martedì 31 luglio 2012

LIVIDE


Bretagna. Durante il primo giorno di tirocinio infermieristico, la giovane Lucie viene a sapere che nella villa di Deborah Jessel, ex istruttrice di danza ormai ridotta a un vegetale, si nasconde un tesoro ben custodito. Rivelato il segreto al fidanzato William, la ragazza si lascia convincere a penetrare nella sinistra dimora dopo un’iniziale riluttanza. Così, la notte di Halloween, Lucie, William e l’amico comune Ben si intrufolano nell’abitazione della decrepita Jessel intenzionati a scovare il misterioso tesoro.


“Al limite del Bosco Nero, Christophe si fermò. Senza voltarsi, il corpo inclinato e il collo teso in avanti, fece un gesto rapido con la sua mano aperta. Gli altri due si erano immobilizzati qualche passo dietro di lui. Trattenendo il respiro, ascoltavano senza staccare gli occhi dalla sua sagoma che si stagliava contro il cielo ancora chiaro”: inizia così Malataverne (1960) di Bernard Clavel, riferimento letterario fondante di Livide. Un romanzo sulla perdita dell’innocenza che si sviluppa attorno alla preparazione di un furto da parte di tre adolescenti ai danni della vecchia e sorda mère Vintard, proprietaria della fattoria eponima. All’origine di Livide vi è sostanzialmente questa domanda: quale potrebbe essere il pendant fantastico di Malataverne? Si tratta insomma di uno spunto estrapolato dal libro di Clavel (donde il cognome dell’eroina del film Lucie), un classico della letteratura francese studiato nelle scuole che si concentra quasi esclusivamente sulle fasi preliminari del colpo (all’irruzione nella fattoria sono dedicate soltanto le ultime dieci pagine) e si conclude drammaticamente quando i giovani protagonisti entrano nella sinistra proprietà di mère Vintard, luogo minaccioso fin dal nome (“Malataverne c’est le coin du malheur…”). Una vera e propria espansione/rivisitazione fantastica di un classico della letteratura adolescenziale francese.


Ma se lo spunto iniziale affonda le radici nella letteratura, il sostrato cinematografico si nutre di suggestioni provenienti dai film di Argento e dalle produzioni Hammer, in una sorta di crossover orrorifico-gotico sul quale si innesta il tentativo di elaborare una mitologia vampiresca che si riallacci ai racconti del folklore celtico e bretone (l’ambientazione in Bretagna, le leggende sui fuochi fatui,) e che, al contempo, si distacchi dall’iconografia convenzionale (la fotofobia, i parafernali religiosi). Il secondo lungometraggio del duo Bustillo-Maury compie dunque una brusca sterzata rispetto alla tranciante violenza di À l’intérieur: il realismo tangibile del film d’esordio, già divenuto oggetto di culto e impostosi come punta di diamante della Nouvelle trouille, trascolora in arrangiamenti stilistici più contemplativi ed eleganti, in configurazioni audiovisive spinte progressivamente verso tonalità macabre intrise di morboso lirismo. Ed è nella disciplina della danza, comunemente associata al binomio grazia/bellezza, che Bustillo e Maury individuano una pura sofferenza da declinare in chiave fantastica: il personaggio di Deborah Jessel (interpretata dalla ballerina Marie-Claude Pietragalla) coagula paradossalmente in sé i tratti antitetici di orrore presente (il ripugnante status di mummia/vampiro) e perfezione passata (l’intransigente istruttrice di una scuola rinomata).

Anche se il film è vagamente influenzato da Inferno per il suo côtè totalmente onirico e divagante, Suspiria, letteralmente venerato da Bustillo e Maury, costituisce un nesso intertestuale aperto e dichiarato. Il legame diretto si materializza quando Lucie (Chloé Coulloud) illumina con la torcia elettrica il diploma di danza di Deborah Jessel (rilasciato dalla Tanzakademie di Freiburg, la scuola del film di Argento): la vecchia istruttrice è stata allieva nientemeno che di Elena Markos, la Mater Suspiriorum. A questa ascendenza argentiana si sovrappongono, goticizzandola, risonanze da haunted house movie (rumori inquietanti, presenze fantasmatiche, porte e finestre che si chiudono autonomamente) e risvolti malinconici sempre più accentuati (dai flashback medianici imbanditi dalla rediviva Jessel alle atmosfere rarefatte del climax finale sulle falesie bretoni). Autentica spina dorsale di Livide: la “malavilla”. Strutturata come un personaggio in carne e ossa, la maison Jessel presenta una conformazione organica che elegge la camera della ultracentenaria inferma a testa dell’edificio, la stanza della figlia/bambola Anna (Chloé Marcq) a meccanismo cardiaco e la cantina dalla quale penetrano Lucie, William (Félix Moati) e Ben (Jérémy Kapone) ad apparato intestinale (è lì che si accumulano i residui domestici).

