lunedì 22 aprile 2013

IL MINISTRO - L'ESERCIZIO DELLO STATO

Il ministro dei trasporti Bertrand Saint-Jean viene svegliato in piena notte dal suo capo di Gabinetto. Un pullman è precipitatao in un burrone. Non ha scelta, deve recarsi sul posto. Comincia così l'odissea di un uomo di Stato in un mondo sempre più complesso e ostile. Velocità, lotte di classe, caos, crisi economica... Tutto si incatena e si scontra. Un'urgenza via l'altra. A quali sacrifici sono pronti gli uomini? Fino a che punto resisteranno? Lo Stato divora coloro che lo servono (dal pressbook).



Stato Leviatano, ovviamente: entità sovrana cui assoggettarsi e sacrificare gli appetiti personali, giacché, come sentenzia Hobbes, “I patti senza la spada sono solo parole”. Occorre forse evocare l’ambiguità del termine “soggetto” come libero agente e soggezione al potere? Non è affatto fortuito che L'Exercice de l'État, personalizzato in italiano col titolo Il ministro - L’esercizio dello stato si apra con una sequenza onirica che ritrae una figura femminile completamente nuda darsi voluttuosamente in pasto a un gigantesco coccodrillo (conviene ricordare che una delle forme attribuite alla mostruosa creatura biblica è proprio il coccodrillo). Se la donna (Brigitte Lo Cicero), incarnazione della Repubblica e avvenente personificazione del corpo sociale, divarica le gambe, il rettile spalanca le fauci invitandola a entrare nella sua bocca. Il senso, almeno per chi scrive, è fin troppo evidente: lo Stato fagocita ogni desiderio e la conseguente erezione del ministro Saint-Jean (Olivier Gourmet) non fa che ribadire la chiave di lettura. La sua eccitazione notturna non è scatenata dalla semplice nudità femminile, ma dalla fantasia di divorare, dall’insaziabile famelicità del potere. Già, perché L'Exercice de l'État, secondo capitolo di una trilogia iniziata con Versailles (2009), è né più né meno che un film sul potere, sui suoi grotteschi cerimoniali, sulla sua libido frenetica e indifferenziata (non è dato conoscere l’orientamento del governo: l’aurea necessità dell’apparato trascende ogni determinazione politica).

La variazione di prospettiva rispetto al film precedente propone e impone un netto stravolgimento del punto di vista: se Versailles, dramma nomade con vertiginosi abissi di pietismo, si calava nell’impasse degli esclusi per raffigurare la società francese vista dai marciapiedi e dalle baracche (prima inquadratura: una panoramica dall’alto verso il basso), Il ministro - L’esercizio dello stato si solleva dal pauperismo cinematografico per cogliere l’imperiosa ritualità del potere, osservata tanto nella sua imperturbabile fissità (le scene riservate a Gilles/Michel Blanc, il capo di Gabinetto) quanto nella sua tumultuosa attività sul campo (le sequenze dei fulminei sopralluoghi del ministro dei trasporti). E in questa abolizione del partito preso risiede il maggior punto di forza del film: pur settata su parametri vagamente calligrafici, la modulazione dei registri visivi (stilizzazione, accelerazione, ibridazione mediatica, solennità) restituisce con innegabile perspicuità i lineamenti di un mondo dominato dall’ossessione della manipolazione e del presenzialismo. Agire rapidamente, piegare a proprio vantaggio le trasformazioni in atto, consolidare la propria posizione: sono queste le parole d’ordine dell’esercizio del potere. E quando la strategia si rivela insufficiente, occorre affidarsi all’intuito, alla percezione: “Nella comunicazione di crisi la realtà non conta, non c’è che la percezione a valere”, tuona il ministro dei trasporti al suo sbigottito entourage.

Precipitato di una concezione cinematografica sostanzialmente illustrativa, L'Exercice de l'État si trova tuttavia confinato nel recinto della chiarezza espositiva, della messaggistica filmica. Scrutare gli sferraglianti ingranaggi dell’amministrazione statale, svelare la struttura gerarchica che condiziona la condotta governativa (attenzione: il protagonista occulto del film è Matignon, la sede del primo ministro), mettere a nudo la funzione direttiva del Gabinetto ministeriale (il cui capo, Gilles, si nutre segretamente dell’oratoria di Malraux): il film di Pierre Schoeller è interamente consacrato alla logica dimostrativa, alla meticolosa rappresentazione dell’organigramma. Non conta che questa anatomia del potere finisca per produrre una sensazione labirintica, il metodo che la genera resta inconfondibilmente epidittico. Sicché all’appello non può mancare il personaggio incaricato di simboleggiare l’uomo comune, il cittadino volitivo e sfortunato, epitome della diffidenza nei confronti della politica. Interpretato dal non professionista Sylvain Deblé, l’autista Kuypers rispecchia il volto taciturno del popolo che presta i suoi servigi a un’autorità invadente (la cena nella roulotte con Josepha) e categoricamente fatale (l’ordine impartito da Saint-Jean all’imbocco dell’autostrada non ancora aperta al traffico). Un’autorità che vive di frasi a effetto (“E noi saremo delle tigri affamate nella nera notte”, recita il ministro a se stesso) ed esteriorizzazioni compulsive (l’orazione funebre sussurrata in chiesa). Tutto già noto e con un retrogusto di cinema nato morto, certo, ma si tratta di un funerale sfarzosamente, grottescamente allestito. Per i premi assegnati rivolgersi altrove.

Pubblicata su www.spietati.it.