosamente avvelenato evocandone la tragicità grazie alla forza del racconto per immagini. E tra montagne e mare, passato e presente viene costantemente messa in scena una “guerra immaginaria” che sembra non aver fine (dal pressbook).

Non si cerchi inchiesta giornalistica o illustrazione didascalica in Materia oscura, ché il solo momento informativo dell’extradocumentario di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti coincide con la registrazione, tratta da un’intervista di Radio Radicale, delle parole del Procuratore Domenico Fiordalisi, parole che ascoltiamo mentre le immagini mostrano la dissezione di un topo. Colonna sonora e visiva entrano in collisione, stridono, suggeriscono percorsi divergenti. Una voce descrive inesorabilmente la presenza di torio nelle aree interessate dalle esercitazioni e le attività più o meno lecite praticate nel Poligono del Salto di Quirra, un animale viene sezionato per effettuare ricerche sulla contaminazione diffusa nella zona: l’esposizione verbale dei rilievi scientifici e delle allarmanti anomalie morfologiche viene letteralmente disturbata da immagini che impediscono un ascolto concentrato e confortevole. Si tratta precisamente di scongiurare il semplice effetto indignazione e penetrare nel dominio del surreale. Perché oltre lo sdegno non c’è che il sentimento dell’assurdo, permeato di tristezza, a rendere conto di un luogo dai tratti arcaici devastato da sperimentazioni belliche tecnologicamente avanzatissime. Un sentimento da non confondersi con la rassegnazione o la resa all’esistente, ma, al contrario, da identificare con una presa di posizione morale che si deposita in forme cinematografiche aliene tanto dalla retorica tuonante del reportage quanto dal cinico disincanto del lamento lirico sulle rovine.

Più ci si avvicina al potere e più ci si confronta col vuoto: è questo che sembra dirci Materia oscura, configurando tre movimenti attorno a un nucleo impossibile da rappresentare se non prendendone le distanze, cogliendone le tracce disseminate nei crateri, nelle carcasse di lamiera carbonizzata, nella terra bruciata, in quell’umanità residuale che, analogamente a quanto avveniva in Il castello, continua ostinatamente ad abitare uno spazio teso a respingerla ed eliminarla in favore di un controllo sempre più esasperato, di una sicurezza sempre più aggressiva. Tre movimenti in cui interrogazione del territorio (le ricognizioni geologiche e l'attività pastorizia dei due fratelli), disarchiviazione straniante (prelevate dagli scaffali polverosi del poligono e visionate/rifilmate alla moviola, le pellicole d’archivio assumono connotati marcatamente surreali) e captazione della morte (il piano sequenza di oltre 6’ su un vitello agonizzante) compongono un extradocumentario - lo si accennava sopra e lo si ribadisce con forza qui - al quale non occorre voce narrante, segnaletica didattica o forzatura dimostrativa per dialogare col reale e lo spettatore. Grazie a una distanza/prossimità semplicemente miracolosa che, al di là di ogni sovrastruttura posticcia, restituisce integralmente al cinema la sua capacità esplorativa e trasfigurante: dal macchinico prologo pellicolare al baluginante epilogo spettacolare Materia oscura non fa che parlarci di questo, del cinema come dispositivo di riscrittura ed evocazione, traccia di un fare che può misurarsi ad armi pari con l’orrore, la bellezza e l’inconcepibile.

Pubblicata su www.spietati.it

PRISONERS

Giorno del Ringraziamento: le famiglie Dover e Birch stanno serenamente festeggiando la ricorrenza quando le piccole Anna e Joy, allontanatesi per pochi minuti dai genitori, spariscono nel nulla. La presenza di un camper nelle vicinanze indirizza i sospetti verso il conducente che, intercettato e condotto in stato di fermo, viene rilasciato per insufficienza di prove e limiti mentali. Alle indagini ufficiali, coordinate dal detective Loki, si affiancheranno le ricerche solitarie di Keller Dover, padre di Anna disperato per la scomparsa della figlia e sempre più diffidente nei confronti dei metodi investigativi della polizia. 