Disseminato di indizi cinefili come l’insegna del pub della madre di William (“L’agneau abattu”, traduzione letterale del “The Slaughtered Lamb” di Un lupo mannaro americano a Londra) e assortito di rugginose autocitazioni (pur ossidate, le forbici di À l’intérieur conservano una loro perforante utilità), Livide ha nell’allusiva dichiarazione della (in)fida madame Wilson (Catherine Jacob) il suo intrigante principio (intrigante poiché insinuante e funzionale all’intreccio): “Il valore di un tesoro risiede talvolta nel suo segreto”. Vero è che la seconda parte (dall’irruzione nella villa in poi) non possiede l’angosciosa compattezza che caratterizzava la pellicola d’esordio del duo: a sequenze di maciullante ferocia (il corpo a corpo tra Willam e Ben, lo smascellamento della vecchia Jessel) si alternano parentesi intimiste che oscillano tra il calligrafico e il comico involontario (le disarticolate evoluzioni della bambola vivente Anna, l’ultima lezione di danza impartita dalla Jessel alla figlia). Ma, al netto di un budget leggermente inferiore a quello di À l’intérieur (tra il milione e mezzo e i due milioni di euro), l’intento di Bustillo e Maury di smarcarsi dal flagrante realismo del loro primo lungometraggio e dei successivi horror French Frayeur può dirsi essenzialmente riuscito.

Pur tenendo conto del vistoso e progressivo sfilacciamento del film in una serie di pannelli orrorifico-fantastici di variabile intensità ed efficacia, nonché della sarabanda di finali potenziali (se ne contano almeno quattro), Livide si segnala in ultima analisi per un paio di aspetti tutt’altro che irrilevanti. Il primo consiste nella deliberata cancellazione della componente sociopolitica ricorrente nella maggior parte dei titoli della Nouvelle trouille (oltre ai ben noti Frontière(s), Martyrs e allo stesso À l’intérieur, è impossibile non menzionare i meno noti Le village des ombres di Fouad Benhammou e, soprattutto, il sottostimatissimo survival franco-canadese Territoires di Olivier Abbou). Il secondo concerne invece la pietrificazione dei corpi: dal seminale Maléfique (2002) in poi, il nuovo horror francese non ha fatto altro che esasperare la tangibilità dei corpi femminili, la loro plasticità e vulnerabilità (in un chiaro movimento allegorico, secondo chi scrive, di investimento politico). Livide, al contrario, devitalizza e imbalsama i corpi, assimilandoli gradualmente e perentoriamente ai crocifissi di pietra che si stagliano “contro il cielo ancora chiaro” nell’incipit. La presentazione di Lucie in posa statuaria e immobile alla fermata del bus, la mummificazione comatosa della vecchia istruttrice di danza, la conversione della figlia Anna in automa, il trasferimento di tratti organici alla villa Jessel: tutti segnali di pietrificante reificazione dei corpi. Su questa superficie marmorea - irradiata dalle luci à la Georges de La Tour del direttore della fotografia Laurent Barès e scolpita dal lapidario montaggio di Baxter - lo sguardo di Bustillo e Mary non può che scivolare e pattinare ininterrottamente, talvolta precipitando rovinosamente, talaltra (come nell’epilogo aereo), librandosi in volo alla deriva. Senza giustificazioni didascaliche o tronfie spiegazioni, semplicemente sfrecciando verso l'orizzonte.

