martedì 25 settembre 2012

Coen Brothers

 Più di due anni fa, recensendo il volume dedicato a Malick, definivo la pubblicazione Moviement una notevole sorpresa nel campo dell’editoria cinematografica, mettendone in rilievo l’eccellenza dei contenuti e la produttività dell’approccio multidisciplinare. Ebbene, oggi la collana è giunta al settimo titolo, ha svariati progetti in cantiere (imminente l’uscita di un nuovo volume) e da sorpresa si è trasformata in evidenza, confermando di numero in numero (Kira Muratova, Horror Made in Italy, Quentin Tarantino, Jan Švankmajer) la qualità degli approfondimenti e l’ampiezza di vedute metodologiche su autori e generi presi in esame.
Come di consueto, il volume Coen Brothers è aperto da Costanzo Antermite e Gemma Lanzo con un Editoriale che, oltre a tracciare sinteticamente le coordinate critiche del numero, precisa efficacemente il movimento interno del cinema dei Coen. Un cinema inizialmente basato su premesse noir, ma che nel corso del tempo “ha allargato via via i propri orizzonti tematici operando nel corpus dei generi cinematografici tradizionali quella ‘decostruzione narrativa’ che, senza imparentarla più di tanto alla moda filosofica del ‘postmoderno’, è stata il loro più evidente marchio di fabbrica”.

Il saggio Joel e Ethan Coen di Paul Coughlin, già apparso su “Senses of Cinema” nel 2003, prende le mosse dalla constatazione che “I Coen sono attratti da due modelli espressivi apparentemente incompatibili: il regionalismo etnografico e la costruzione artificiale”. A partire da questo assunto, Coughlin ripercorre la vicenda biografico-cinematografica dei due fratelli del Minnesota evidenziandone i tratti distintivi (l’interesse per il linguaggio, l’attenzione al localismo, il sovvertimento delle convenzioni di genere, l’esibizione dei processi di costruzione testuale) e valorizzandone il portato sarcasticamente provocatorio: “I fratelli Coen conoscono benissimo il cinema, lo conoscono abbastanza da ravvisarne le idee alla base dei suoi procedimenti e da trovare i valori che tali sistemi hanno progettato e sostenuto”.

In Bloody Coen, buon sangue (non) mente, scritto da me medesimo, ho circoscritto l’analisi alla produzione coeniana di matrice noir (Blood Simple - Sangue facile, Crocevia della morte, Fargo, L’uomo che non c’era e Non è un paese per vecchi) con brevi cenni ai titoli che col crime movie intrattengono un dialogo più o meno episodico o dissimulato (Barton Fink, Il grande Lebowski). Seguendo la scia di sangue che attraversa le pellicole nere dei Coen, nei rivoli di questo fil rouge ho rintracciato un progressivo svuotamento di senso che ha trascinato con sé la concezione coeniana del genere dal gusto per l’inganno alla contemplazione dell’assurdità. Per sfociare infine, col noir terminale No Country for Old Men, in inarginabile nichilismo.

Non è un paese per vecchi e la filosofia morale di Douglas McFarland - già pubblicato nel volume curato nel 2009 da Mark T. Conrad The Philosophy of the Coen Brothers - focalizza l’attenzione sulle implicazioni etiche deducibili dai comportamenti dei personaggi principali. Se le azioni dello sceriffo Ed Tom Bell (Tommy Lee Jones) lo collocano in una difficile situazione post-kantiana, ovvero in una condizione altalenante tra il rispetto della legge come imperativo morale e il giudizio della propria condotta alla luce dei risultati ottenuti, quelle di Llewelyn (Josh Brolin) sembrano inizialmente designarlo come un eroe esistenziale che tenta di creare un significato autonomo in un mondo senza significato, ma successivamente lo connotano come un eroe tragico kierkegaardiano (“incapace di sospendere la decisione etica per affermare il proprio insieme di significati in un contesto che sembra assurdo”). La riflessione di McFarland si appunta poi sulle figura di Chigurh (Javier Bardem), definito “uomo paradossale”, e sulla riluttanza finale di Carla Jean (Kelly MacDonald) ad assecondare il perverso lancio della monetina, insistendo sulla responsabilità soggettiva di Chigurh e restituendo così alle circostanze il giudizio morale.

