domenica 23 giugno 2013

HOLY MOTORS

Una limousine bianca si muove per le strade di Parigi: al volante la bionda Céline e seduto sui sedili posteriori Monsieur Oscar. E chi è costui? E' un industriale, un mendicante, un assassino, un padre di famiglia e persino un mostro, ma non solo. Può essere tutte queste cose, perché la sua vita gli impone di esserlo: la lussuosa automobile su cui si muove è il suo camerino, da cui esce ogni volta con una nuova identità, lavorando dall'alba al tramonto. Ma al di fuori di questa singolare routine, chi è veramente Oscar, quali sono i suoi sentimenti, dov'è la sua casa, cos'è la sua vita? (dal pressbook) 
“Holy Motors” è nato dalla mia impotenza a montare diversi progetti, tutti in lingua straniera e all’estero. Incappavo sempre nei due medesimi ostacoli: casting e soldi. Non potendone più di non girare, mi sono ispirato all’esperienza di “Merda”; che era un film su commissione giapponese. Mi sono passato da solo la commissione di un progetto fatto nelle stesse condizioni, ma in Francia: immaginare in fretta, per un attore già scelto, un film non troppo caro. Tutto ciò é stato reso possibile dall’uso di videocamere digitali, che io disprezzo (perché esse si impongono o ce le impongono), ma che rassicurano tutti.

Di fronte a un film come Holy Motors la sola reazione ragionevole sarebbe il silenzio: abbandonarsi alla morbida fascinazione della sfilata immaginaria, evitare d’imprigionare il libero flusso delle immagini in anguste celle verbali, ché in fin dei conti quella tra parola e pellicola è sempre la storia di un incontro mancato, di una condanna al fallimento e di una segreta aspirazione al discorso del padrone. Eppure è precisamente dalla logica perversa del paradosso che l’ultimo - e in qualche modo terminale - film di Leos Carax prende vita. In che cosa consiste il paradosso? Nel consegnare al pervasivo digitale delle videocamere Red Epic un rosseggiante epicedio consacrato alla morte del Cinema. Già, perché tra le molteplici e divergenti direzioni interpretative autorizzate da Holy Motors chi scrive imbocca senza esitazione quella che conduce alla morte. Una marcia funebre scandita da rintocchi di sconfortata rassegnazione e disperata vitalità, intervalli giubilatori (la “montée” dell’Entracte) e pause di stremata ebrezza (Oscar a Céline: “Qui in culo al mondo è la festa; siamo tutti ubriachi, morti e ubriachi”). Essere un destino senza garanzia, ecco la vocazione del Pierrot Lunaire/Binaire plasmato da Carax e Denis Lavant nelle spettacolari fattezze di Oscar, nome/anagramma cinematografico se mai ve n’è stato uno.

Per Holy Motors, avevo tra l’altro l’immagine di quelle limousine extra-lunghe che si vedono in giro da qualche anno. Le ho incrociate per la prima volta in America, e adesso a Parigi, nel mio quartiere ogni domenica, durante i matrimoni cinesi. Sono veramente conformi alla loro epoca. Allo stesso tempo kitsch e come un pugno nell’occhio. Belle se viste dall’esterno, ma all’interno si percepisce una sorta di tristezza; come in un hotel di passaggio. Comunque mi toccano. Sono obsolete, come i vecchi giocattoli futuristi del passato. Credo che segnino la fine di un’epoca, quella delle grandi macchine visibili. Molto in fretta, queste macchine sono diventate il cuore del film, il suo motore oserei dire. Le ho immaginate come dei lunghi vascelli che trasporterebbero gli uomini nei loro ultimi viaggi, i loro ultimi lavori.

