sabato 28 settembre 2013

IN ANOTHER COUNTRY



Uno spartito che si ripete tre volte con variazioni, piccoli cambiamenti. Protagonista Anne, una cinquantenne francese, il palcoscenico in cui si muove è Mohang, una cittadina balneare coreana. Gli episodi sono collegati dalla sceneggiatura improvvisata dalla giovane Woon-jo che, assieme alla madre indebitata, è costretta a soggiornare in una guesthouse per un periodo imprecisato (finché lo zio non avrà risolto i problemi economici).

Non si può certo rimproverare incoerenza a Hong Sang-soo. Il suo cinema, da sempre, orbita attorno alle medesime ossessioni, declinate nelle forme della variazione ludica e sferzante. Complicazioni erotiche iscritte nella figura del triangolo instabile (che l’oggetto del doppio desiderio sia maschile - The Day a Pig Fell into the Well - o femminile - Virgin Stripped Bare by Her Bachelors - non risulta decisivo), protagonisti appartenenti alla categoria dei registi/sceneggiatori, attori, scrittori o pittori (The Day He Arrives, Turning Gate, Night and Day), ambientazioni itineranti (Lost in the Mountains, episodio del Jeonju Digital Project 2009) e il passato che, complici abbondanti irrorazioni di soju, torna a graffiare l’apparente serenità del presente (The Woman Is the Future of Man): tutto ciò, e altro ancora ovviamente, osservato con sguardo limpidamente disincantato, come se tra l’obiettivo della macchina da presa e le vicende rappresentate ci fosse una distanza insormontabile, una superficie vitrea che neppure gli zoom, immancabilmente in controtempo emotivo, sono in grado di perforare o scalfire.

Scandita da episodiche interferenze tra vita e produzione artistica (Woman on the Beach), una ricorsività simile si presta a molteplici letture (sociologiche in prima istanza: frequenti le stilettate alle convenzioni coreane permeate di maschilismo e settarismo), ma è opinione di chi scrive che la poetica di Hong impieghi il repertorio di stereotipi culturali come semplice pretesto per allestire carillon cinematografici in bilico tra il drammatico, il sarcastico e il grottesco. In questo senso il mosaico di ipotesi narrative squadernato da Virgin Stripped Bare by Her Bachelors costituisce il vertice della sua produzione: il gioco di rifrazioni che contraddistingue le due parti della pellicola (stessa storia, stessi personaggi, inquadrature pressoché identiche ma dinamiche sottilmente e sensibilmente differenti) configura una destabilizzante riflessione sulla volubilità delle relazioni sentimentali, sulla casualità delle combinazioni erotiche e sull’inaffidabilità delle forme chiamate a rappresentarle in modo apparentemente definitivo. Qui, detto altrimenti, il capriccio si trasforma in principio d’incertezza cinematografica e il cristallino bianco e nero ne esalta causticamente l’arbitrarietà.

In Another Country non fa altro che riproporre lo schema ampiamente sperimentato da Hong, inquadrando le tre variazioni finzionali all’interno di una cornice esemplarmente evasiva: costretta a soggiornare insieme alla madre indebitata in una località balneare (Mohang), Woon-jo (Jung Yoo-mi) scrive una sceneggiatura tripartita per distendere i nervi, ambientando gli episodi nello stesso luogo in cui, suo malgrado, è obbligata a restare per un periodo indeterminato. Protagonista indiscussa del trittico è Anne (Isabelle Huppert), un’affascinante turista francese. Nel primo pannello veste i panni di una regista di successo simile a quella vista da Woon-jo al Jeonju Film Festival (con ogni probabilità Claire Denis, autrice dell’episodio Aller au diable del Jeonju Digital Project 2011), nel secondo quelli di una moglie fedifraga approdata a Mohang per incontrare l’amante coreano e nel terzo, infine, quelli di una donna lasciata dal marito che si reca nella quieta cittadina insieme a un’amica professoressa per risollevarsi dalla recente delusione matrimoniale. Attorno a lei si dispongono figure più o meno ricorrenti (tra le quali la stessa Woon-ju) che, di volta in volta, la accompagnano in coppia, si fanno attendere, la corteggiano (il bagnino, presente in ciascun segmento con variabile coefficiente di insistenza).