Gemma Lanzo, con Commedia alla Coen, scandaglia i fondali della produzione beffardamente umoristica dei Coen, rinvenendo nei meccanismi della screwball e della sophisticated comedy alcuni procedimenti (dialoghi accelerati, situazioni ingarbugliate, fraintendimenti e disavventure) da loro liberamente e felicemente reinterpretati. Individuando in Preston Sturges il maggiore referente classico (“Fratello, dove sei? è proprio un omaggio al film-manifesto di Sturges I dimenticati”) e rifacendosi all’osservazione di Kierkegaard sul comico come rappresentazione delle contraddizioni non mediate della condizione umana, il saggio mette in luce la comicità latente che impregna l’intera filmografia coeniana. Una comicità che, articolandosi sulla relazione causa-effetto scatenata dai comportamenti involontari dei personaggi e sul contrasto tra mondi completamente diversi, propone un punto di vista teso a “sdrammatizzare l’ineluttabilità della condizione umana e dei suoi risvolti”.

Dopo il personale intervento di David Del Valle Drugo, dov’è il mio tappeto?, affettuosa rievocazione che definisce Il grande Lebowski un “noir losangelino postmoderno” nonché il capolavoro dei fratelli Coen, Elena Dagrada e Gabriele Gimmelli si addentrano - con Il tempo ci sfugge. A proposito de “Il Grinta” - nell’analisi del quindicesimo lungometraggio coeniano. Rilevato lo svarione di alcuni commentatori che hanno definito la pellicola un remake dell’omonimo western del 1969 di Henry Hathaway e ristabilita la corretta prospettiva critica (un’altra versione cinematografica del romanzo del 1968 True Grit di Charles Portis), Dagrada e Gimmelli si insinuano agilmente negli ingranaggi testuali e intertestuali. Muovendo dalla fondamentale e tipica operazione di svuotamento/riempimento effettuata dai Coen sul genere frequentato, la loro analisi si spinge nelle pieghe del film mostrando come “gli aspetti più interessanti (…) sono forse quelli meno tipici dei nostri autori”: la netta oscillazione tra visione crudamente oggettiva e deformazione fortemente soggettiva, la rimarchevole/rimarcata età della giovane protagonista e l’inedito avvicinamento dei fratelli Coen al racconto di formazione. Infine l’indagine si allarga di nuovo per porre l’accento sulle suggestive assonanze con La morte corre sul fiume (1955) di Charles Laughton e per inquadrare l’ambientazione baracconesca del Wild West Show conclusivo nell’ottica complessiva di un film che “guarda meno al western classico di Ford (…) di quanto non affondi lo sguardo dentro gli spettacoli di Buffalo Bill”.

Completano il volume due vivaci interviste (Gli angeli custodi dei fratelli Coen di Alex Simon e I fratelli Coen parlano de “Il Grinta” di Cole Haddison), un gustoso florilegio di citazioni, una snella filmografia e una mirata bibliografia (cui segue l’elenco delle edizioni in Dvd). 

Recensione pubblicata su www.spietati.it

venerdì 21 settembre 2012

PIETÀ


Kang-do, scagnozzo di un boss che concede prestiti a usura con vertiginosi tassi d’interesse, ha un metodo tutto suo per riscuotere i crediti: rende invalidi i debitori per intascare il milionario indennizzo dell’assicurazione. La sua cruenta routine è però scombussolata da un evento del tutto inaspettato: gli si para dinanzi una donna di mezza età sostenendo di essere sua madre. Dapprima respingente e profondamente diffidente, giorno dopo giorno Kang-do si persuade che la donna pentita e servizievole sia davvero sua madre.
È indubbio che in qualità di parabola, ossia di racconto esemplare/paradigmatico, Pietà risulti in gran parte riuscito. La critica al conflittuale ‘denarocentrismo’ (“Cosa sono i soldi? L’inizio e la fine di tutte le cose”) della società sudcoreana e per estensione di tutte le realtà economicamente e criticamente sviluppate, seppur di natura semplicistica e tutto sommato incompleta, possiede una centralità indiscutibile. Non suona dunque come trascurabile civetteria autoriale l’affermazione di Kim Ki-duk a proposito del denaro quale terzo personaggio del suo diciottesimo lungometraggio: l’impietoso esattore Kang-do (Lee Jung-jin) non fa che estremizzare e imbarbarire quella logica economica che, in forme socialmente legittimate, persegue i debitori insolventi fino a metterne a repentaglio la sopravvivenza. A dire il vero l’esponente creditizio è addirittura al cubo: il prestito a usura ne rappresenta già un’elevazione al quadrato e il fratturante sistema di riscossione escogitato da Kang-do ne costituisce un’addizione esponenziale (il suo boss giunge persino a rimproverargli l’eccessiva ferocia, chiamandolo ‘macellaio’).