Detto altrimenti e più chiaramente, la forma del desiderio di Holy Motors è quella dello struggimento nostalgico, del rimpianto per l’oggetto perduto: il cinema. Cinema evocato a oltranza in una ripetizione ineluttabilmente destinata a mancare un oggetto ormai divenuto distante, inattingibile, irrecuperabile. Ciononostante non si tratta di un desiderio che si esaurisce nell’afflizione, nel canto infelice della perdita, ma di un desiderio che gode nell’atto stesso del desiderare. Un desiderio che nello struggersi afferma un’inesauribile e terribile vitalità (“Ho paura che non morirò mai”, geme la mendicante sul ponte Alessandro III), facendo della propria insoddisfazione un elemento di gloria, l’esperienza di “un viaggio all’estremo possibile dell’uomo” (Georges Bataille, citato nel pressbook). Siamo ai bordi della jouissance che rasenta la sofferenza e fa della morte il punto termine del godimento della vita. La ricerca dell’oggetto perduto tracima insomma nella coazione a ripetere, nel godimento che si nutre del proprio inappagamento, nella pulsione di morte. Ed è precisamente su questo crinale tra desiderio e godimento che, al riparo da ogni lamento consolatorio, viaggia la limousine di Holy Motors, al tempo stesso camerino, incubatrice rigenerante e carro funebre.

Prima di tutto mi é venuta in mente quest’immagine di una sala cinematografica, grande e piena, nel buio della proiezione. Ma gli spettatori sono completamente immobili, e i loro occhi sembrano chiusi. Sono addormentati? Sono morti? Il pubblico al cinema visto di fronte - cosa che nessuno vede mai (salvo nello straordinario finale di “The Crowd “di King Vidor). Ho quindi pensato di far cominciare il film con questo dormiente, risvegliato in piena notte, che si ritrova in pigiama in una grande sala cinematografica piena di fantasmi. Istintivamente ho chiamato l’uomo, il sognatore del film, Leos Carax. Quindi ne ho recitato la parte.

Il prologo non è forse sufficientemente esauriente? Scovata una porta segreta nella sua camera d’albergo e aperta grazie a una chiave digitale, il sognatore raggiunge la galleria di una sala cinematografica gremita di spettatori impietriti e a occhi chiusi. L’arrivo in sala del sognatore Carax, che si piazza eloquentemente accanto al fascio di luce del proiettore, genera la comparsa in platea di un bambino nudo seguito a breve distanza da un molosso. Infanzia cinematografica - non sfugga il nesso con le immagini inaugurali dell’Enfant nu, course, aller et retour (1892) di Étienne Jules Marey che aprono i titoli di testa - e monumento vivente - il mastino napoletano - testimoniano la paradossale coesistenza d’insopprimibile vitalità e residuo ingombrante in una sala popolata di fantasmi, spettatori pietrificati e privati del solo senso in grado di definirli tali (“Allora se nessuno guarda più?”, sibilerà Oscar a Michel Piccoli, palese allegoria di un produttore cinematografico). Se il finale della leggendaria pellicola del 1928 di Vidor è il riferimento filmico dichiarato, un’associazione supplementare rimanda all’altrettanto indelebile incipit di In girum imus nocte et consumimur igni (1978) di Guy Debord. Ma con una cruciale inversione: se gli spettatori vidoriani/debordiani erano massificati dall’euforia narcotica del cinema-intrattenimento e mummificati dal potere siderante della società dello spettacolo, quelli raffigurati da Carax sono devitalizzati per il motivo opposto, semplicemente perché è il cinema come spettacolo vistoso, imponente e più grande della vita a essere scomparso. Non è più tempo di Occhi senza volto, ma di volti senza occhi.

Il film sarebbe allora una sorta di fantascienza, dove uomini, bestie e macchine si troverebbero in via d’estinzione - “motori sacri”, legati da un destino comune, schiavi di un mondo sempre più virtuale. Un mondo dal quale a poco a poco scompariranno le macchine visibili, le esperienze vissute, le azioni.