Recensione pubblicata su www.spietati.it.

domenica 15 luglio 2012

Take Shelter (2011), Jeff Nichols


Curtis LaForche vive in una piccola citta dell’Ohio con la moglie Samantha e la figlia di sei anni Hannah, affetta da sordità. Curtis si guadagna modestamente da vivere come caposquadra in una compagnia di estrazione sabbia. Samantha è una madre casalinga e sarta part-time che arrotonda le entrate della famiglia vendendo, ogni fine settimana al mercatino delle pulci, merce fatta a mano. Il denaro è comunque poco e barcamenarsi tra le cure di Hannah e l’educazione specializzata di cui ha bisogno la bambina non è affatto facile. Ciononostante, Curtis and Samantha si amano profondamente e la loro è una famiglia felice. Improvvisamente Curtis inizia ad avere incubi su una tempesta incombente. Tuttavia decide di non rivelare alla moglie il turbamento che agita i suo sonni, convogliando l’ansia nella costruzione ossessiva di un rifugio anti-tornado nel giardino dietro casa. Il suo comportamento apparentemente incomprensibile preoccupa Samantha e provoca contrasti con colleghi, amici e vicini. Ma l’incrinatura del rapporto coniugale e la crescente ostilità della comunità non attenuano affatto le fobie di Curtis.


L’ansia scaturisce dalla consapevolezza di aver qualcosa da perdere: è questa l’idea embrionale di Take Shelter. Un’idea semplice e piuttosto banale (quanti di noi non storcerebbero la bocca a sentirla pronunciare come fosse una verità assoluta?), ma Jeff Nichols, già autore dell’apprezzabile Shotgun Stories (2007), la sviluppa in forme cinematografiche tutt’altro che insulse e risapute, mostrando un indubbio talento visivo e un’abilità altrettanto ragguardevole nel tenersi in equilibrio tra suggestioni ambientali e incisività narrativa. Classe 1978, il cineasta e sceneggiatore americano ha descritto così le motivazioni profonde che lo hanno spinto a concepire il suo secondo lungometraggio: “Quando ho iniziato a scrivere Take Shelter ero a metà del mio primo anno di matrimonio. Benché la mia carriera e la mia vita personale fossero su una buona strada, avevo la sensazione assillante che il mondo in generale andasse incontro a momenti più difficili. Questa ansia generalizzata era in parte economica e in parte soltanto crescente, ma in prevalenza derivava dal fatto che finalmente nella mia vita avevo delle cose che non volevo perdere. Tutte queste sensazioni sono filtrate direttamente nei personaggi di questo film” (dichiarazioni tradotte dal sito ufficiale).

Eminentemente emozionale, la concezione cinematografica di Nichols (si notava già chiaramente in Shotgun Stories) mira a stabilire una connessione tra film e spettatore sulla base di sentimenti personali e ordinari (la vendetta nel lungometraggio precedente, la preoccupazione per il futuro in questo) aggregandoli allo spirito del tempo, intercettando insomma angosce diffuse (il tambureggiare delle guerre, la crisi economica mondiale) e fissandole in manie ossessive di ampia potenzialità drammatica (la faida familiare in Shotgun Stories, la lilapsofobia in questo frangente). Era così che una tragedia domestica ambientata nell’Arkansas quale Shotgun Stories diveniva parabola in qualche modo universale sulla necessità di interrompere la spirale vendicativa, ed è così che un dramma paranoico ambientato nell’Ohio come Take Shelter si tramuta in thriller apocalittico sull’incertezza dell’avvenire, sul timore di un cataclisma imminente. Ancora Nichols: “Ho scritto Take Shelter perché credevo che nel mondo ci fosse un sentimento palpabile. Si trattava di un’ansia molto reale nella mia vita e avevo la convinzione che fosse altrettanto reale nelle vite degli altri americani così come per le persone di tutto il mondo. Questo film è stato un modo di parlare di quella paura e quell’ansia”.