Tra luoghi (il faro, giusto per menzionare il più eclatante), oggetti (l’ombrello prestato ad Anne da Woon-ju) e biforcazioni narrative (il bivio tra il residence e la spiaggia) che tornano a punteggiare i tre esercizi di scrittura distensiva, Hong allestisce l’ennesima ronde all’insegna dell’incontro fugace, dell’infedeltà, della gelosia e della convivialità acidula, incastonando nel primo frammento una breve discussione sulla responsabilità (fare che cosa dobbiamo o cosa possiamo fare?), nel secondo una doppia parentesi fantastico-onirica (materializzazioni dell’uomo atteso e desiderato) e nel terzo una sorta di disputa filosofica con un monaco buddista sulla menzogna, la paura, l’amore, il sesso e il cambiamento (dalla quale Anne ricava svariate tautologie e una penna stilografica). Andare all’affannosa ricerca di un senso stabile al quale ancorare la narrazione o di un appiglio sicuro per arrestare il continuo slittamento sulla levigata aleatorietà delle immagini (nessun ritorno finale sulla giovane sceneggiatrice, nessuna chiusura del cerchio) significherebbe non soltanto negare a In Another Country l’inafferrabilità che ostenta tanto sfacciatamente, ma soprattutto sradicare il cinema di Hong dal cinismo postmoderno (chiedo scusa per l’aggettivo) in cui pare saldamente, corrosivamente piantato.

Pubblicata su www.spietati.it

mercoledì 4 settembre 2013

COMPLICES


Lione. La polizia rinviene nel fiume il corpo del poco più che diciottenne Vincent, deceduto per strangolamento: spetta ai detective Cagan e Mangin indagare sull’omicidio. Concentrata sugli ultimi due mesi di vita del ragazzo, l’inchiesta rivela non solo la sua vita al margine come membro di una gang di coetanei dedita a piccoli traffici e prostituzione, ma anche l’inizio della storia d’amore con Rebecca, incontrata casualmente in un cybercafè (mentre Vincent adesca un cliente via chat). I due scelgono di vivere una storia simbiotica, favorita da un’analoga solitudine (lui ha lasciato la madre e la sorella per abitare da solo in una roulotte in un bosco, la ragazza è figlia unica con una madre spesso assente per lavoro). Su suggerimento di Rebecca, spinta da curiosità e gelosia nonché dal desiderio di complicità e condivisione, Vincent la coinvolge nella sua attività clandestina.
Esordio al lungometraggio del cineasta elvetico Fréderic Mermoud, classe 1969, Complices testimonia la spiccata duttilità del polar contemporaneo, la sua propensione a farsi contenitore di aggregazioni tematiche ad ampio spettro e veicolo di elaborazione espressiva tutt’altro che incistato nella logora riproposizione di moduli sclerotizzati (si pensi, giusto a titolo di esempio, al più recente Une nuit di Philippe Lefebvre, concentratissima riscrittura della materia noir per eccellenza: la notte). In Complices, film sollecitato da un fatto di cronaca non troppo dissimile da quello messo in scena, la flessibilità del poliziesco si presta addirittura ad accogliere l’ossessione cardine di Mermoud, cineasta che fin dai primi cortometraggi (L’Escalier, Rachel) ha fatto delle “petites transgressions” l’oggetto privilegiato del suo cinema: “Con Complices volevo una nuova volta sondare la questione del desiderio amoroso tra i giovani; e mi sono detto che sarebbe stato interessante iscrivere questo tema in un genere codificato come il polar” (dal pressbook). Ciò che preme a Mermoud, insomma, è precisamente l’attrito tra le convenzioni culturali e la pressione di un desiderio che tende a forzarle, a incrinarle. Questo, di fatto, l’autentico nucleo della pellicola: la complicità del titolo rappresenta la spinta coesiva che permette ai personaggi l’uscita dai tracciati convenzionali, tanto dal punto di vista erotico-sentimentale (per Vincent e Rebecca) quanto da quello deontologico-professionale (per Cagan e Mangin).