La continua compenetrazione di motivi funebri e guizzi vitalistici permea l’intera pellicola, non un solo fotogramma di questa danza forsennatamente macabra ne è esente. Si pensi alla dedica conclusiva a Katerina Golubeva, compagna di Carax recentemente scomparsa, una dedica listata a lutto che dialoga implicitamente con l’immagine di straziante pudore della figlia Nastya posta in apertura del primo segmento di film: quasi un congedo dalla madre che è al contempo un vitreo addio e un cristallino segno di persistenza. Ma è lo stesso Oscar a farsi depositario e latore di tale compenetrazione: più che una figura univocamente connotata la sua è, mi si passi l’espressione, una vox media tra omicidio e glorificazione estetica. Un personaggio con tratti da sicario (gli appuntamenti come contratti di un killer) ed esteta decadente (consuma letteralmente la propria vita per uno scopo eminentemente gratuito, “la bellezza del gesto”). Col passare dei minuti la sua esistenza fa corpo con quella del film, diviene pura materia pellicolare, uomo cinema, homo cinematographicus fino all’ultimo cromosoma (del resto i frammenti mareyani che costellano la pellicola non sono suoi ritratti ante litteram?). Il suo tempo finisce per coincidere fisicamente con la durata filmica: “Sì, ho trenta minuti”, dice mezz’ora esatta dalla fine del film a Eva Grace/Jean (Kylie Minogue), altro fantasma pellicolare su quattro ruote di un cinema sbaraccato e dai minuti contati: “No new beginnings”.

Il signor Merda é il mio immondo. È la grande regressione post 11 Settembre (dei terroristi che credono a delle storie di vergini in Paradiso, di governanti che esultano per poter finalmente approfittare dei loro pieni poteri, come dei bambini onnipotenti. E dei popoli raggelati, come degli orfani soli al buio). Il Signor Merda é la paura, la fobia. Ma anche l’infanzia. Il Signor Merda é il colmo dello straniero: l’immigrato razzista.

Allestire una cerimonia funebre disperatamente vitale in cui confluisca tutto, in cui tutto si mescoli: autobiografia e autofilmografia, riflessi luminosi e lati oscuri, gloria e abiezione, ironia mordente e rimpianto agonizzante. Tumulto e necrologio, in altri termini: cullato dai versi di All the Pretty Little Horses, persino l’incontenibile M. Merde si assopisce pietosamente sulle ginocchia di Kay M (Eva Mendes). In ogni modo è il cinema a tenere banco, a tracciare il percorso che conduce i motori sacri al loro terminale in uno scomposto itinerario attraverso i generi, a mostrare la deriva annichilente del motion capture e a dirci che, al di là di ogni grottesco inscatolamento seriale (il mostruoso complesso residenziale dell’Homme au Foyer), non c’è che il suo schermo a ospitare, magari per l'ultima volta, “uomini, bestie e macchine in via d'estinzione”. Simulando, mettendo e mettendosi in scena, certo, ma godendo nell’atto stesso di desiderare l’oggetto perduto per sempre. Non escluso il proprio cinema: Holy Motors pullula di rimandi interni, quasi ombelicali, all’intera opera di Carax, dall’esplicita ripresa del Merde di Tokyo! alla sconsolata allusione alle foreste di Pola X (“Le foreste mi mancano”, si rammarica Oscar), passando per il duello all’arma bianca del sesto rendez-vous che rievoca, radicalizzandolo, il corpo a corpo tra Alex e Théo (nomi identici, per inciso) di Boy Meets Girl, secondo chi scrive il capo d’opera di Alexandre Christophe Dupont. Ancora: Michel Piccoli (L’homme à la tache de vin) reca in sé chiazze Rosso sangue e La Samaritaine in disarmo riverbera inconfondibili echi provenienti da Gli amanti del Pont-Neuf.

La Storia dirà che prima o dopo la sua morte si trovò in presenza di Dio e gli disse: “Io che sono stato tanti uomini invano vorrei esserne solo uno: me stesso”. La voce del Signore gli rispose dopo un vortice: “Me stesso non lo sono nemmeno io; io ho sognato il mondo come tu hai sognato l’opera tua, mio Shakespeare, e tra le figure del mio sogno ti trovavi tu, tu che sei come me, molti e nessuno”. (Jorge Luis Borges, Everything and Nothing, citato nel pressbook)