L’implacabilità di Kang-do, che respinge le accuse dei debitori rinfacciando loro di aver chiesto soldi in prestito sapendo di non poterli restituire, altro non è che l’inattaccabile e schiacciante logica del capitale: ecco che cosa, a chiare lettere, dice Pietà. Kang-do è personaggio emblematico, insomma, così come emblematica appare la figura femminile di Mi-seon (Cho Min-soo): è forse il caso di ricordare che nella cinematografia coreana i soggetti femminili recano nel loro corpo un’analogia con l’intera nazione (è il profilo geografico della penisola, tra le altre cose, ad aver in qualche modo suggerito e incentivato l’assimilazione tra figura femminile e identità nazionale). Sicché, di allegoria in analogia, Pietà sviluppa un discorso tutt’altro che inedito o ideologicamente stratificato (il progetto punitivo non abbandona mai i confini della prospettiva individuale per farsi coscienza dialettica), ma non per questo rinuncia a sostanziarlo drammaticamente e oggettivarlo cinematograficamente. In altri termini, non basta dire che il cinema di Kim ha già affrontato tematiche e dinamiche affini con esiti migliori (Bad Guy e Address Unknown sono i primi titoli che vengono in mente), ma occorre osservare concretamente ciò che è cambiato rispetto ai film degli esordi.

Nel corso degli anni - indicativamente tra Samaria, Primavera… e Ferro 3 - Kim è andato smaterializzando il suo cinema, letteralmente ‘disincarnandolo’ (si veda proprio Ferro 3) e tramutandolo in un gigantesco contenitore di simboli privi di base materiale e non necessitati dal punto di vista narrativo (sprovvisti cioè di quella che Jean Mitry chiama ‘logica di implicazione’, processo di arricchimento semantico che si attualizza nel corso del film). È convinzione di chi scrive, dunque opinabilissima, che solo il ricorso a una sorta di pensiero magico sia in grado di restituire a questo repertorio autoreferenziale le proprietà espressive necessarie all’articolazione di un dialogo con lo spettatore, sia pur su basi squisitamente poetiche. Non si tratta di immagini o situazioni chiave che condensano, come il nucleo incandescente di una sfera, il senso disseminato e riflesso per lampi in tutto il testo (cosa che, al contrario, succedeva in Address Unknown, dove un corpo conficcato nel terreno esprimeva fisicamente la lacerazione serpeggiante nell’intero film), ma di simboli araldici, blasoni di rappresentanza che attestano la nobiltà del titolo.

Con Arirang, videoconfessione che mescola autocommiserazione, narcisismo e arroganza addobbata di rinunce, qualcosa è effettivamente cambiato. Pur prescindendo dalla visione di Amen, lavoro che, stando alle poche immagini e notizie in circolazione, si candida a operatore di passaggio tra il minimale solipsismo di Arirang e la rinnovata vitalità di Pietà, il film vincitore del Leone d’Oro presenta numerosi elementi di rigenerazione cinematografica. Sarebbe troppo facile affermare che Kim è tornato alle origini, a un cinema di stordente violenza e lacerante dolcezza: l’esperienza maturata nel frattempo, associata alla visibilità internazionale, ha profondamente spostato le coordinate della sua poetica. Eppure nell’uso istintivo e convulso della camera digitale s’indovina il tentativo di ridisegnare un’estetica barbara, ancorata alla materialità delle cose. Lo stesso timbro cromatico-luministico delle immagini, di una cupezza opprimente che si schiarisce episodicamente in abbacinante candore (soprattutto nel prefinale), segna una brusca inversione di marcia rispetto alle tavolozze tenui o sgargianti delle pellicole precedenti, riversando la livida oscurità di Arirang su una tela nuovamente solida e resistente agli strappi sintattici.

 Per quanto il tentativo di riallacciarsi all’estetica dei film degli esordi (da Crocodile a The Coast Guard per intenderci) trovi riscontro anche nella rappresentazione del quartiere residuale e fatiscente di Cheonggyecheon dove il giovane Kim ha lavorato come operaio, lo slancio rigenerativo di Pietà deve tuttavia fare i conti col precipitato del periodo calligrafico (da Ferro 3 a Dream, con Primavera… e La samaritana a fare da titoli di transizione). Sotto l’opaco involucro digitale si intravede insomma un’artificiosità drammaturgica scaltramente ammiccante (la revisione del film in questo senso è determinante): dialoghi programmatici e capziosi (l’elencazione in crescendo sui significati del denaro), parabola espiatoria (la disperante via crucis di Kang-do), costruzione narrativa a sorpresa (illustrata esplicitamente allo spettatore in una situazione di stridente inverosimiglianza). Ancora: il personaggio di Mi-seon opera da auctrix/spectatrix in fabula (oltre a manipolare e dirigere Kang-do, ne osserva scrupolosamente le reazioni), il maglione preparato all’uncinetto funge da correlativo oggettivo del progredire della trama vendicativa (non solo la accompagna, ma la porta metonimicamente a compimento), i rari riflessi della donna sull’acquario nell’appartamento di Kang-do alludono alla doppiezza della sedicente madre (doppiezza che l’ultimo terzo di film si premurerà di sfrondare da ogni ambiguità).