Per ampliare lo spunto privato e conferire universalità alla sensazione intima, Nichols ricorre a un approccio epico nonostante il budget non esorbitante. Innanzitutto non rinuncia alla pellicola: dal momento che Take Shelter è un film sui cieli, non intende affidare la resa fotografica delle turbolenze ambientali all’aleatorietà dell'immagine digitale. In secondo luogo abbraccia il formato panoramico (2:35): il CinemaScope espande la tela visiva e dilata la percezione atmosferica (non soltanto gli addensamenti nuvolosi e i tracciati elettrici dei lampi, ma anche l’orizzontalità dei paesaggi e il manifestarsi di inquietanti presagi come le formazioni aeree disegnate dagli stormi di uccelli). Infine pone grande attenzione alla dimensione sensoriale della rappresentazione, enfatizzando i dettagli tattili e olfattivi (si pensi al prologo: Curtis si sfrega le dita bagnate di pioggia oleosa e subito dopo le annusa), assegnando così forte rilevanza semantica all’attività percettiva slegata dal dominio verbale (importanza dei gesti e delle percezioni ribadita dal linguaggio dei segni adoperato per comunicare con la figlia e rimarcata dalla densità sensoriale che contraddistingue gli incubi e le allucinazioni del protagonista: “It‘s hard to explain because it’s not just a dream, is feeling”, confida Curtis alla moglie Samantha).

Ne risulta un film di robusto impianto cinematografico in cui l’assenza della canonica struttura drammaturgica in tre atti (a. introduzione dei personaggi; b. conflitto; c. risoluzione) è rimpiazzata da una pronunciata linearità e da una salda coesione narrativa (i movimenti dei personaggi e la loro collocazione temporale sono sempre ben definiti). Curato dalla casa Hydraulx (la stessa di Avatar), il comparto effetti speciali non scombussola l’allestimento visivo classico (scansione netta delle sequenze, soggettive e semisoggettive di immediata leggibilità) e si limita a distorcere alcuni parametri realistici in chiave allucinatoria (come nell’incubo con sospensione dei mobili). Ma, al di là di queste distorsioni piuttosto rarefatte, gli incubi sono rappresentati con la stessa nitidezza delle sequenze reali, come se il film entrasse di nascosto nella dimensione onirica senza separarla dal resto della storia. E nonostante Nichols adotti uno stile sostanzialmente omogeneo sia nella rappresentazione della realtà di primo grado che in quella deformata dalla paranoia strisciante di Curtis, le percezioni del protagonista creano un clima che impedisce di stabilire a colpo sicuro se ciò che stiamo vedendo sia reale o sia invece frutto della sua angoscia (e talvolta è lo stesso Curtis a chiederselo, come avviene quando ferma l’auto sul bordo della strada per guardare i lampi in lontananza mentre Samantha e la piccola Hannah stanno dormendo in macchina).

Vergogna, reticenza, aggressività e (in)comprensione costituiscono i poli emotivi di una vicenda di ordinaria paranoia domestica, alla quale Michael Shannon (già protagonista di Shotgun Stories) e Jessica Chastain (suggerita personalmente a Nichols da Terrence Malick) apportano tuttavia credibilità e forza espressiva: se il primo dà vita a un personaggio scisso tra responsabilità familiari e tendenze psicotiche di paventata matrice ereditaria (tramite madre schizofrenica), la seconda oscilla tra atteggiamenti rigidamente iperprotettivi e tenerezze inopinate, arricchendo la figura di Samantha - inizialmente piuttosto monocorde - di ottave interpretative sorprendenti (si veda l’epilogo in riva al mare, sostanzialmente costruito sull’incredulità che si materializza sul suo volto). Circonfuso da un commento musicale minimale nella prima parte e di montante drammaticità nella seconda, Take Shelter sprigiona infine un retrogusto di pungente ambiguità: oltre a fungere da cartina di tornasole per l’angoscia generalizzata di cui sopra, il disagio psichico di Curtis agisce da catalizzatore dell’ostilità latente, portando allo scoperto meschinità, chiusure e opportunismi socialmente accettati (l’intransigenza del datore di lavoro, la preoccupazione formale del fratello, lo spropositato rancore dell’ex amico e collega). Sprovvista della patente di normalità ed esposta al giudizio della comunità, la lilapsofobia di Curtis e la conseguente decisione di costruire un rifugio anti-tornado appaiono in filigrana come comportamenti assai meno disturbati e disturbanti del verdetto categorico ed emarginante espresso dalla collettività tutta (cui l’epilogo riserva un futuro tutt’altro che sereno). Graffiante valore aggiunto di un film che si è aggiudicato il Gran Premio della Semaine Internationale de la Critique al Festival di Cannes 2011.

Recensione pubblicata su www.spietati.it.

giovedì 12 luglio 2012

Bertrand Bonello

Speciale dedicato a Bertrand Bonello pubblicato su www.spietati.it.