Timbro funereo, forma del desiderio, risonanze intime, riferimenti intertestuali: non resta che lasciare spazio all’elaborazione cinematografica vera e propria. Glissando imperdonabilmente sui soliti prodigi cromatico-luministici di Caroline Champetier (già César per la miglior fotografia nel 2011 con Uomini di Dio), mi pare sia la configurazione sintattica a offrire lo spunto di approfondimento più rilevante. Di fatto è proprio in questa dimensione meno immediatamente evidente che si raggiunge l’ossatura del film, la sua struttura portante. E rivedendo con attenzione Holy Motors si nota un’anomalia sintattica francamente impressionante: la presenza estensiva, deliberata e sistematica di false soggettive (inquadrature il cui statuto soggettivo è smentito dall’entrata in campo del personaggio supposto guardare, per chi non avesse dimestichezza con questa figura stilistica). Quasi completamente assenti nell’abitacolo della limousine (luogo cinematografico per eccellenza), le false soggettive tempestano ininterrottamente i vari appuntamenti di Oscar, togliendogli l’autorità della visione, rendendolo cinematograficamente incapace di fare presa sul mondo, passivizzando inesorabilmente il suo sguardo (si veda il plateale ingresso dell’acrobata nello studio di performance capture, giusto per menzionare il caso più eclatante). Che cosa suggerisce questa tattica di erosione visiva? Ritroviamo qui, espressa con mezzi squisitamente cinematografici, la stessa tensione tra vitalismo e disfattismo, tra slancio vitale e disincantata rassegnazione, che attraversa l’intero film: una tensione struggentemente irrisolta che fa di Holy Motors un viaggio céliniano al termine del cinema. Parcheggiata la limousine nel deposito, Céline (Édith Scob) può indossare un’ultima volta la maschera che Georges Franju le aveva modellato più di mezzo secolo prima e tornare, finalmente, nella sua dimora, nel mito cinematografico: "Niente ci fa sentire più vivi che la morte degli altri".

Pubblicata su www.spietati.it.



martedì 11 giugno 2013

SOLO DIO PERDONA

Membro di una potente famiglia criminale, Julian gestisce un club di pugilato in Thailandia, come copertura per il traffico di droga. Quando suo fratello maggiore Billy uccide brutalmente una prostituta, le autorità si rivolgono ad un poliziotto in pensione, Chang, che opera basandosi su un'idea di giustizia molto personale. La punizione per Billy è la morte. Intanto – per recuperare il corpo del figlio - arriva a Bangkok Crystal, madre di Julian e Billy e capo di una potente organizzazione criminale. La donna, addolorata e furiosa, ha un unico obiettivo: progettare e consumare una spietata vendetta contro coloro che si sono macchiati del sangue di suo figlio. Chang è il primo della lista... (dal pressbook).


Lettura sconsigliata a visione non avvenuta, causa incalcolabili riferimenti alla trama, e controindicata in caso di intolleranza al libero esercizio dell’analisi filmica, causa prodigiosi contorcimenti interpretativi.





Probabilmente e paradossalmente, il metodo più indicato per mettere in luce l’irriducibilità di un film proteiforme e plastico come Only God Forgives a schemi interpretativi rigidi ed esaustivi consiste proprio nel sottoporlo a una lettura serrata, un’esegesi violenta che incida il testo per sezioni progressive, facendo emergere, per opposizione, l’inesauribilità delle domande di senso lanciate ininterrottamente allo spettatore. Una sola visione, insomma, è sufficiente per cogliere l’esortazione alla cooperazione interpretativa che permea i fotogrammi di Solo Dio perdona, ma è solo grazie alla pluralità delle visioni che la pellicola dispiega tutto il suo potenziale d’interpellazione, il suo intossicante brulichio segnico.
“So it’s very much like a puzzle but there’s no answer, that’s the thing. There’s never a right combination” (NWR).
Sono almeno tre i piani di elaborazione discorsiva che s’intersecano e sovrappongono nel tessuto espressivo del film: il primo incentrato sulla dinamica narrativa di superficie, il secondo agganciato alle risonanze edipiche incapsulate nel registro intermedio, il terzo articolato attorno al conflitto incassato in profondità tra istanze psichiche frontalmente contrapposte. Vediamoli nel dettaglio.


