martedì 26 febbraio 2013

Intervista a Jazmín López


Leones è girato con una serie di long take che, soprattutto nella prima parte, tendono a pedinare i protagonisti. Si tratta di una scelta esclusivamente estetica oppure c'è dietro il tentativo di dire qualcosa di più sul gruppo di personaggi che animano la storia?

Il fatto di mostrare i volti di ragazzi morti mi ha portato a una riflessione etica su quanto sia pornografico rappresentarli. Qual è la faccia della mortalità? Quale la forma dell’immortalità? Ma, ancora più importante, ne so abbastanza? Così diveniamo progressivamente capaci di vedere i loro volti: questa capacità cresce perché il personaggio di Isabel sta realizzando che cosa è successo. In un certo senso l’angoscia si sta tramutando in tristezza. Questa è la differenza principale tra la tristezza che deriva dalla comprensione e la disperazione che dipende dall’ignoranza di ciò che sta succedendo.

Nel film sono abbastanza evidenti diversi rimandi ad alcuni grandi film: Blow Up per la partita a pallavolo immaginata, Gerry per il finale, I quattrocento colpi per la fuga che finisce sulla spiaggia... Quanto pesa la formazione cinematografica nei tuoi lavori?

Ebbene, direi che è la cosa più importante. Sono prima un’appassionata di cinema e poi una filmmaker.

Nella seconda parte del film, dopo diverse riprese lunghe focalizzate sui protagonisti, la macchina da presa li perde per addentrarsi nella natura selvaggia. Quanto è importante questa libertà visiva e che ruolo ha la natura in Leones?

Ha più a che fare col tempo. Volevo generare un punto di vista che ne sapesse più dei personaggi. E la natura è una parte di questa narrazione: la natura ne sa di più e, insieme alla camera, aspetta il loro ritorno.

Ti ha influenzato in qualche modo la natura fantasmatica del cinema di Weerasethakul?

Non proprio, ho visto soltanto uno dei suoi film. È grande ma non l’ho davvero studiato.

Vedendo Parece la pierna de una muñeca, Juego vivo e Te amo y morite si ha l’impressione che Leones porti a compimento un discorso già presente in forma embrionale in questi cortometraggi. Potresti parlarci del modo in cui Leones dialoga con le tue esperienze cinematografiche precedenti?

Per me si tratta di una sola cosa: i tre corti e Leones sono parti di un’unica ricerca. Attraverso questi lavori sto tentando di scoprire qualcosa che non ho ancora trovato, sicché continuerò a cercare. Quello che provo a fare nei miei film non riguarda la trasformazione della realtà, al contrario voglio che immagini e suoni siano quanto più possibile reali. Eppure, da Parece la pierna de una muñeca a Leones, la camera, pur potendosi considerare un personaggio immerso nella realtà filmica alla stregua degli altri personaggi, resta una presenza che non può intervenire immediatamente e direttamente su questa realtà. In Leones la camera è in qualche modo il sesto personaggio, ma un personaggio muto. Questo statuto misto dello sguardo mi permette di spingermi in ciò che sta oltre la realtà stessa, di interrogare il supposto significato delle cose. Supposto poiché, per me, ciò che va oltre l’apparenza è come una pagina bianca in cui confluiscono presente e passato. Una pagina bianca che lo spettatore è invitato a riempire con un contributo attivo.

I due aspetti di Leones che colpiscono subito sono quello concettuale e quello sensoriale. Ma la seconda visione fa emergere la componente emotiva della vicenda: il dolore sottopelle, le relazioni tra i personaggi, la tenerezza con cui rappresenti i cinque ragazzi. E soprattutto quella luminosità finale che fa pensare a “Le cimitière marin” di Paul Valéry. Ci sono tracce autobiografiche nella storia che racconti?

Con le emozioni ho una specie di rapporto a scoppio ritardato, di solito prendo consapevolezza delle mie emozioni solo una volta che la situazione è passata. Non ho alcuna capacità di comprendere i miei sentimenti presenti, così devo sempre attendere… In parte Leones è un film su questa dinamica: Isabel deve attraversare l’intero percorso della pellicola per realizzare che cosa prova per gli altri, che cosa sia veramente accaduto a lei e ai suoi amici.

Tornando a Valéry, “Monsieur Teste” sembra essere un libro centrale per te. Se in Te amo y morite e Leones citi alla lettera alcune frasi del romanzo, più in generale il tuo sguardo cinematografico pare piuttosto simile a quello di Monsieur Teste, uno sguardo sottile e trasparente ma al tempo stesso aderente alla concretezza, profondamente in contatto con la materia delle cose…

È bello quello che dici. Per me questo libro rappresenta la perfezione della percezione e la natura di ogni linguaggio artistico: dato lo sguardo, aggiungiamo la realtà e il risultato è una realtà incorniciata. Così, alla fine, un artista è un essere umano che deve esercitare e lavorare attraverso la propria soggettività. Sono convinta che la soggettività possa cambiare la realtà dando come risultato la bellezza.

In questi anni, parallelamente all’attività registica, stai portando avanti una ricerca nel campo della pittura. In alcune tue opere di grandi dimensioni quali “Negra la línea recta” (2011) “No te mueras in mi casa” (2012) si nota una stratificazione del segno visivo che chiama in causa la cooperazione dell’osservatore. Come nei tuoi lavori cinematografici, sta allo spettatore entrare in contatto con l’immagine, interrogarla, interpretarla. Si ha insomma la sensazione che i tuoi quadri abbiano a che fare con l’illusione delle percezioni e con la vanità delle cose. Come antiche vanitates ma rappresentate in modo trasfigurato: il tuo segno pittorico sembra uccidere l’oggetto rappresentato per restituirci una forma più potente ed essenziale dell’oggetto stesso.

Nei miei lavori di grandi dimensioni si possono indovinare le varie fasi dell’elaborazione, lascio spesso tracce del processo di composizione nell’immagine. Grazie all’ampiezza dei quadri [alcune opere raggiungono la misura di 210 x 340 cm], è possibile scorgere i vari strati che si sovrappongono dando sia l’impressione di non finito che quella dei diversi tempi di produzione dell’immagine: ampie porzioni di tela grezza, segni e contorni appena accennati, figure delineate nel loro divenire. E, come nei miei film, lo spettatore è sollecitato a scorgere e integrare, in modo attivo e personale, i tempi e gli spazi che si dispiegano davanti ai suoi occhi. Sto provando a collegare tempi diversi creando un cerchio perfetto: sotto la sensualità, il cerchio è una sorta di tunnel aperto che ci permette di continuare a camminare emotivamente in questo mondo. 

Intervista pubblicata su www.spietati.it.