Due, talvolta disomogenei tra loro, i piani narrativi di Complices: da un lato l’inchiesta poliziesca, dall’altro la contrapposizione tra dimensioni speculari e distinte, quella dell’adolescenza e quella dell’età adulta. Su questa investigazione parallela, l’indagine dei sentimenti e delle relazioni umane, Mermoud getta uno sguardo rassegnato, uno sguardo che si pacifica solo in parte - e non senza alcune forzature - alla fine del film. L’adolescenza è sì raffigurata nel suo bisogno di sogni e fusione (Vincent vive in una roulotte, una sorta di casa nel bosco, e qui hanno quasi sempre luogo i momenti più teneri e privi di malizia tra i due ragazzi, privi del disincanto e della freddezza con cui vive la sua esistenza di prostituto), ma anche nella perdita brusca e violenta dell’innocenza (dal momento in cui i due entrano in comunicazione con il mondo degli adulti, governato dal principio del piacere momentaneo, dell’appropriazione famelica e oggettuale dei corpi alla ricerca di un godimento univoco). Del mondo degli adulti e del suo deserto rimane poco altro, se non la coppia dei due poliziotti, uniti, oltre che a livello lavorativo, da un’amicizia permeata di lievi sfumature erotiche (Cagan vive da solo in un appartamento asettico e moderno, protetto da un guscio impermeabile persino alle vicende dei più vicini familiari, Mangin cerca l’amore o una gravidanza da infruttuosi incontri su internet).

Scremata la drammaturgia dai residui cronachistici e dai cascami sociologici (“Volevo piuttosto esplorare un certo modo d’essere dei due giovani innamorati, la loro maniera di giocare col loro desiderio, i loro corpi, di trasgredire delle norme sociali e provare una sorta di presente puro”), Mermoud oggettiva cinematograficamente i due piani narrativi differenziandoli in termini di durata, composizione del quadro e valori cromatici. Se le sequenze dedicate ai detective Cagan e Mangin (Gilbert Melki ed Emmanuelle Devos) si sviluppano secondo durate sostanzialmente lineari e compatte, procedono prevalentemente per inquadrature larghe o piani americani e sono fotografate con colori piuttosto freddi e desaturati, quelle consacrate a Vincent e Rebecca (Cyril Descours e Nina Meurisse) si articolano invece su una temporalità frammentaria ed ellittica, sono girate quasi esclusivamente con camera a spalla e immagini ravvicinate e, infine, risaltano per tonalità cromatiche sensibilmente sature e accese. Ne risulta un impianto stilistico altalenante tra poliziesco procedurale e concitazione romanzesca che, pur senza stravolgere il genere di riferimento o spingersi nell’estremismo formale (il pensiero va qui allo splendido giallo/thriller dello stesso anno Amer di Hélène Cattet e Bruno Forzani), trasforma progressivamente i due universi rappresentati in riflessi capovolti di un’affine complicità trasgressiva. Niente di realmente eversivo o radicalmente destabilizzante, beninteso, ma l’ennesima riprova della vitalità del polar contemporaneo nonché l’affermazione di un cineasta che tre anni dopo dirigerà, in collaborazione con Fabrice Gobert, gli ultimi quattro episodi della fortunatissima serie prodotta da Canal + Les Revenants, adattamento dell’omonimo film di Robin Campillo del 2004.

Un ringraziamento a Elisa Schiavi per il contributo.

Recensione pubblicata su www.spietati.it.