PUNIZIONE

La prima dimensione che incontriamo è quella puramente tramica: in preda a un incontenibile impulso omicida, Billy (Tom Burke) fa scempio del corpo di una prostituta minorenne, uccidendola barbaramente e rimanendo incomprensibilmente sul luogo del delitto. L’arrivo di Chang (Vithaya Pansringarm), ufficiale di polizia in pensione - lo statuto di ex poliziotto s’inferisce dall’assenza di gradi e armi da fuoco - scatena un primo stadio vendicativo: convocato il padre della ragazza assassinata, l’anziano tutore dell’ordine autorizza l’inadempiente genitore/protettore a farsi giustizia da solo, per poi tranciargli di netto la mano destra come memento della sua irresponsabilità. Julian (Ryan Gosling), fratello minore di Billy, rintraccia il padre mutilato per interrogarlo e punirlo ma, venuto a conoscenza della verità dei fatti, lo lascia andare senza ritorsioni. La comparsa della bellicosa madre Crystal (Kristin Scott Thomas) cambia però le carte in tavola: implacabilmente determinata a vendicare la morte dell’adorato primogenito, rimprovera ferocemente Julian e organizza una furibonda rappresaglia per cancellare i responsabili del delitto dalla faccia della terra. Ma Chang, profondo conoscitore del territorio e maestro di combattimenti, sfugge agli agguati, mette al tappeto Julian a mani nude e trapassa Crystal con un affondo di katana alla gola.

Che cosa ci dice questa particolareggiata descrizione dell’intreccio? Se letta tra le righe, al di là dell’apparente riproposizione del logoro canovaccio della vendetta, la dinamica narrativa di Solo Dio perdona rivela uno spostamento verso l’alto/altro del motore punitivo. Detto più chiaramente, ad attivare l’ingranaggio vendicativo non sono i diretti interessati dal lutto familiare - il padre della prostituta minorenne e Julian - come ci si potrebbe ragionevolmente attendere, ma due figure che autorizzano e programmano a distanza l’azione ritorsiva: Chang, istigando la furia del genitore imbelle e concedendogli mano libera nella somministrazione della morte, e Crystal, pianificando prima l’eliminazione degli uccisori di Billy e aizzando poi il figlio minore contro l’anziano poliziotto. Tale dislocazione produce una serie di ricadute sull’arrangiamento complessivo del film: la divaricazione del compasso narrativo (la progressione drammatica non si esaurisce nel meccanismo causa-effetto ma contempla gli snodi necessari alla deliberazione e alla delega), il potenziamento della tensione statica (la tendenza al caos si fa più palpabile nella scacchiera destrutturata dei primi piani che nelle improvvise e falcianti sciabolate di violenza) e, soprattutto, la creazione di una colorazione mentale che, complici i cromatismi fluorescenti di Larry Smith (Fear X, Bronson) e le sonorità telluriche di Cliff Martinez, conferisce alla tonalità della rappresentazione un timbro inconfondibilmente surreale. Il teatro della vendetta si tramuta in teatro psichico.


 CASTRAZIONE

Allargate le maglie della rappresentazione, Only God Forgives lascia dunque precipitare la materia narrativa a un piano soggiacente, un livello discorsivo che col passare dei minuti conquista prepotentemente la supremazia semantica. Si coagulano qui le aggregazioni tematiche dell’attaccamento morboso alla madre, della contiguità incestuosa, dell’uccisione del padre e della castrazione simbolica operata dalla Legge. Edipo, in una temibile parola. Nel suo poderoso Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione (Raffaello Cortina Editore, Milano, 2012), Massimo Recalcati illustra esemplarmente il riordinamento strutturale dell’Edipo di Freud compiuto dallo psicoanalista francese: le assonanze più o meno fortuite tra questa tripartizione (Lacan scandisce l’Edipo in tre tempi distinti) e il trattamento refniano della triangolazione edipica permettono, secondo chi scrive, un confronto tutt’altro che sterile. I tre tempi dell’Edipo lacaniano, osserva Recalcati, sono quelli della “perversione primaria”, del “padre terribile” e della “trasmissione del desiderio” (corre l’obbligo di dire che alcuni anni dopo Lacan approfondirà la questione, spingendosi al di là dell’Edipo nel Seminario XVII, titolato Il rovescio della psicoanalisi).