Introduzione a cura di Giulio e Alessandro :)

Franto e mobile, estatico e divagante, il cinema di Bertrand Bonello è un’Odissea identitaria che non conosce il paradigma del racconto di formazione. Una danza di corpi che s’agitano per non rimanere cristallizzati in etichette, il divincolarsi scomposto del soggetto per sfuggire alla trama della psicologia, il conflitto tra carne e società, la violenza con cui la seconda determina il destino della prima (cronenberghianamente, ammette egli stesso in una sorprendente analogia). Quello di Bonello è cinema del reale: perché guarda al mistero opaco della semplice presenza, ai corpi nello spazio e nel tempo, e scandaglia - evocandolo tramite lo specifico del cinema - il fantasma che aleggia sulla realtà, la messa dei desideri che lega i personaggi, la viva tensione immaginaria che li muove. Frammenti irrelati, scene indigeste ai manuali di sceneggiatura si associano al montaggio, creano una dimensione indifferente alle logiche realistiche della cronologia, della causa e dell’effetto, per cercare una visione differente, sottratta alle abitudini, agli schemi interpretativi, in un cinema che rigetta le formule e cerca la purezza, piana e violenta, delle atmosfere.


Il cinema di Bonello è, sempre, un tentativo, un’incertezza in attesa di una verifica che non può che essere nello spettatore. Per questo è antintellettuale e sensoriale, per questo le parole, nei suoi film, non sono veicoli preferenziali di significato, ma un elemento, come un altro. Per questo il cinematografo e la sua Storia sono urgenze che non si sedimentano tanto sul suo sguardo, ma sugli occhi e il cuore, sul mistero irriducibile del mondo dei suoi protagonisti: la sua cinefilia è delegata, la sua opera parte necessariamente dall’uomo, non dal cinema, rimanendo estranea dunque alla poetica di registi obliqui, tra verità e citazione, come Ozon, Donzelli, Honoré, ai quali solo superficialmente, per un diffuso sentimento nouvelle vague, il nome Bonello si potrebbe accostare. E se la struttura, il respiro, sono quelli di un cinema anticanonico, garreliano, dove la narrazione è esplosa e le scene madri sono disperse, è il carattere affettivo a meravigliare, imploso dentro a corpi che faticano a trattenerlo, in dialogo con accorgimenti, dettagli, aperture musicali, che dalla sobrietà bressoniana giungono al romanticismo esibito.


Questo musicista convertito alla composizione visiva, tenacemente accudito dalla fotografia della compagna Josée Deshaies e sfacciatamente assecondato dalla spigolosa fisicità dell’attore “non-feticcio” Laurent Lucas, predilige il movimento trattenuto dalle immagini alla frenesia servile della marcia narrativa. Movimento di corpi in spazi chiusi, spesso abbozzi di movimento (la danza sur place di Romane Bohringer in Quelque chose d’organique, la pacatezza estatica di Mathieu Amalric in De la guerre) che suggeriscono lavorio interiore, sensibilità e abbandono. Tracce di un processo intimo letteralmente infilmabile, increspature appena accennate sulla tela dell’inquadratura che offrono una direzione senza indicarla, propongono una traiettoria senza imporla: quella dell’identità unica e irripetibile dei soggetti ripresi. Ecco perché questi germi di movimento possono improvvisamente scatenarsi in balli vertiginosamente accelerati (la danza in vorticoso fast forward di Jérémie Renier sulle note di Marcia Baila dei Rita Mitsouko in Le Pornographe) o culminare in gesti oscuramente sacrificali (il prefinale di Tiresia): ciò che conta è esclusivamente il loro peso specifico, la loro umanissima, insondabile profondità. L’imperscrutabile altrove dal quale provengono.