Chi scrive ha coperto l’invero non cospicua filmografia di Denis Villeneuve (classe 1967), dallo stralunato Un 32 août sur terre (1998) allo straziante Incendies (2010), passando per il frastornante Maelström (2000) e il glaciale Polytechnique (2009). Se quest’ultimo si attesta inequivocabilmente come il suo capo d’opera, è possibile tracciare un profilo sommario ma non del tutto inattendibile della produzione del cineasta québécois (escludendo i corti e mediometraggi poiché non particolarmente indicativi, nonostante i riconoscimenti internazionali): i primi due lavori quali prove di elaborazione estetica in bilico tra grottesco e destrutturazione cronologica, le due pellicole successive come messa a punto di un controllo stilistico esercitato sulla materia tragica e, infine, approdo hollywoodiano al servizio di una Major. Si riproporrebbe dunque la consueta parabola del talento straniero precettato da Hollywood per un film di genere, se non fosse che Villeneuve, prima di realizzare Prisoners, ha girato Enemy, adattamento di un romanzo di José Saramago (L’uomo duplicato): arthouse movie interpretato dallo stesso Jake Gyllenhaal, che ha accettato il ruolo del detective Loki grazie alla relazione professionale stabilita con Villeneuve sul set di Enemy, e la cui uscita nelle sale statunitensi è fissata per il febbraio 2014. Non è fortuito che il regista canadese abbia dato la priorità a questo progetto assai più libero e sentito col pretesto ufficiale di considerarlo un laboratorio per perfezionare la direzione attoriale. Non sembra pertanto irragionevole profilare lo schema altrettanto risaputo del film personale seguito dalla pellicola anonima/su commissione.

Professionalmente irreprensibile (il coeniano Roger Deakins alla fotografia, il duo eastwoodiano Joel Cox e Gary Roach al montaggio), Prisoners è imperniato sul faccia a faccia tra il già menzionato Gyllenhaal nel ruolo del detective a capo delle indagini e Hugh Jackman nei panni del padre disperato e agguerrito. Faccia a faccia dal quale, vuoi per esigenze di copione vuoi per tonalità espressive, il primo ha gioco facile nell’imporsi grazie a una recitazione meno caricaturale ed esteriorizzata. Ma al di là di queste gratificazioni performative, tra le quali si segnala l’interpretazione in underplay di Melissa Leo nella parte della torva zia del minus habens Alex (Paul Dano), la prima pellicola hollywoodiana di Villeneuve non offre supplementari motivi d’interesse o scandaglio interpretativo, ostentando simbolismi ingombranti (disseminazione di preghiere e prediche, crocifissi ciondolanti o tatuati), sciorinando escamotage visivi piuttosto grossolani (la sostituzione metaforica del rapimento delle bambine con un movimento di macchina in avanti sulla corteccia di un albero) e allestendo un’allegoria sull’illiceità morale della tortura (la necessità di una terza figura istituzionale per scongiurare l’uso privato e indiscriminato della violenza) che articola la spinosa questione in termini brutalmente dicotomici. Artificiosità simili non risparmiano il piano narrativo (limite ben più inficiante, tenuto conto del grado di tensione richiesto dal genere di riferimento), l’intreccio dipanandosi faticosamente tra cantine degli orrori, pendagli labirintici e serpeggianti apparizioni votate al suicidio, per culminare infine nella rivelazione di un movente diabolicamente macchinoso. Su tutto incombe il plurale multifunzionale del titolo Prisoners: ciascuno è prigioniero delle proprie ossessioni, complessivamente rubricabili sotto la voce Caso (da intendersi come casualità e destino), macrocategoria che, fin dal primo film e in forme sempre variate (incidenti in agosto, gravidanze involontarie, misoginia delirante, testamenti inaspettati ed escursioni in camper), governa dall’alto le narrazioni di Villeneuve.

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