Il tempo della perversione primaria è quello che salda tra loro il figlio e la madre: “Si tratta di una “tappa fallica primitiva” - specifica Lacan - caratterizzata dall’illusione di fare corpo unico con la madre. […] Nei Complessi familiari Lacan aveva descritto questo tempo come il tempo di un accoppiamento, di una incorporazione reciproca, totalizzante, come un’assimilazione cannibalica dell’Uno nell’Altro. La perversione primaria è infatti costituita dalla negazione della differenza e dall’immedesimazione reciproca” (p.175). Ebbene, il rapporto ombelicale e diadico tra Julian e Crystal non evoca forse uno scenario simile? Per buona parte del film (fino al corpo a corpo fra Julian e Chang) tra madre e figlio si delinea una relazione vischiosa e fusionale, impregnata di pulsioni incestuose e tensioni esclusive. Si pensi al dialogo durante la cena tra Crystal e Mai (Rhatha Phongam), presentata da Julian come sua compagna, in cui l’aggressività verbale rappresenta chiaramente uno stratagemma materno, tacitamente avallato dal figlio, per allontanare la giovane, terza incomoda se mai ve n’è stata una. Si tratta insomma di un regime a tenuta stagna: ogni presenza supplementare è percepita come una minaccia da respingere ostilmente.

Dominato dalla figura del “padre terribile”, il secondo tempo pone “il padre come simbolo della Legge dell’interdizione dell’incesto. […] La funzione del padre è innanzitutto quella di introdurre una castrazione simbolica che interrompa la fusionalità tra il bambino e la madre allontanandoli l’uno dall’altro. Si tratta di un trauma benefico che, introducendo una discontinuità salutare, rende possibile la strutturazione (…) non incestuosa della forza della pulsione. La castrazione non è affatto una evirazione, o la sua minaccia, ma la condizione strutturale per consentire una soddisfazione pulsionale non distruttiva” (p.176). Chang, inevitabilmente: il suo personaggio entra in scena assumendo su di sé i connotati paterni (è lui, come abbiamo osservato, a convocare e istigare la vendetta iniziale e a farsi garante dell’impunità del padre della prostituta massacrata), mantenendoli e corroborandoli nel corso del film (non soltanto con l’assunzione domestica della paternità, ma anche suggerendo una certa compassione per il figlio dell’organizzatore dell’imboscata ai suoi danni). L’arma personale di Chang è la katana, spada che sfodera magicamente dalla schiena e con la quale, oltre ad amputare arti, squartare toraci e trafiggere gole, perseguita fantomaticamente Julian abitando i suoi luoghi allucinatori ancor prima che i due s’incontrino effettivamente.

Si tratta di una paternità putativa nei confronti di Julian che l’ex ufficiale acquisisce gradualmente, trovando i suoi più stabili punti di ancoraggio in due frangenti ben determinati. Il primo in negativo, con la richiesta di protezione dalla vendetta di Chang apertamente espressa dall’intimidita Crystal al figlio - richiesta che richiama esplicitamente il parricidio consumatosi in passato, sovrapponendosi a esso e riattivandone la memoria. Il secondo in positivo, con l’appropriazione da parte di Julian della spada di Chang, la sua insegna mutilante, e con lo sventramento del corpo della madre, la conseguente penetrazione manuale configurandosi più come un gesto disperatamente cadaverico che come un voluttuoso e pacificante ritorno nel ventre materno. Del resto le mani di Julian, caricatesi eroticamente in concomitanza con l’omicidio della giovane prostituta, costituiscono sì le sue appendici libidinali, ma al tempo stesso oggettivano lo sbarramento alla titolarità fallica: il godimento di una sessualità piena è letteralmente ostruito, schermato dalla mancanza della castrazione simbolica (si veda la sequenza in cui Julian avvicina la mano al sesso di Mai attraversando una tenda di perline).

Legge della castrazione che invece agirà nel prefinale, eminentemente psichico, con l’amputazione effettuata da Chang delle appendici libidinali di Julian. Assolutamente cruciale in questo passaggio la modalità di rappresentazione adottata da Refn: contrariamente alle mutilazioni/incisioni/perforazioni precedenti (raffigurate senza sublimazioni stilizzanti), qui il taglio fisico coincide con uno stacco sul nero. L’amputazione avviene nell’inconscio di Julian, lacerando la perversione primaria con l’introduzione della dimensione dell’impossibile/irrappresentabile (“è impossibile per il soggetto accedere direttamente al godimento della Cosa materna”, p.177) e generando traumaticamente la possibilità stessa del desiderio (“È solo il trauma dell’impossibile che attiva la forza generativa del desiderio”, ibidem). Il terzo tempo dell‘Edipo lacaniano, infine, contempla la comparsa di un nuovo volto del padre: non più il severo e implacabile esecutore del taglio simbolico, ma il testimone di un accordo tra Legge e desiderio: “In questo tempo conclusivo dell’Edipo il padre deve saper rendere possibile - sullo sfondo dell’impossibilità che ha introdotto attraverso la Legge della castrazione - la trasmissione del desiderio nella catena delle generazioni” (p.178).