Spazi chiusi, si diceva. Ma non spazi di squilibrio o alienazione. In questo cinema liberamente aritmico in cui ogni sequenza reimposta il metronomo e genera un tempo singolare, i microcosmi a tenuta stagna configurano spazi di stabilità e comprensione. La chiusura non coincide banalmente con l’oppressione, ma fornisce l’occasione di un confronto serrato con l’altro e l’osservazione minuziosa - o meglio la viva esperienza - di stati dell’essere ignoti al soggetto che li prova: nel chiuso degli spazi, il chiuso della coscienza si apre a territori di esistenza inesplorati. Quelque chose d’organique: la casa nella periferia di Montreal diviene il laboratorio in cui osservare in vivo il disfacimento molecolare dell’amore di Marguerite e Paul. Le Pornographe: la camera di Jacques si tramuta in una cella monastica nella quale, tra reminiscenze bressoniane e sentori quasi petrarcheschi, l’appesantito pornografo riflette sul passato e medita sul presente, consegnando le residue speranze all’avvenire. Tiresia: nell’angustia di un carcere domestico, Terranova scruta dallo spioncino l’irreparabile degradazione della copia perfetta, l’appassire della rosa presa in ostaggio. E si ha addirittura quest’impressione paradossale: più gli spazi si riducono più la viva esperienza della conoscenza si amplifica, s’intensifica. Come avviene in De la guerre: non solo l’isolamento giubilatorio nel Reame, ma persino l’asfissiante reclusione in una bara diventa anticamera del sublime (non come concetto astratto, ma come esperienza sensibile). Infine L’Apollonide: casa chiusa per antonomasia, il postribolo parigino si spalanca in una serie di pannelli che restituiscono ai soggetti femminili quell’identità e quella dignità negate loro dalla società e dalla scienza. Se la maison close imprigiona le ragazze nell’istituto sociale della prostituzione, Bonello, con i suoi Souvenirs, le sprigiona cinematograficamente. Detto altrimenti, nel cinema di Bonello la coercizione ambientale non comporta repressione individuale o riduzione a oggetto di consumo visivo, ma, al contrario, acuisce la sensibilità e precisa l’identità (non è fortuito che nel suo cinema persino gli esterni siano ripresi come fossero interni: non ambienti che contengono il soggetto ma frammenti di spazio che si dispiegano attorno al soggetto). Spazi chiusi, luoghi dell’essere.

lunedì 2 luglio 2012

C'era una volta in Anatolia (2011), Nuri Bilge Ceylan

Nel paesaggio lunare dell’Anatolia, una carovana di tre macchine vaga alla ricerca di un cadavere seppellito in un campo. Nella prima, col commissario Naci, il dottor Cemal e l’agente di sorveglianza, si trova Kenan, il reo confesso. Nella seconda viaggia il procuratore Nurset insieme all’autista e agli addetti allo scavo. Nella terza, una jeep dell’esercito, è custodito Ramazan, il secondo sospettato. La perlustrazione gira a vuoto, dal momento che Kenan afferma di non ricordare esattamente il luogo del seppellimento poiché era ubriaco, ma la sosta notturna in un piccolo villaggio cambia le carte in tavola.

 

Definire C’era una volta in Anatolia un poliziesco tout court sarebbe una sciocchezza sesquipedale, eppure il sesto lungometraggio del cineasta turco Nuri Bilge Ceylan si ispira a un’autentica indagine poliziesca: la ricerca di un cadavere effettivamente compiuta da Ercan Kesal (cosceneggiatore del film nonché interprete nel ruolo del sindaco Mukhtar) quando prestava servizio come medico in Anatolia. Insieme allo stesso Kesal e alla moglie Ebru (cineasta, attrice e sceneggiatrice), Ceylan ripropone la squadra creativa de Le tre scimmie per riscrivere lo spunto di partenza in chiave cinematografica. Il primo scoglio da superare consiste nella durata: comprimere un evento durato circa dodici ore in due ore e mezzo (il minutaggio finale, notevole ma perfettamente giustificato dalle esigenze della narrazione, è il risultato della scrematura di un primo montaggio di circa duecentodieci minuti). Il secondo accorgimento riguarda invece la costruzione di un racconto in cui gli spettatori condividano il sapere dei personaggi senza avere immediatamente la soluzione dell’enigma (la conoscenza dei fatti si delinea letteralmente strada facendo). Il terzo espediente, infine, concerne la determinazione di una coscienza centrale che, pur non monopolizzando la scena, fornisca un punto di riferimento visivo e cognitivo allo spettatore (centralità assegnata al dottor Cemal, interpretato da Muhammet Uzuner, che col passare dei minuti si afferma come personaggio cardine).