Infine la camera saetta zoom e si agita convulsamente in corrispondenza dei momenti di maggiore tensione o delle esplosioni di violenza, una violenza relegata tatticamente e sistematicamente fuori campo con stacchi calcolati ed ellissi grafiche (particolare su una punta ruotante di acciaio, stacco sul pavimento irrigato di sangue). Stilizzazione, ovvero caricatura dello stile: leggibile, convenzionale e facilmente apprezzabile/riconoscibile. Persino l’epilogo, in cui Kim ritrova la potenza visiva primigenia, viene sovraccaricato da un implorante e sublimante Kyrie che ne attutisce sonoramente l’incidenza espressiva. Alla luce di ciò, non sorprende più di tanto l’affermazione veneziana di Pietà: nel migliore dei mondi possibili La cinquième saison di Peter Brosens e Jessica Woodworth si sarebbe aggiudicato il Leone d’Oro all’unanimità. In questo il maggior riconoscimento va a una pellicola interlocutoria che, pur dicendoci di una poetica non più totalmente schiava di un simbolismo evanescente e parzialmente ricondotta alla dimensione concreta, costituisce un film di passaggio e non un punto d’arrivo.

Recensione pubblicata su www.spietati.it

lunedì 10 settembre 2012

Film dell'anno 2011-2012

Ripartiti per coppie rigorosamente arbitrarie, i miei film della stagione 2011-2012. Gli ultimi due non mi parevano assimilabili, sicché li ho lasciati così, liberi e scoppiati.
 

Drive/Faust: due pellicole che, a latitudini e temperature drammatiche pressoché opposte, affermano il potere mitopoietico del cinema. Refn sublima il noir metropolitano d’impronta anni ’80 innestandolo su una struttura fiabesca. Sokurov trasfigura la parabola mefistofelica di ascendenza letteraria scaraventandola nel pantano del grottesco. In Drive il cinema feticizza la nobiltà d’animo dell’eroe, in Faust magnifica il sordo ribollire del caos.



Melancholia/Take Shelter: i due volti della catastrofe. Von Trier ne mostra l’aspetto esteriore, il profilo misurabile; Nichols ne materializza il risvolto interiore, l’angoscia imponderabile. Nel primo uno stato d’animo si fa pianeta, nel secondo un cataclisma si fa stato mentale.


C’era una volta in Anatolia/Le paludi della morte: Anatolia o Texas non fa differenza, quelli di Nuri Bilge Ceylan e Ami Canaan Mann sono polizieschi che si smarriscono, perdersi nelle relazioni e sfrangiarsi nelle trasformazioni è la loro vocazione. Dissezione della solitudine professionale (Ceylan), scomposizione della serialità omicida (Mann): nello smarrimento il nichilismo si converte in compassione, il cinismo in adesione.

Polisse/La guerra è dichiarata: non film sulla pedofilia e la malattia ma film sulla vitalità e la solidità, soggetti più rari di quanto sembri. Maïwenn Le Besco graffia il realismo quotidiano della Brigade de protection des mineurs con brucianti frizioni sentimentali, Valérie Donzelli intacca l’amour fou di Juliette e Roméo con sfibranti sedute chemioterapiche. Ma, in entrambi i casi, i colpi ricevuti non radono al suolo. Anzi. Polisse: “Voici venu le temps des rires et des chants/Dans l’île aux enfants”. La guerre est déclarée: “Face à l’immense épreuve qu’ils traversaient, ils sont restés solides. Détruits, certes, mais solides”.

Il buono, il matto e il cattivo : distribuito con tre anni di ritardo rispetto all’uscita in Corea, il film record di Kim Jee-woon (film sudcoreano più costoso fino al 2008, campione d’incassi dell’anno e vincitore di ben quattro Blue Dragon Awards) inverte la tendenza americanizzante che ha contraddistinto la stagione dei blockbuster sudcoreani a partire da Shiri (Kang Je-gyu, 1999). Non più un blockbuster che adotta il linguaggio hollywoodiano adattandolo alla sensibilità coreana, ma un film ad altissimo budget e vertiginosa densità spettacolare che mostra al mondo intero l’emancipazione linguistica del cinema nazionale.

A Dangerous Method : language is a virus.








Nel frattempo, altrove, il cinema canta e incanta.

Hors Satan, Dumont

L'Apollonide - Souvenirs de la maison close, Bonello 
Post tenebras lux, Reygadas

Killer Joe, Friedkin

Tyrannosaur, Considine

Livide, Bustillo & Maury
 
 
NOÉ(NTER): prova a prenderlo.