Il padre della proibizione e del trauma cede ora il passo al padre “permissivo” e “donatore”, rivelando un volto praticamente opposto a quello mostrato in precedenza. Questa nuova facies paterna, concessiva e umanizzante, non può tuttavia sottrarsi alla presenza fisica, all’incarnazione. Il suo statuto adesso non è più esclusivamente simbolico e privativo, ma concreto e donativo: “nel terzo tempo dell’Edipo, il padre non si limita a mostrare il volto umano della Legge, ma deve anche saper incarnare il proprio desiderio, in modo tale che la Legge non sia il luogo di una mortificazione del desiderio, ma il suo supporto”, p.179). In questo senso il finale di Solo Dio perdona, collocato inequivocabilmente nella fascia della narrazione reale, non dà adito a dubbi: Chang entra nel privé in cui sono Julian e Mai guardando quello che ormai è divenuto il figlio adottivo (mi si passi lo stridente aggettivo) con espressione tutt’altro che ostile e contrariata. Il suo volto non è più quello superegoico della Legge, ma quello di un padre che può finalmente e bonariamente testimoniare la sua approvazione. Un’alleanza tra Legge e desiderio che l’epilogo porta sonoramente a compimento, comunicando all’esibizione canora di Chang, diversamente dalle altre performance che punteggiano la pellicola, un inedito e tangibile senso di luminosità.


 CONFLITTO

Spingendoci ancora più a fondo nel tessuto filmico - e più avanti nella spregiudicatezza dell’analisi - incontriamo un ultimo livello di elaborazione della materia narrativa. A questa quota di profondità, non si tratta più di considerare i personaggi principali come attanti impegnati nell’applicazione del protocollo edipico, ma, più precisamente, di scandagliare il fondale intrapsichico che li unifica. Fuor di metafora e brutalmente, si tratta di considerare gli stessi personaggi come personificazioni di istanze psichiche appartenenti a un solo individuo, che in tal modo diviene oggetto di scomposizione interna: le relazioni tra le istanze freudiane della personalità (Io, Es, Super-io) si concretizzano in dramatis personae, maschere del dramma. L’identificazione dell’Io in Only God Forgives risulta pressoché automatica: Julian, costruttivo e razionale (gestisce la palestra di muay thai, ascolta le ragioni del padre mutilato da Chang e comprende la complessità della situazione) è inequivocabilmente il perno attorno al quale ruotano le altre istanze. Altrettanto pacifico il riconoscimento dell’Es: Billy, incontenibile e trasgressivo, rappresenta la ricerca del piacere sfrenato e illimitato, un godimento che corteggia la sofferenza e la morte (in pochi minuti di presenza filmica aggredisce chiunque gli capiti a tiro e massacra immotivatamente una minorenne).

Il legame intimo tra i due non interessa soltanto la consanguineità ma, in questa nervatura profonda, investe sensibilmente la struttura sintattica del film, scompaginandola e riaggregandola in base a nessi associativi squisitamente mentali. Prima di salire in camera con la prostituta, Billy intrattiene con lei un colloquio di sguardi: l’ultima inquadratura del dialogo visivo consiste in un piano ravvicinato dal basso verso l’alto di Billy che guarda davanti a sé. La durata dell’inquadratura è così lunga da preparare con forza il controcampo corrispondente (la soggettiva dall’alto verso il basso di Billy sulla prostituta). Ma, con un raccordo psichicamente dislocante, il film giustappone a questa immagine la soggettiva di Julian che, da un’angolazione coerente con l’inquadratura evocata, osserva le sue mani finendo per stringere i pugni. Se da una parte questo raccordo impossibile elide visivamente il massacro della giovane (i pugni di Julian che si chiudono sostituiscono metaforicamente il delitto), dall’altra trasferisce l’energia libidica di Billy (che da questo momento è ridotto alla condizione di inermità) sulle mani del fratello minore. L’eliminazione di Billy comporta un’altra macroscopica ricaduta sul versante estetico della pellicola: soppresso fisicamente dal racconto come istanza individuata, l’Es invade l’intero film, erotizzando ogni fotogramma e imprimendo una torsione feticistica alla rappresentazione (“Pure fetish”, secondo la sintetica definizione di Refn).

