giovedì 10 ottobre 2013

LA JALOUSIE


Il trentenne Louis lascia Clothilde, dalla quale ha avuto la piccola Charlotte, per Claudia e si trasferisce con lei in un piccolo appartamento in affitto. Attore teatrale privo di risorse economiche affidabili, l’uomo è follemente innamorato della nuova compagna che, una volta attrice promettente, non riceve più offerte di lavoro. Louis si adopera per procurarle un ruolo, ma i provini non vanno a buon fine. Complici l’insoddisfazione professionale e le misere condizioni di vita, la loro relazione si degrada progressivamente, spingendo Claudia ad allontanarsi dall’inconsolabile compagno.
Durante i sei mesi della scrittura della sceneggiatura c’era questo titolo sul manoscritto, era posato sul mio comodino, mi sono addormentato e svegliato con questo titolo ogni sera e ogni mattina. Dunque ho pensato che fosse possibile conservarlo. Un giorno avevo provato a chiamare un film La Discorde e molto presto ho rifiutato il titolo, o il titolo mi ha rifiutato. Tuttavia la gelosia è peggio della discordia, ma è anche qualcosa che tutte le persone hanno provato e si rimproverano.

Difficile ed entusiasmante al tempo stesso parlare di un film come La Jalousie. Difficile poiché ci troviamo di fronte a una pellicola ad anni luce dalle migliori opere di Garrel: senza risalire spocchiosamente all’altero purismo degli anni ’60 e ’70, è più che sufficiente pescare a piacimento alcuni titoli dal ventennio successivo come Elle a passé tant d’heures sous les sunlights (1985), J’entends plus la guitare (1991) o il sottostimato Le vent de la nuit (1993) per rendersi conto dell’abissale differenza che li separa da quest’ultima fatica. Se il raffronto è tanto ingeneroso quanto grossolano (sono passati troppi anni, il cinema di Garrel è in continua trasformazione, paragonare questo film alle opere precedenti è fuorviante, bla bla bla…), resta il fatto che La Jalousie ha il sapore di un Garrel infiacchito, svanito, sprovvisto di quel mordente che anche pellicole più vicine cronologicamente possono vantare (senza scomodare Les amants réguliers, basti pensare a La frontière de l’aube).

Quando faccio un film non sono nella volontà o nell’espletamento di un progetto che l’avrebbe preceduto. Non c’è un fantasma del film seguito dalla sua realizzazione, non c’è che la pratica. Scrivendo, filmando, qualcosa si disegna, qualcosa appare nell’atto di fare.

Entusiasmante perché, pur smorzato e in qualche misura pacificato, si tratta di un cinema di una scioltezza assoluta, un cinema che dà l’impressione di farsi sotto i tuoi occhi con disarmante naturalezza. Un cinema che genera filmitudine, sentimento di squisita cinematograficità. E non importa che questo sentimento rievochi concetti triti, vetusti e vieti come lo specifico filmico, il cinema puro e altre anticaglie simili: di fatto La Jalousie, situata come ogni altra pellicola di Garrel nel punto di confluenza tra cinema e vita, si smarca da qualsiasi riferimento alla prassi cinematografica contemporanea per dialogare con quella di Bresson (le ellissi o la collocazione fuori campo degli eventi salienti), Pialat (il contributo alla sceneggiatura di Arlette Langmann, Yann Dedet al montaggio), Godard (la struttura narrativa non dominata dai nessi causali), Truffaut (le modulazioni di registro tra leggerezza e gravità che caratterizzano la sequenza del tentato suicidio) e persino col cinema muto (i primi piani insistenti in funzione espressiva, le idee visive cariche di valenze iconografiche come l’abluzione dei piedi fatta da Claudia al vecchio scrittore).

Ho fatto dei film muti, adoro il cinema muto, ne conservo le tracce anche se so bene che oggi non avrò più la possibilità di girare un film muto. […] Per alcuni primi piani utilizzo degli obbiettivi particolari, delle ottiche concepite per filmare molto da vicino e che permettono di dare un’espressività incredibile ai volti.

Frutto di una sceneggiatura scritta da Garrel con la collaborazione della già menzionata Arlette Langmann, dell’attuale compagna Caroline Deruas e di Mark Cholodenko (cosceneggiatore-dialoghista fisso a partire da Les baisers de secours, 1989), La Jalousie traspone un evento avvenuto quando il cineasta aveva all’incirca la stessa età della piccola Charlotte e suo padre Maurice quella di Louis: “Anche se è un film contemporaneo, è la storia d’amore che mio padre ha vissuto con una donna (ammirando questa donna ho potuto rendere mia madre gelosa senza volerlo). E io ero un bambino allevato da mia madre (nel racconto per il cinema sono la ragazzina)”. Su questa base autobiografica, la sceneggiatura si è articolata alternando scene scritte da un uomo a scene scritte da una donna, dando al film una continua diversità di tono e timbro affettivo: alla fase delle riprese (“écriture à la caméra”, secondo le parole di Garrel) il compito di assicurare l’unità della narrazione, lasciando ampio margine all’improvvisazione e rispettando il più possibile il partito preso del “buona la prima” (partito preso che del resto fa parte del DNA garrelliano).
Per me è importante che lo script sia il risultato di apporti molto diversi. La sceneggiatura finale è un collage dei contributi dei quattro partecipanti. Si parte da un canovaccio molto semplice, ognuno sceglie delle scene, le scrive da solo e poi le mettiamo insieme per vedere il risultato, se abbiamo abbastanza perché l’insieme della storia sia comprensibile.

Scandito dalle due didascalie a tutto schermo J’ai gardé les anges (Ho tenuto gli angeli) e Feu aux poudres (Fuoco alle polveri), La Jalousie non tratta direttamente del sentimento indicato dal titolo, ma, concentrandosi più sugli effetti dell’abbandono e dell’infedeltà che sul timore ossessivo del tradimento, sembra rimandare da una parte agli squilibri che complicavano la relazione tra François e Lille in Les amants réguliers e dall’altra alla loi des essuie-glaces (“legge dei tergicristallo”) enunciata in La frontière de l’aube. Legge formulata in questi termini: “L’amour, c’est comme les essuie-glaces. Quand il y en a un qui s’approche de l’autre, l’autre s’en va. Et quand l’autre fait demi-tour et se rapproche du premier, c’est celui-là qui recule et qui s’en va” (L’amore è come la legge dei tergicristallo. Quando uno si avvicina all’altro, l’altro se ne va. E quando l’altro torna indietro e si riavvicina al primo, è questo che indietreggia e se ne va). Ma se è vero che, nonostante la breve durata (77’), questa incessante altalena amorosa alla lunga pecca d’incisività, è altrettanto vero che a esserne esaltate sono le striature emotive (angosce improvvise, sfioramenti furtivi, le insidie del non detto) e le sfumature interpretative (con la voce di Anna Mouglalis su tutte) che il bianco e nero di Willy Kurant valorizza morbidamente.

Per il film precedente, Un été brûlant, che era a colori, avevo domandato a Willy Kurant che le immagini somigliassero alla pittura a tempera e non a olio come praticamente tutte le immagini a colori al cinema. Qui gli ho chiesto che il bianco e nero somigliasse al carboncino. E non al gesso nero.

Pubblicata su www.spietati.it.