Ed è innegabile che, forte di questa triangolazione tra durata, andatura indiziaria e punto focale, C’era una volta in Anatolia sia di gran lunga e senza ombra di dubbio la pellicola più convincente e risolta di Nuri Bilge Ceylan: gli inospitali ammiccamenti di Uzak, la compiaciuta indolenza de Il piacere e l’amore e soprattutto la dissonante incongruenza de Le tre scimmie lasciano spazio a una riuscitissima sintesi stilistica. Stavolta narrazione e rappresentazione armonizzano mirabilmente, dando vita a un film in cui la coralità dell’impianto (la carovana delle tre macchine scarrozza una quindicina di personaggi) non ostacola la precisazione dei singoli caratteri né intralcia il ritmo di una progressione drammatica che, episodio dopo episodio, si carica di sfumature confidenziali e lampi inaspettati (la crescente intesa tra il dottore e il procuratore Nurset; la folgorante comparsa di un volto scolpito nella pietra che spaventa il medico appartatosi a mingere nella steppa). Il tono del racconto oscilla felicemente tra il grottesco delle beghe burocratiche e la mestizia delle confessioni intime: se il primo registro colora la narrazione con tinte ridicole (rese ancora più squillanti dalla lontananza dai luoghi del potere), il secondo la impregna di note profondamente malinconiche (il racconto della morte annunciata della moglie del procuratore; la rassegnazione del commissario Naci).



Concentrata sulla caratterizzazione dei personaggi e sulla tenuta narrativa, la scrittura si tiene alla larga dallo psicologismo spicciolo, anche quando si dedica alla raffigurazione di dinamiche meschine e potenzialmente avvilenti (le dispute tra il procuratore e il commissario, le accuse di sadismo rivolte al reo confesso Kenan). A contare non è tanto la costruzione di personalità rigidamente qualificate e di facile lettura (per quanto alcune figure di contorno sfiorino la caricatura, come il sergente ultrazelante), ma il tratteggio di caratteri a bassa definizione e soggetti al mutamento: il confronto reciproco tra i personaggi apre continui varchi nei loro partiti presi, li obbliga a ripensare agli altri e a se stessi (lo sconcerto provato dal commissario di fronte all’irriducibile altruismo di Kenan; l’incapacità del dottore nel sostenere il proprio sguardo davanti allo specchio). Non c’è scetticismo o autoindulgenza che tenga, la notte passata nel cuore dell’Anatolia lascia un segno indelebile nelle coscienze dei singoli (la comparsa della bellissima figlia del sindaco nel villaggio di Ceceli: un cataclisma a lume di candela). Un processo di trasformazione che si nutre delle suggestioni ambientali come cassa di risonanza dell’interiorità (si pensi al dialogo “alabiale” tra il dottore e l’autista Arab: disancorate dalla sorgente sonora umana, le parole sembrano scaturire direttamente dalle vibrazioni del paesaggio).


Ciononostante - e in questo, secondo chi scrive, risiede il limite non solo del film ma del cinema di Ceylan - C’era una volta in Anatolia tradisce una dipendenza dalla dimensione narrativa che gli impedisce di svincolarsi dall’obbligo di raccontare, di liberarsi, sia pur provvisoriamente, dalla tirannia dell’intenzione comunicativa (“Sono consapevole del fatto che sia un film difficile per lo spettatore, ma al tempo stesso rivendico la presenza di un contenuto. Non vi è nulla sullo schermo che io non possa giustificare e sono in grado di rispondere a domande relative a ciascun dettaglio e di spiegare il comportamento o le battute di ciascun personaggio”, dal pressbook). Persino i momenti di apparente deriva visiva (la camera che segue la caduta di una mela dall’albero finché non si ferma nel greto di un ruscello) o di enfatizzazione del fuori campo (l’autopsia non mostrata esplicitamente ma resa tangibile dai rumori della rimozione degli organi e dallo sgocciolio), sono pienamente riconducibili al dominio metaforico (l’inchiesta si incaglia; il dottore si sporca di sangue). Sudditanza narratologica che tuttavia toglie poco o nulla alla riuscita di un film splendidamente girato in digitale (con una Sony F35) e magnificato da un formato panoramico che esalta la stepposa vastità della regione anatolica. Grand Prix Speciale della Giuria al 64º Festival di Cannes.


Recensione pubblicata su www.spietati.it.