La sorgente di tensioni di Solo Dio perdona, il suo nucleo conflittuale, risiede tuttavia nella rivalità tra Chang e Crystal (lo abbiamo già osservato al primo livello). Quali istanze psichiche incarnerebbero queste due figure inesorabilmente destinate a scontrarsi? È questionabile opinione di chi scrive che esse rappresentino due modelli superegoici incompatibili e rivaleggianti. Chang di stampo tradizionale (severità punitiva, monumentalità totemica, imperatività morale), Crystal d’impronta postmoderna (assenza di scrupoli, avidità capricciosa, amoralità sconfinata). Detto altrimenti, se il Super-io raffigurato da Chang si riallaccia a quello freudiano, erede dell’imperativo categorico di Kant, quello incarnato da Crystal si collega al Super-io lacaniano di dichiarata matrice sadiana (il godimento senza Legge, il puro arbitrio incurante dei limiti). Nel campo di tensioni stabilito dal film, non è difatti rinvenibile una polarità oppositiva più forte e inconciliabile di quella che contrappone questi due personaggi. Si pensi agli spazi occupati dall’una e dall’altro: la prima privilegia i luoghi sopraelevati e la verticalità (la suite e la terrazza dell’hotel, la stanza di Julian che sovrasta la palestra), il secondo si muove prevalentemente nella dimensione sottostante e orizzontale (strade, chioschi, depositi).

Ma mentre Chang può invadere lo spazio della rivale senza smarrire la forza d’impatto sull’avversaria (il redde rationem nella suite), Crystal non gode affatto della stessa libertà di movimento. La sua più plateale discesa ai piani bassi, al termine del combattimento tra il figlio e l’ex ufficiale, coincide con una precipitosa ritirata di fronte alla potenza del Super-io rivale e, di conseguenza, con la perdita di autorità agli occhi dell’Io/Julian (il dialogo nei locali della palestra immediatamente successivo al combattimento sancisce il divorzio tra le due istanze psichiche: “Non ti ho mai capito e mai ti capirò”, confessa la madre al figlio). Ancora più marcatamente di quanto osservato in precedenza tra Billy e Julian, è la sintassi filmica a disintegrarsi e riplasmarsi psichicamente in virtù della conflittualità tra Chang e Crystal. Delle ripetute deformazioni sintattiche ospitate dalla pellicola in tal senso, è sufficiente menzionare la prima: a ridosso dell’agguato teso all’ufficiale in pensione e compagnia poliziesca, si materializza un faccia a faccia impossibile tra i due, come se, presentendo l’imminenza dell’imboscata, Chang fronteggiasse idealmente Crystal, la mandante, la vera fonte dell’antagonismo, la sua controparte mentale. In questo surreale campo/controcampo, prefigurazione di un duello all’ultimo sangue per la supremazia sull’Io, Only God Forgives raggiunge il punto culminante del conflitto intrapsichico.

Precisato che chiunque sia giunto alla fine di questa recensione monstre si è guadagnato l’ammirazione incondizionata di chi scrive - che, molto più assennatamente, avrebbe interrotto la lettura alla quarta riga - occorre infine rinnegarne perentoriamente il potenziale esplicativo. Fermarsi comodamente al primo livello, proseguire spavaldamente la discesa al secondo, immergersi audacemente nel terzo o saltare arbitrariamente dall’uno all’altro è del tutto irrilevante. La sostanza non cambia, il film di Refn è un capo d’opera che nessun tentativo di spiegazione riuscirà mai a disciplinare. E affermarlo a chiare lettere dopo la fatica impiegata per portare a termine questa debordante trattazione è l’unico, autentico motivo di vanto del vostro umile recensore. Liberi di diffidare.

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